“C’è, io ritengo, un rapporto di simbiosi fra il simbolismo dell’andare in alto fisicamente e l’andare in alto interiormente, come se i due binari, quello dell’ascesa e dell’ascesi, corrano paralleli. Quando questi due livelli dell’essere si toccano, quello interiore e quello esteriore, si scopre che è impossibile sradicare l’uno dall’altro come non è possibile una montagna senza la valle che la
Sono monti per nulla pallidi quelli ritratti assai vividamente da Emanuele Franz nella sua ultima fatica letteraria, che si inscrive tanto nell’antica – ma mai antiquata! – tradizione degli umanisti “alpinisti”, o comunque amanti delle montagne (dal barone Evola a Nikolaj KostantinovičRoerich, le cui ceneri sono seppellite proprio sotto un’altura nei pressidell’Himalaya, da René DaumalaAlejandro Jodorowsky, solo per citarne qualcuno tra i più celebri), quanto nella più recente tradizione di agili diari di viaggio, spesso in luoghi montuosi, propria della casa editrice animata dallo stesso Autore (“Dalla Siberia alla Cina”, “JofFuart; la Montagna degli Dei”, “Il Monte Nous”, solo per citare i titoli più “espliciti” nel senso della tesi qui sostenuta).
Quelli sopra citati sono libri “veloci”, “di una velocità che ricorda certi futuristi”, come sottolinea Giuseppe PopiMiotti nella sua prefazione, e “leggeri”, ma tali solo per il loro peso materiale e la loro brevità, non certo per il loro peso specifico, rarefatto come l’aria di montagna quando l’altitudine cresce a dismisura. E, tuttavia, i lettori non si aspettino un libro disanimato, privo di umanità e di “azione” – non si addirebbe certo alla personalità del suo Autore!, mai “troppo umano”, nietzschianamente parlando -, anzi, vi compaiono episodi di costume, avventure e disavventure con scimmie giocherellone, tassisti truffaldini, albergatori orientalie turisti chiassosi degni del miglior romanzo di Lawrence Osborne, “Cacciatori nel buio”.
In proposito, vale la pena di notare anche un dettaglio, per così dire, squisitamente “filologico”: il lessico di Franz, come quello di Dante nella “Comedìa”, varia ben percettibilmente a seconda del suo oggetto: colloquiale negli scanzonati episodi sopracitati, sublime quando si approccia alle “Cime Eterne” e ai loro silenzi, che all’Autore “[…] apparivano […] come l’enteogeno canto delle camene, irrorato da quel sole flavescente che sorge sovra ogni umana caducità”, nonché ai significativi incontri con monaci e lama, volti a far luce sui misteri dell’esistenza, ambientati in monasteri che al lettore occidentale, per quanto disincantato, paiono usciti dalle pagine del “Siddharta” di Hesse o del “Dio della Guerra” di Mabire.
Per dirla con Giovanni Lindo Ferretti, “Questo è un buon rifugio in campo aspro, scosceso eroso ed addolcito d’acqua e vento, bastione naturale in prospettiva ariosa…”: e la definizione si attaglia perfettamente allo squarcio di Nepal di cui abbiamo riferito.
Camilla Scarpa