Di Ezio Albrile
La Val di Susa, a pochi chilometri dal capoluogo torinese, rappresenta per una marmaglia inebetita di cose occulte un vero e proprio polo di attrazione; fors’anche grazie alla gran quantità di pacciame letterario e non sorto intorno al Musinè, un caliginoso monte che si erge all’ingresso della vallata. Proseguendo oltre, giunti in prossimità di Avigliana, da un lato, maestoso, troviamo il Monte Pirchiriano con la famosa e poderosa abbazia della Sacra di S. Michele; mentre di fronte, più dimesso, ci appare il Monte Caprasio, anch’esso sacro sacello di cose d’altri tempi. In particolare a Celle, una frazione di Caprie, abitato eponimo, troviamo l’antica Chiesa di Santa Maria Assunta. Resa irriconoscibile dalla consueta metamorfosi barocca, essa rivela l’essenza più arcaica, romanica, nella suggestiva e misteriosa cripta.
Il vocabolo crypta, dal greco kryptō «nascondo», s’incontra come sostantivo soltanto in latino. Era utilizzato per indicare nella casa e nel tempio romano qualunque ambiente sotterraneo. In epoca cristiana si trasformò nell’ipogeo cimiteriale per eccellenza; ciò si realizzò in special modo a partire dal IX secolo, quando si compirono le grandi traslazioni di reliquie dal suburbio al chiuso delle mura cittadine. La grande diffusione delle cripte si ebbe quindi nei principali luoghi di inurbamento del verbo cristiano, ma vestigia di esse sono sparse in tante parti del nostro paese, e un loro studio sistematico è ancora lontano dall’essere realizzato.
Molte volte la cripta conserva (perché riadoperati) frammenti della chiesa più antica; è il caso di Santa Maria Assunta, che cela al suo interno la primitiva chiesetta, interrata, risalente al X secolo. Il tutto è stato sfigurato nel 1741 dagli usuali e grotteschi interventi barocchi. Della costruzione antica non rimangono che l’abside, la cripta e il campanile.
Di fronte alla chiesa si trova un grande antro aperto nella roccia: la tradizione lo ritiene il rifugio dell’eremita Vincenzo, il santo a cui è dedicata la cripta. Cenni alla sua biografia, permettono forse di comprenderne il cammino spirituale, dal mondo all’ascesi. San Giovanni Vincenzo o Giovanni da Besate (955 ca.-1000) fu arcivescovo di Ravenna con il nome di Giovanni XIII tra il 986 e il 997. Forse tediato dagli obblighi secolari, si diede a vita raminga, e verso l’anno mille raggiunse il monte Caprasio. Luogo ideale a suo dire, per condurre vita ascetica e contemplativa. Ed è grazie alla sua devozione e fatica che potè sorgere la grande abbazia della Sacra di San Michele.
La leggenda racconta che Vincenzo e altri eremiti volessero costruire sul monte Caprasio una Chiesa in onore di San Michele Arcangelo, quindi intrapresero la raccolta dei materiali necessari alla costruzione. Ogni notte però parte dei laterizi spariva; Vincenzo volle scoprire chi fossero i ladri e si fece legare a una parte delle travi in legno raccolte. Il giorno seguente, trasportato dagli Angeli, si risvegliò sul monte antistante, il Pirchiriano, dove ora sorge la Sacra di San Michele. Questa esperienza estatica è figurata plasticamente nell’unico affresco ancora chiaramente leggibile nella volta della cripta.
Chi si reca nella grotta in cui avrebbe trovato rifugio Vincenzo, oggi trasformata in oratorio chiuso da una facciata in muratura in stile barocco, realizzata all’inizio del Novecento, si può rendere conto delle condizioni estreme di vita a cui l’asceta si sarebbe esposto, in un luogo e in un clima (soprattutto nel periodo invernale) ostili. Un ambiente sicuramente favorevole al concretizzarsi di esperienze estatiche.
La pittura sulla volta della cripta, dipinge il volo visionario di Vincenzo, un unicum nell’iconografia: il corpo del santo, accasciato in un tavolaccio, è un mero involucro affrancato dell’anima, che libera s’innalza attorniata dai quattro Angeli tetramorfi (Leone, Toro, Uomo, Aquila), simboli degli Evangelisti. Sono i quattro Angeli della visione di Ezechiele (Ez. 1, 14-15) e dell’estasi di Giovanni a Patmos (Ap. 4, 6-7), che raramente sono utilizzati per accompagnare un santo. Nella stragrande maggioranza dei casi sono collocati nel catino absidale ai quattro lati della mandorla contenente il Cristo.
L’ascensione dell’anima accompagnata da uno stuolo di Angeli è un’iconografia comune nel pensiero cristiano antico. Un tema che si trova compiutamente elaborato nei testi apocalittici e in particolare nel contesto di una presunta eresia cristiana chiamata gnosticismo. Nei testi gnostici l’anima è rappresentata ascendere attraverso le sfere planetarie governate dagli Arconti: una liberazione dai lacci della materia, la hylē, conseguita sia in vita che nel post mortem e preparata attraverso specifiche pratiche rituali. Esempio notevole a riguardo è l’apocalisse di Zostriano, uno dei testi visionari del fondo gnostico di Nag Hammadi, che racconta il passaggio in una serie di mondi ipercosmici, frutto probabilmente di un’estasi allucinogena. Un viaggio nell’universo eonico compiuto dallo stesso Zostriano, al quale degli angeli interpretes dischiudono, per livelli ascensionali, la conoscenza dei misteri divini.
Analoghe vicende dell’Anima si rintracciano in relazione al raggiungimento della vetta celeste ove alberga la «Madre lucente». È la dottrina degli gnostici Arcontici narrata nella loro Symphōnia: nella Ebdomade planetaria risiedono sette Arconti, uno per ogni cielo; ogni Arco
nte possiede una taxis, una «legione» di Potenze, di Angeli che vegliano su ogni cielo. Una cosmologia affine è presentata in un testo gnostico, la Pistis Sophia, dove il mondo trascendente è sbarrato dal velo del firmamento, lo stereōma. Esso è provvisto di cortine e porte ed è abitato da Arconti, Potestà e Angeli, i quali formano le sfere stellari inferiori, le taxeis, gli ordini astrali che badano alle anime nel loro transito.
nte possiede una taxis, una «legione» di Potenze, di Angeli che vegliano su ogni cielo. Una cosmologia affine è presentata in un testo gnostico, la Pistis Sophia, dove il mondo trascendente è sbarrato dal velo del firmamento, lo stereōma. Esso è provvisto di cortine e porte ed è abitato da Arconti, Potestà e Angeli, i quali formano le sfere stellari inferiori, le taxeis, gli ordini astrali che badano alle anime nel loro transito.
Ma il più preciso riferimento al nostro dipinto proviene dall’Apocalisse canonica, dalla quale derivano anche i quattro animali simbolici, i quattro viventi (Leone, Toro, Uomo, Aquila).
Lacerati i primi sei sigilli, i Quattro Angeli preposti ai quattro lati della terra arrestano i Venti che spirano dai quattro punti cardinali (Ap. 7, 1-2). Un tema arcaico connesso alle tradizioni misteriche sull’anima sospinta nell’aldilà da una folata di vento, un turbine che ha le sembianze di uno o più messaggeri alati, di Angeli. In un passo del Fedone, Platone parla dell’anima in termini di «soffio», di pneuma. È un indizio importante: l’anima è il respiro cosmico che nutre la vita individuale, essa si identifica con il vento che spira nelle antiche teogonie di un Ferecide Siro (Fr. 60 [Schibli]) o di un mitico Orfeo. Sono i frammenti orfici, i più vicini al sentire neoplatonico, che parlano di uno pneuma labron, un impetuoso soffio cosmogonico. Un insegnamento trascritto fedelmente negli Oracoli caldaici, summa del sapere teurgico antico.
Il corpo di San Vincenzo sonnacchioso nel giaciglio, l’anima spirata in alto dai quattro Angeli, sono accadimenti oltremondani ripresi in una rinnovata prospettiva. Anche se le vicende legate alla discesa e alla risalita di un’anima o di creatura divinizzata da e verso il cielo non sono certo una specificità della religione cristiana, ma rimandano a un composito milieu entro il quale l’elemento iranico è sicuramente determinante, ne osserviamo la persistenza simbolica.
Un esempio sono le tombe rupestri di Dario I e dei suoi successori a Naqš-i Rustam e Persepoli, sovrastate da un rilievo scultoreo unico e originale. Il Grande Re appare su un piano sorretto dai rappresentanti di trenta nazioni sconfitte, ma senza interagire con essi. Non trionfa né riceve tributo dai suoi nemici. Egli è solo, davanti a un altare del fuoco, con la mano sinistra regge un arco, mentre la destra è alzata in segno di saluto verso l’icona alata e fluttuante del dio Ahura Mazdā. In alto, verso l’angolo destro della scena, una falce lunare inscritta in un cerchio. È chiaro che non si tratta di un motivo puramente decorativo. La natura della figurazione e il contesto funerario presuppongono una vicenda escatologica in cui l’anima del dinaste ascende al cielo e percorre gli spazi siderali per raggiungere il Paradiso. Elemento saliente di tale viaggio è l’attraversamento di una serie di «stazioni» o luoghi organizzati secondo i paradigmi di uno Zodiaco arcaico. La Luna è una tappa in tale cammino, scandito da precisi ritmi temporali. In questo senso parlano infatti gli undici raggi sovrastati dalle relative mezzelune, segno forse di una ciclicità ritmata nelle fasi lunari, entro spazi cronologici scanditi tra i poli estremi di novilunio e di plenilunio. Tale ascensione dell’anima, che giunta all’apice dei cieli, si asside in un trono accanto al dio Ohrmazd è un motivo ben documentato nei testi avestici (cfr. Widewdad 19, 31 ss.; Hadoxt nask 2), che rinvia certamente a modelli babilonesi, principale fonte a cui attinge l’immaginario di tutto il mondo classico e vicino-orientale.
Le alterne vicende delle anime iraniche, sospinte in alto dai soffi levantini e in basso dai venti boreali, sono state reinterpretate in chiave misterica nella devozione, tutta occidentale, recata al «Sole persiano» Mithra; il dio invincibile la cui realtà «antroposofica» è svelata nel racconto che ne fa il neoplatonico Porfirio (De antr. 25 [Simonini, pp. 70-71]): l’anima, soffio impalpabile, si muove nel cosmo sospinta dai venti, il vento freddo del nord, boreale (Boreas), per le anime che scendono nella generazione, e il vento caldo del sud, di Noto (Notos), per le anime che se ne separano. Quindi in prossimità della morte si presenta il vento del nord, il vento di Bora, per sospingere l’anima nel ciclo delle trasmigrazioni. L’anima è rappresa, congelata nel freddo della generazione corporea. Al contrario, la brezza calda del sud dissolve l’anima, rendendole possibile il ritorno verso il mondo divino. Secondo questo insegnamento, il vento del nord è il vento delle anime serrate nell’avvicendarsi delle morti e delle nascite, mentre la brezza del sud metterebbe fine a tale dolorosa ripetizione.
Nell’iconografia mithriaca, al centro della nicchia sta il dio, sovrastato dallo Zodiaco, nell’atto di uccidere il toro, con i dadofori Cautes alla sinistra (= Sud) e Cautopates alla destra (= Nord), nei lati dei rispettivi venti divinizzati, Noto e Bora. Sol è raffigurato dal lato sud mentre sorge all’orizzonte, Luna mentre tramonta a nord, dove Cautopates effigia l’elemento oscuro, la notte, il regno della morte entro il quale, di corpo in corpo, si muovono le anime. Il Sole nascente e la Luna calante delimitano la vicenda umana nello spazio tra vita e morte, ove i due termini hanno un differente valore semantico: la «vita» intesa come vita imperitura, nel ritorno verso l’originario mondo divino, e la «morte» intesa come nascita, vita terrena avvinta ai lacci del divenire. Ed è sicuramente mutatis mutandis lo stesso messaggio che ci vuole trasmettere l’esperienza estatica di San Vincenzo, in volo verso il magico monte Pirchiriano. E l’Himmelsreise dell’Anima si conclude con la sua deificazione.