Halloween è una forma contratta scozzese della frase ‘All Hallows’Eve’, che significa di ‘Notte di tutti gli spiriti sacri’. E’ una festa che trova origine nei Celti, un insieme di popoli indoeuropei che nel periodo di massimo splendore (IV – III secolo a.C.) erano estesi in un’ampia area del nord Europa, dalle isole britanniche fino al bacino del Danubio, dalla pianura padana all’Iberia. Uniti per etnia, nel fondo linguistico e religioso, ma politicamente frazionati, furono progressivamente sottomessi e assimilati da parte di altri due gruppi indoeuropei (i Germani da nord, i Romani da sud), restando confinati alle sole Isole britanniche (lì infatti sono rintracciabili gli eredi storici dei Celti: le popolazioni dell’Irlanda e delle frange occidentali e sette
I popoli antichi, a differenza dei moderni, vivevano a stretto contatto con la natura e le loro feste principali ne celebravano SEMPRE i diversi momenti. I Celti avevano un calendario lunare, misuravano cioè il tempo sulla base dei cicli lunari trascorsi (un mese lunare è lungo 28 giorni e mezzo, il tempo che impiega la luna di passare da nera a nuovamente nera) e lo scorrere del giorno da tramonto a tramonto. Un passaggio centrale nell’anno era quello dalla stagione calda e luminosa a quella fredda e più oscura, perché condizionava tutte le attività da svolgersi. Era il momento in cui i Celti, prevalentemente pastori, dovevano stravolgere le proprie abitudini ed aspettare a riposo al villaggio, insieme alla terra, la fine dell’inverno rigido e spietato e il ritorno della luce e del tepore primaverili.
La notte di Samhain – in antico irlandese ‘fine dell’estate’ – da cui Halloween deriva, rappresentava per i Celti la vigilia dell’inverno, cadeva il giorno della luna nera di novembre, poiché la luna era il loro astro di riferimento e poichè è la luna che porta con sé le nuove temperature. Era una notte sospesa nel tempo – tra le due metà dell’anno – una notte molto potente, in cui i confini si dissolvevano ed era possibile comunicare con gli spiriti immortali dell’Altromondo (regno in cui i Celti credevano che abitasse tutta l’energia). Per i Celti non c’erano né inferno, né divinità completamente negative…non c’era il sinistro, ma il magico! Un momento importante nelle campagne attorno ai centri abitati, era l’accensione dei fuochi: il fuoco rappresentava l’energia vitale nel momento dell’anno in cui l’oscurità sembrava prendere il sopravvento, serviva a proteggere i mortali dalle forze del caos che abitavano il mondo degli spiriti, a infondere calore e speranza, a guidare le anime verso casa. L’usanza di svuotare delle grosse rape (o delle zucche) ad Halloween, per inciderci volti e illuminarle con una candela, è rivisitazione di queste antiche cerimonie.
Nel Popol vhu (il libro dei miti Maya) si narra una leggenda molto cruenta: la storia di due fratelli (Hun e Vucub Hunahpu) che giocando a palla sopra il regno dei morti (lo Xibalba) causarono le ire di coloro che lo abitavano, perciò vennero decapitati e le loro teste appese ad un albero che prese a produrre zucche (che in realtà erano veri e propri teschi parlanti!). La storia di Halloween si è affermata nella cultura popolare spesso sovrastando il culto locale dei morti, oggi i travestimenti dei bambini che incarnano spiriti e creature dell’altro mondo assolvono allo scopo comune a tante culture popolari e contadine: dimensionare la paura della morte aiutando a ricucire lo strappo tra il mondo dei vivi e di chi non c’è più. Ogni tradizione possiede un particolare rituale per celebrare la morte e ricordare i defunti che hanno lasciato le loro famiglie, esso è un elemento ricorrente in ogni tempo e luogo. Quella di Halloween era così forte che la religione cattolica l’ha assimilata, spostando dal tredici maggio al primo di novembre la celebrazione di Ognissanti (istituita da Papa Gregorio IV nell’840) e dedicando il secondo giorno di novembre alla celebrazione dei defunti.La scelta, probabilmente volta a reinterpretare il passato in forma cristiana, contribuì a generare una visione negativa delle forze della natura invocate dai Celti, oscurando la vitalità e la gioia di questa festa a vantaggio degli aspetti macabri esaltati nella versione moderna.
SAMAHIN CELEBRAVA L’ETERNA CIRCOLARITÀ DELLA VITA, COSÌ PER IL SEME CHE SAREBBE STATO ACCOLTO DALLA TERRA AMOREVOLE, COME PER OGNI UOMO CHE NASCE, CRESCE, MUORE, RINASCE: DALLA LUCE AL BUIO, DAL BUIO ALLA LUCE.
In India, luogo del mondo che ci permette di osservare una società in cui la tradizione è arrivata ininterrotta ai giorni nostri, durante la luna nuova di novembre, si celebra il Diwali, una festa stagionale che segna l’avvento della stagione fredda. Avvenendo in una notte di luna nera, quando il cielo è oscuro, Diwali ha lo scopo di combattere le tenebre e rafforzare la luce grazie alle migliaia di lampade accese, alle preghiere e all’unione con familiari e amici. Uno spettacolo meraviglioso, che serba in sé l’essenza delle feste dei molti luoghi del mondo di questo periodo: la speranza e l’augurio che l’amore scaldi i cuori e che gli Dei ci siano amici.
Giulio Cesare, uno dei personaggi più importanti della storia, nel I secolo a.C. scrisse che i Galli (il nome con cui i Romani chiamavano i Celti) celebravano in quel momento dell’anno una divinità del freddo invernale e della Morte che per lui corrispondeva al Dis Pater dei romani. Dis era il Mondo Sotterraneo o Regno dei Morti, dal quale, per i Galli, emerse il primo antenato e al quale tutti i suoi discendenti avrebbero fatto ritorno. I Romani consideravano Plutone, anche appellato Dives, Dio delle ricchezze del sottosuolo, poiché ogni cosa ritorna alla terra e da essa trae origine. Il mito narra che Plutone stanco del suo regno tetro, salì in superficie e rapì Proserpina, figlia di Cerere, la Dea materna della terra e della fertilità, la quale pianse disperata e provocò lo sconvolgimento della natura. Plutone fu costretto da Giove a liberarla, ma per legarla per sempre a sé le offrì un melograno, cibo dei morti: fu così stabilito che, per averne mangiati sei chicchi, Proserpina avrebbe trascorso sei mesi con lo sposo (autunno e inverno) e sei mesi con la madre (primavera ed estate). E’ proprio al mito di Proserpina e all’ira di Cerere, che si fa risalire l’alternanza delle stagioni. In Grecia, nello stesso tempo di Samahin (la luna nuova di novembre), in onore delle due Dee e del lutto della madre per la figlia, si celebravano le Tesmoforie, feste per sole donne, della durata di tre giorni, dette ‘la cerimonia del dolore’ che precedevano la semina.
Gli antichi Romani festeggiavano i Saturnalia a dicembre inoltrato, giorni in cui pareva che il mondo fosse rovesciato (i padroni servivano i servi) e in cui si credeva che le dinività infere (Saturno o Plutone, custodi delle anime dei defunti e protettori delle campagne) vagassero per il mondo poiché la terra non poteva essere coltivata a causa del freddo e andassero placati con offerte di doni e feste in loro onore perché tornassero nell’aldilà e favorissero il raccolto della stagione estiva. I Saturnalia culminavano con i Divalia, celebrati nel giorno del Solstizio d’inverno, tra il 21 e il 22 dicembre, ovvero il giorno più corto dell’anno, il dies bruma (dal latino, giorno brevissimo). La stasi del Sole, ora come allora, sarebbe durata sino al 25 dicembre, momento in cui la giornata avrebbe ripreso ad allungarsi, assicurando la vittoria della luce sulle tenebre e dando il via ai festeggiamenti del Natale del Sole Invitto.
La festa romana che più appare simile alle celebrazioni del cambio stagionale di altri popoli, è spostata in avanti nell’arco temporale perché ogni luogo del mondo ha i propri climi e l’inverno può arrivare prima o dopo. Si tratta sempre di feste che vogliono scongiurare ogni tristezza, propiziarsi la buona riuscita dei raccolti e incoraggiare i propri popoli alla gioia. Nella lingua indoeuropea la radice ‘D- ’ è presente in parole indicanti ‘luce’, così la radice ‘DIV-’ indica ‘luce del cielo, ciò che è celeste’.
Un augurio di luce a tutti coloro i quali leggeranno, che possano i vostri spiriti cercare sempre oltre la forma, giungendo col cuore puro di un bambino all’essenza delle cose.
Noemi Marinelli Barbera