Introduzione
Dell’ideologia e della “visione del mondo” di Howard Phillips Lovecraft (1890 – 1937), il Sognatore di Providence, è stato scritto molto in ambito internazionale. In Italia meritoria è l’opera di analisi critica degli scritti di HPL condotta nei decenni da Gianfranco de Turris, Sebastiano Fusco, Gianni Pilo, Giuseppe Lippi, Claudio De Nardi, Carlo Pagetti, Pietro Guarriello e altri in svariati saggi monografici e nelle introduzioni, postfazioni, note e riflessioni presenti negli apparati editoriali di antologie e omnibus (le cosiddette “Opere Complete”, via via pubblicate e ripubblicate in una miriade di formati ed edizioni da Sugar, Mondadori, Newton Compton, Fanucci, etc.). L’attenzione degli esperti, per quanto riguarda la Weltanschauung lovecraftiana, oltre che su alcuni racconti dove l’autore inorridiva – dentro e fuori metafora – per l’infausto melting pot americano, si è appuntata sui numerosi scritti critici e autobiografici, e soprattutto sulle lettere – o meglio su alcune di esse, visto che si tratta di un immenso corpus composto da circa 100.000 missive, solo in parte studiate e in una parte ancor minore tradotte e commentate in italiano (rifacendosi nella quasi totalità dei casi sui quattro volumi delle Selected Letters pubblicati fra il 1965 e il 1972 da Arkham House).
Studi importanti in tal senso si rintracciano in Italia in alcuni volumi, tra cui: Vita privata di H. P. Lovecraft (Reverdito Editore, 1987), un florilegio di ricordi dove la moglie e alcuni amici stretti e colleghi di HPL disegnano un efficace ritratto “umano” e “sociale” dello scrittore (l’edizione italiana è a cura di De Nardi); Lettere dall’altrove – Epistolario 1915 – 1937 (Mondadori, 1993), selezione di corrispondenza curata da Lippi come appendice della prima edizione mondadoriana dell’opera omnia; Diario di un incubo – Taccuini 1919 – 1935 (Mondadori, 1994), dove De Nardi propone la versione italiana completa e annotata del Commonplace Book, una sorta di “zibaldone” lovecraftiano; Teoria dell’orrore – tutti gli scritti critici (Castelvecchi, 2001), raccolta degli interventi di Lovecraft saggista curata da de Turris; L’orrore della realtà (Edizioni Mediterranee, 2007), una selezione delle lettere più “ideologiche” di HPL, a cura di de Turris e Fusco; Parola di Lovecraft – Tutti gli scritti autobiografici (Società Editrice La Torre, 2012), antologia di scritti, che riunisce quelli dove HPL parla del suo lavoro e della sua vita, curata per l’Italia da Guarriello; Antarès 2011-2016 (Bietti, 2016), un volume che raccoglie i primi 11 numeri della rivista “Antarès” curata da Gianfranco de Turris e Andrea Scarabelli, due dei quali (il n. 1 e il n. 8) sono monografie lovecraftiane; etc.
Molte riflessioni si ricavano infine dalle biografie di HPL, la più minuziosa e particolareggiata delle quali è sicuramente I am Providence (Hippocampus Press, 2013) scritta in due corposi volumi da Sunand Triambak Joshi (forse il più grande, o quantomeno il più noto, esperto al mondo dell’opera lovecraftiana), tradotta in italiano nel 2020/21 da Providence Press; un altro importante lavoro (in corso) è Vita e opere di H. P. Lovecraft, portato avanti con passione, serietà filologica e impegno da Sergio Climinti su “Dime Web”, la rivista elettronica curata dal sottoscritto e da Saverio Ceri.
Racconti, lettere, saggistica… Sicuramente meno indagate sono le suggestioni politiche che emergono dalla poetica di HPL, forte di centinaia di componimenti databili dal 1897 fino al 1936; nel 2013 è uscita negli USA presso Hippocampus Press quella che si presume essere la raccolta definitiva, la seconda edizione di The Ancient Track. Come si legge in An H.P. Lovecraft Encyclopedia di S. T. Joshi e D. E. Schulz (Hippocampus Press, 2001), la maggior parte delle poesie di HPL paga pegno alla occasional poetry (componimenti che venivano scritti, spesso su commissione, per le grandi occasioni, come le incoronazioni o i matrimoni regali) di Dryden e Pope. Molte poesie si inseriscono nel filone narrativo principale di Lovecraft, quello fantastico; altre sono dedicate agli amici, ai parenti, ai conoscenti; altre ancora sono riflessioni sulla natura e i paesaggi del New England e dell’America; altre sono satire e riflessioni politico-sociali sui primi anni del ‘900. Non siamo quasi mai di fronte a capolavori, inutile negarlo. HPL era uno scrittore di narrativa, un pensatore, un inguaribile grafomane, che non mancò mai di esercitarsi – da appassionato e senza sosta – con rime e versi, ottenendo però risultati alterni. Thomas Ollive Mabbott, un professore universitario di lettere originario di New York, fu uno dei primi studiosi di “alta caratura” a interessarsi all’opera letteraria di Lovecraft; in un saggio del 1944 dichiarò che HPL sembrava aver scritto le sue poesie “con la mano sinistra”. Il poeta e giornalista Winfield Townley Scott, in una riflessione sul corpus poetico di HPL scritta nel 1945 bollò quei componimenti come “spazzatura del diciottesimo secolo”. Del resto era Lovecraft stesso a non avere una grande considerazione delle sue poesie. Nel 1914, scrivendo all’amico Maurice Moe, affermò:
Togli la forma e niente rimane. Non possiedo una reale vena poetica, e l’unica cosa che salva i miei versi dalla totale inutilità è la cura che infondo nella loro costruzione metrica.
Ma non è tanto la qualità artistica del Lovecraft poeta che qui ci interessa. In questo nostro viaggio, in questa nostra “guida tascabile” a puntate ci muoveremo nel labirinto delle oltre 500 poesie di Lovecraft, facendo emergere per commentarle solo quelle dove più è evidente, nei contenuti, la sensibilità “politica” dell’autore: vanto per le origini culturali (classiche o moderne) europee, neopaganesimo, critica al sistema sociale americano del XX secolo, razzialismo identitario, conservatorismo rivoluzionario, socialismo nazionale, etc.
Prima parte – Le opere giovanili: 1897/1911
Agli inizi della sua “carriera” come rimatore Lovecraft si esercitò soprattutto in “imitazioni” di modelli latini e greci. E addirittura in traduzioni letterali dal latino, come fece all’età di 10 anni per i primi 112 versi delle Metamorfosi di Ovidio. Cosa in realtà molto significativa perché indica un evidente imprinting emotivo/culturale; fin dai tempi delle scuole elementari HPL sentiva che le sue “vere” origini erano altrove, lontane nel tempo e nello spazio dalle metropoli americane brulicanti della schiuma umana piovuta lì, rigurgitata da ogni continente. Forti e colorite sono le riflessioni sul problema razziale nei componimenti giovanili. Questo primo periodo inizia nel 1897, quando un HPL ancora bambino distribuiva i suoi versi in opuscoli artigianali destinati a familiari e amici (molti componimenti non sono sopravvissuti e se ne evince l’esistenza dal fatto che HPL li citava brevemente nelle sue lettere), e termina nel 1911, l’ultimo anno in cui Lovecraft scrive poesie senza un serio sbocco editoriale; con il 1912 la produzione poetica di HPL cominciò infatti a trasformarsi in un “fiume in piena”, rispetto agli anni precedenti.
1. The Poem of Ulysses, or The Odyssey (Il poema di Ulisse, o L’Odissea), 1897
Si tratta della prima opera di Lovecraft in assoluto, un componimento a metrica mista (rima interna / rima alternata) scritto dall’autore quando ancora non aveva compiuto 7 anni; siamo in sostanza di fronte all’estrema sintesi – in 88 versi – dell’intero poema di Omero L’Odissea, che HPL aveva letto nella traduzione in inglese di Alexander Pope (1725/26). È l’inizio di un percorso alla riscoperta del classicismo e dell’Europa tradizionale e ancestrale che lo scrittore di Providence non abbandonerà mai nelle poesie, e nemmeno nei suoi ben più famosi e celebrati racconti e romanzi brevi.
2. Poemata Minora Vol. II, 1901/1902)
Altra opera giovanile della quale sopravvive solo il secondo volume, diviso in cinque brevi poemi di reminiscenza classica: Ode to Selene or Diana (Ode a Selene o Diana), To the Old Pagan Religion (Alla vecchia religione pagana), On the Ruin of Rome (Sulle rovine di Roma), To Pan (A Pan) e On the Vanity of Human Ambition (Sulla vacuità dell’umana ambizione). Il libretto era significativamente Dedicato agli Dei, agli Eroi e agli Ideali degli Antichi. Lovecraft è in questo momento un ragazzino di undici, dodici anni e già manifesta nero su bianco una struggente nostalgia per un passato lontano (rispetto al continente americano di fine Ottocento, inizi Novecento) alla quale sente di appartenere culturalmente, ma pure biologicamente.
Il primo “poema minore”, dedicato alla dea lunare e alla notte, sottolinea lo squallore del mondo moderno così come appare alla luce del Sole: la “sordida” città (una ideale metropoli americana) è caratterizzata in modo continuo e rumoroso da “disordine”, “confusione”, “agitazione” (unrest); il neonato secolo, sopraffatto dal dolore, appare come un incubo industriale di “strade fumose” e di “telai sferraglianti”; all’imberbe HPL non resta che pregare Selene perché lo porti in un luogo (l’Europa dell’epoca classica) dove potrà essere felice e permettere al suo spirito di riposare in pace, attraversando le maree del tempo, indietro nel passato.
Nel secondo poema, un inno alla religione pagana, Lovecraft rigetta l’educazione cristiana battista ricevuta in famiglia, respinge il “nuovo credo cristiano”; si rifiuta di riporre le proprie speranze di guarigione dal dolore interiore in un unico dio (seppur potente e adorato dalle masse); si chiede dove siano finite le Driadi, le Naiadi e le Nereidi del mondo antico, che potrebbero consolarlo nei suoi vagabondaggi nei vasti ambienti naturali americani; sente lontana e inutile la nuova fede e prega gli Dei sempre rimpianti di porre rimedio ai mali della sua anima e alla sua solitudine.
Il rimpianto del tempo passato tinge a grandi pennellate anche i versi del terzo poema, dove HPL ricorda la potenza di Roma, la “grande città”, la cui “razza ha dato la legge, il diritto a tutte le nazioni”; una “razza orgogliosa”, quella che aveva edificato Roma, una razza un tempo capace di conquistare popoli e creare un impero, poi sconfitta dalle orde barbariche, e adesso degenerata negli attuali “vili Italiani” (base Italians); il pensiero di Lovecraft andava ovviamente agli immigrati italiani di bassissima estrazione che arrivarono in gran numero negli Stati Uniti tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo, sconvolgendo il panorama sociale di interi quartieri delle più grandi città della East Coast; in gran parte erano solo onesti e umili lavoratori che cercavano con la loro famiglia una nuova occasione in America, ma tra loro si nascondevano indubbiamente anche alcune “mele marce”; HPL pare così stigmatizzare nei suoi versi l’intero popolo italiano contemporaneo, per colpa di quei pochi elementi criminali che aveva sotto gli occhi; si tratta soprattutto di una sottolineatura negativa di stampo sociale; nondimeno è evidente l’accento razziale.
L’ode a Pan, penultimo poema della raccolta, è la trascrizione di un sogno bucolico; in quei panorami onirici di ambientazione classica il narratore aveva trovato il vero senso della sua esistenza; il brusco risveglio nel mondo moderno fa rimpiangere a HPL i paesaggi rurali dove risuonava il flauto di Pan.
L’ultimo componimento è un manifesto morale contro il moderno culto – tutto americano – delle cose terrene e del denaro; al contrario, suggerisce Lovecraft, l’uomo può trovare la “vera beatitudine” (true bliss) solo nella vita virtuosa e nella sapienza di una mente ben esercitata ed educata. La prima amatoriale edizione a circolazione limitata di Poemata Minora era illustrata dallo stesso HPL; l’immagine che accompagnava On the Vanity of Human Ambition era il ritratto stereotipato di un Ebreo, con tanto di iscrizione latina: Hic homo est avarissimus et turpissimus Iudaeus.
3. C.S.A.: 1861-1865 (S.C.A.: 1861-1865), 1902
Poesia dedicata alla “Croce Stellata del Sud”, che non è tanto la costellazione che guida i marinai di notte nell’emisfero australe, quanto la battle flag degli Stati Confederati d’America, quella con le barre stellate incrociate, oggi molto nota anche a livello popolare (l’acronimo del titolo sta per Confederate States of America, la coalizione di stati che combatté contro il Nord di Lincoln). Lovecraft fu infatti per tutta la vita un sostenitore della causa confederata, nonostante fosse un “settentrionale”; lo scrittore si sentiva un “gentiluomo” europeo del XVIII secolo e vedeva nella bandiera degli stati “ribelli” del Sud un vessillo che, con il suo orgoglioso garrire al vento, “proclamava solennemente i diritti della specie umana” (riferendosi alla discendenza bianca europea). Secondo il dodicenne HPL i “crudeli Yankee”, terrorizzati dagli ideali trasmessi da questa bandiera testimone di una “nobile causa venuta al Mondo”, rovesciarono il Sud con il tradimento, ma quei ricordi non sono morti e ogni “vero sudista” sogna ancora la sua bandiera, la Starry Cross of the South. Non a caso in alcune delle bandiere degli stati che facevano parte della disciolta CSA ancora oggi è inserito il vecchio vessillo sudista – quello che nel XXI secolo i profeti della cancel culture e del politicamente corretto vorrebbero rimuovere definitivamente.
4. De Triumpho Naturae (1905)
La critica benpensante si è spesso scagliata contro questo breve componimento in 24 versi denominato nel sottotitolo Il Trionfo della Natura contro l’Ignoranza Settentrionale. Lovecraft lo aveva dedicato a William Benjamin Smith, un professore universitario di matematica che insegnava in un istituto privato di New Orleans. Smith aveva scritto in quello stesso 1905 il pamphlet The Color Line; di cosa parlasse il libro si evince leggendo l’inizio dell’introduzione:
Le pagine seguenti tentano di avviare una discussione sulla questione più importante che probabilmente attirerà l’attenzione del popolo americano per molti anni a venire e persino per le generazioni future. Rispetto alla questione vitale della purezza del Sangue, tutte le altre questioni – riguardanti le tasse, la moneta, i sussidi, il servizio pubblico, il lavoro e il capitale, l’educazione, la silvicoltura, le scienza e le arti, la religione – sprofondano nella più totale insignificanza. Perché, a giudicare dal passato, non c’è quasi nessuna politica educativa o scientifica o governativa o sociale o religiosa concepibile sotto la quale il puro ceppo del sangue caucasico non possa vivere e prosperare e ottenere grandi cose per la Storia e l’Umanità; d’altra parte, non c’è motivo di ritenere che qualsiasi tipo o grado di eccellenza istituzionale possa fermare in modo permanente la decadenza razziale che seguirebbe sicuramente sulla scia di una qualsiasi considerevole contaminazione di quel sangue da parte del sangue dell’Africa.
W. B. Smith, accanito avversario dell’abolizionismo e della mescolanza razziale negli Stati Uniti post-Guerra Civile, era tuttavia convinto che la fine della schiavitù avrebbe paradossalmente causato l’estinzione della razza dei neri americani perché, secondo lui, quando vivevano sottomessi nelle piantagioni erano dai loro padroni vestiti, alloggiati, nutriti, curati dalle malattie e tenuti lontani dal vizio e dal crimine, mentre agli inizi del XX secolo quel popolo di origini africane, seppur legalmente libero, era ormai diventato schiavo del crimine, della povertà e delle malattie sessuali.
Nella poesia il giovane HPL fa sue queste tesi; dichiara che gli Yankee, nel liberare i neri, hanno agito contro la volontà di Dio (che, a quanto sembra di capire, aveva deciso per la separazione delle razze umane); dichiara che la Guerra di Secessione è stata un prezzo troppo alto da pagare in termini di vittime per liberare quello che viene definito “il nero selvaggio, la bestia dalle fattezze di scimmia”; dichiara che la Natura trionfante si sta già ribellando contro l’atto di abolizione della schiavitù e che ben presto gli ex-schiavi, lasciati a loro stessi, verranno “consegnati alla tomba” (dal loro stesso comportamento autodistruttivo).
Prima del 1912 sono datati altri due componimenti poetici (1908 e 1911), ma non rivestono nessun interesse ai fini della nostra analisi.
Francesco G. Manetti
(fine prima parte)