Dalla notte dei tempi gli uomini si sono interrogati attorno alle proprie origini e a quelle della civiltà. A tale domanda hanno fornito risposte disparate. L’attenzione per l’origine, l’ineliminabilità di tale interrogativo, la si evince dal costante ripresentarsi nella storia dell’immaginario europeo del mito di Atlantide. La sua prima attestazione, è noto, la si ebbe in due dialoghi platonici, il Crizia e il Timeo. In essi, il filosofo ateniese sostenne che Poseidone ebbe in sorte un’isola, Atlantide appunto, nella quale insediò i propri figli. Qui si sviluppò un prospera civiltà che aveva nel divino il suo costante punto di riferimento.
Fu in Africa, per la prima volta, nel 1904. Durante il quarto viaggio, svoltosi tra il 1910 e il 1912, visitò Nigeria e Camerun. Nella regione di sud-ovest della Nigeria, si fermò a: «Ife-Ile, capitale religiosa dell’antico regno del Benin e culla della cultura yoruba» (p. III). Così Frobenius ricorda quegli anni: «In quell’epoca […] ebbi a formulare l’ipotesi che la vicenda di Atlantide non sia solamente leggendaria, ma che in essa si celi il ricordo di una civiltà più antica di quella greca» (p. 1). Da tale intuizione, discese la sua innovativa teoria intorno al mito di Atlantide. Essa apparve allo studioso prussiano quale ultima sopravvivenza, nella memoria dei popoli, di una civiltà sviluppatasi nel territorio che si estende lungo le coste occidentali dell’Africa: «si trattava di una cultura che aveva avuto una sua unità e che aveva avuto origine dal mare» (p. 2). A tale conclusione, il Nostro era giunto dopo aver avuto un incontro in un bosco sacro nei pressi di Ife con gli anziani di questo popolo: da essi ricevette l’iniziazione. Ebbe modo, pertanto, di comprendere a fondo il valore dei manufatti artistici degli Yoruba. In particolare, lo attrasse la scultura di una testa, l’effige coronata di una divinità, realizzata in una lega di bronzo e rame di spessore ridottissimo. Si trattava, apprese, del capo di Olokun, genius loci dei grandi fiumi dell’Africa Occidentale, sovrapponibile, stando a Frobenius, alla figura divina di Poseidone.
In un’intervista dell’epoca, ricorda Pasquero, egli affermò: «Credo di aver ritrovato l’Atlantide […] che, secondo Solone […] è una terra dove esistono gli elefanti, un paese che produce il rame e i cui abitanti indossano vesti di un azzurro cupo» (p. V). Quella degli Yoruba si presentava, agli occhi dello studioso, come un’«isola» nel mare delle culture che l’attorniavano in Africa. Era il «residuo atlantideo», a dire dell’etnologo, a concedere a queste genti, ancora all’inizio del XX secolo, una profonda vivacità intellettuale e la capacità costruttiva che si evidenziava nelle architetture dei loro centri urbani. La valorizzazione della cultura africana pre-cristiana e pre-islamica di Frobenius fu fortemente apprezzata dal gruppo di Négritude, formatosi attorno a Senghor. Ciò non tragga in inganno: Frobenius era, infatti, uomo del suo tempo, e pur ritenendo che l’idea del «negro barbaro» fosse un’invenzione dei colonizzatori, soprattutto inglesi e francesi, da sostenitore della Germania guglielmina auspicava: «che i popoli di colore loro sottoposti (agli inglesi e ai francesi) finissero sotto la più benevola giurisdizione del Reich germanico» (p. VII). Nel dibattito che, in quel frangente, divideva gli africanisti, egli si schierò contro la tesi favorevole ai Camiti bianchi, ritenuti fondatori di Stati e difese, al contrario, i neri Etiopi, la cui cultura, come già sapeva Omero, era creativa e spirituale.
Il testo che stiamo presentando uscì in prima edizione nel 1926 e, a causa dei contenuti, come è evidente, suscitò notevoli polemiche: è strutturato in capitoli nei quali l’autore scandaglia ogni espressione della cultura degli Yoruba, gli Dei superiori e quelli inferiori, i riti, le creazioni artistiche ed architettoniche. Il metodo utilizzato è comparativo: Frobenius vuole mostrare, nella civiltà degli Yoruba, lo stratificarsi di elementi provenienti da contesti lontanissimi, dal mondo assiro a quello miceneo ed etrusco. Egli volle ridare luce ad Ife, vera e propria Sangri-La dell’Africa Occidentale che, alla fine dell’Ottocento, rischiava di scomparire per sempre. Pasquero nota che Frobenius, rispetto al mito di Atlantide, ha svolto il medesimo ruolo che, nei confronti di Troia, fu giocato da Schliemann. Entrambi gli studiosi furono osteggiati dall’Accademia. L’opera di Frobenius lo fu in modo virulento, a causa del suo mettere in discussione il pensiero dominante di quel periodo, l’evoluzionismo con il suo correlato politico, il progressismo socialista.
I Miti di Atlantide è un libro che taluno può anche rigettare per i contenuti che propone. Le sue pagine, comunque, testimoniano il valore di un mito imperituro e lo spirito libero e curioso di Frobenius. Il volume in questione merita, pertanto: «la più attenta considerazione» (p. IX).
Giovanni Sessa