Se fossimo extraterrestri in missione per comprendere gli umani di quaggiù, ci stupiremmo di un sacco di cose che riguardano la Terra degli uomini. Poche ci sconcerterebbero quanto lo strano senso della storia della nostra specie, l’intermittenza nel ricordo e nell’indignazione per le tragedie. Sta passando quasi sotto silenzio l’anniversario delle due bombe atomiche sganciate nell’agosto 1945 dall’esercito americano sulle città di Hiroshima e Nagasaki. Le solite cerimonie ufficiali, ogni anno più stanche e ripetitive, ma nessuna riflessione autentica, nessun pentimento da parte Usa, soprattutto un oblio progressivo su una tragedia unica nel suo genere. Intendiamoci, la storia dell’umanità è scritta con il sangue da millenni, guerre e stragi sono talmente ricorreenti e numerose che pochi storici sanno determinarne il numero. Scriveva già Eraclito che “la guerra è madre di tutte le cose, e di tutte regina”. Il grande storico romano Tito Livio osservò che la guerra nutre se stessa. Potremmo aggiungere che il gesto che riesce meglio alla nostra specie è uccidere il proprio simile, tanto che Hannah Arendt ha potuto parlare di banalità del male.
Tutto questo, però, non ci porta al punto: stiamo rimuovendo progressivamente Hiroshima e Nagasaki, il cui tragico significato, la cui lezione ignorata è che furono la dimostrazione che , per la prima volta da quanto l’uomo è apparso sul pianeta, qualcuno era in grado di distruggere completamente l’umanità, gran parte delle sue opere e contaminare sino alla sterilità definitiva la natura. La memoria, dicevamo, è intermittente ed imposta da chi vince le guerre. Sappiamo tutto di ogni rappresaglia dell’esercito tedesco in Italia, celebriamo con interminabili giornate il ricordo di stragi commesse dagli sconfitti di ieri e dell’altro ieri, ma sorvoliamo, ahimé, sulle malefatte dei “buoni”, che è il sinonimo menzognero di vincitori.
La tragedia degli ebrei nella seconda guerra mondiale è diventata una religione obbligatoria discutere la quale comporta pene detentive unite all’espulsione perpetua dal consorzio civile, e in parte ci può stare, ma che dire di Hiroshima e Nagasaki ? Non è questione di macabre contabilità dei massacri, giacchè basterebbe rammentare le vittime delle rivoluzioni comuniste per restare sgomenti. No, le bombe atomiche sono uniche e non possono essere ricordate solo come un tragico episodio bellico perché è la qualità intrinseca del male, se ci è permesso il termine, non la sua vastità- che molte altre vicende passate e successive hanno sorpassato – a renderle tali.
Stragi, massacri, genocidi fanno parte del libro nero dell’umanità da sempre, ma in nessun tempo vi fu la percezione che l’uso massiccio di un’arma avrebbe comportato la fine dell’umanità. Adolescente, ascoltai da un dotto dell’epoca una giustificazione di Little Boy, ragazzino, e Fat Man, grassone, i nomignoli attribuiti in America alle due bombe sganciate sulle città martiri. Salvarono, sosteneva , moltissime vite umane, giacché un attacco di terra avrebbe avuto un prezzo di sangue ben più drammatico di quello pagato dai disgraziati abitanti delle due città. Inoltre, faceva capire, non era così certo il devastante esito della nuova arma. Rimasi sconcertato dal cinismo e dalla disonestà intellettuale. Nella fattispecie, era tutto falso, giacché la bomba di Nagasaki fu lanciata tre giorni dopo che la prima aveva già compiuto il suo terribile lavoro. Avrei capito negli anni quanto tali argomenti fossero comuni tra gli uomini di potere e i loro servi di ogni tempo. Doctores tiene la iglesia, scrisse un gesuita spagnolo del secolo XVI , dottori ha la chiesa, a significare che ogni cosa può essere giustificata se si ha il potere.
Julius Robert Oppenheimer, uno degli scienziati che lavorarono alla bomba, visse il resto della sua vita in profonda crisi etica, ed è nota una sua affermazione: “è una sensazione cruda e bruciante che nessuna volgarità, nessun humour, nessuna esagerazione può estinguere: i fisici hanno conosciuto il peccato”. Il nichilismo morale arrivò al punto di attribuire nomignoli scherzosi all’oggetto di un massacro che toglie il fiato. A Hiroshima , dove l’obiettivo era la popolazione civile, morirono quasi all’istante in ottantamila, che divennero oltre il doppio entro l’anno. A Nagasaki si puntò piuttosto sulla distruzione industriale, ma a fine 1945 i morti raggiunsero il numero di centomila. La contabilità dovette essere aggiornata per decenni. Certo, le bombe tedesche su Coventry, quelle anglo americane su Dresda e Amburgo fecero di peggio, come i gas che decimarono la gioventù europea sulle trincee del 1914-18. Ma solo in Giappone fu liberata energia atomica in grado di determinare una distruzione definitiva.
Un danno collaterale – in America dicono così- fu la tragedia degli hibakusha, le migliaia di persone emarginate, ghettizzate, isolate per il timore di propagare le contaminazioni, e poi i contaminati e deformati che hanno oltrepassato le generazioni. Oggi, Hiroshima e Nagasaki sono città ordinate, pulite e con radiazioni nella norma: in effetti gli ordigni del 1945 erano quasi artigianali se paragonati ai modelli successivi, contenevano poche decine di chilogrammi di materiale radioattivo ed esplosero a 500 metri da terra. Oppenhiemer non volle partecipare alle ricerche relative alla ancor più devastante bomba all’idrogeno e, guerra fredda a parte, dovremmo forse ringraziare scienziati come l’italiano Pontecorvo che passarono all’Urss per consentire al regime comunista di dotarsi di analoghi armamenti. Un triste equilibrio del terrore ha attraversato quarant’anni di storia. E’ opinione corrente che gli americani abbiano punito tanto duramente il Giappone ormai sconfitto anche per mandare un preciso segnale al momentaneo alleato Stalin. Chi è tanto più forte abusa inevitabilmente della sua superiorità. Raramente, tuttavia, è capitato nella storia che attribuisse a se stesso il ruolo di buono e di liberatore.
Nei decenni successivi a Hiroshima, il club delle potenze nucleari si è allargato, segno che l’umanità comprende solo il linguaggio della violenza e del ricatto. Non sappiamo quante bombe atomiche e all’idrogeno siano custodite negli arsenali mondiali, ma certo sono in grado di annientare la specie umana e il pianeta intero. L’ultimo arrivato nel club atomico, il presidente ereditario comunista nord coreano, il giovane Kim Jong-Un, ha impartito una lezione di realismo politico ai giganti. Tiene sotto il tallone della povertà e del terrore la sua nazione, ma ha dimostrato che i suoi missili atomici funzionano e la grande America è dovuta scendere a patti con lui. Intere aree dell’oceano Pacifico sono contaminate da decenni per gli esiti degli esperimenti francesi ( il famoso atollo di Bikini) mentre dei disastri atomici prodotti in Cina e Unione Sovietica poco sappiamo per il silenzio dei governi. Spaventa il non detto, tutto quello che non conosciamo sugli esiti a medio e lungo termine delle bombe nucleari, delle scorie, ma il silenzio prevale come il lento oblio di ciò che accadde a partire da quei terribili giorni dell’agosto 1945.
Accettiamo la versione dei “buoni” vincitori: Fat Man e Big Boy uccisero sì, deformarono, contaminarono, cambiarono le generazioni e modificarono la natura, ma fu per la grande causa della libertà e per salvare altre vite , quelle preziose dei militari alleati, non certo quelle di scarto dei “cattivi”, i giapponesi battuti che non si arrendevano non per follia, ma nella speranza di spuntare accettabili condizioni di pace. Non fu così, e il progredito Occidente mostrò che il mondo non è poi tanto cambiato, da quando Brenno, il re gallo che nel 390 a.C. mise a sacco Roma, gettò la spada sulla bilancia dell’ oro che la città doveva versargli come tributo di guerra, proclamando il proverbiale “guai ai vinti”. Ma esistono vincitori sulla terra degi uomini, se le armi possedute ormai da molti possono farla finita con millenni di civiltà e forse cancellare la vita sul pianeta ? E’ la domanda che rimbomba da 74 anni, dopo Hiroshima, ma che viene sempre più celata in nome del potere, del dominio tecnologico, di un progresso che corre come un treno impazzito su un binario senza ritorno.
Un’orecchiabile canzonetta di cinquant’anni fa del complesso I Giganti, nel pieno della guerra fredda e all’inizio della rivoluzione antropologica che avrebbe stravolto l’Occidente, si intitolava Noi non abbiamo paura della bomba. Il testo ne svelava la ragione : non abbiamo più nessun amore, né una casa da difendere dai mali del mondo. Muoveva i primi passi il nichilismo moderno.
Roberto Pecchioli
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