10 Gennaio 2025
Cultura

I perché della crisi dell’arte. Parte 1: il materialismo – Massimo Selis

I tempi che stiamo attraversando dovrebbero manifestare un fermento culturale e in particolare artistico senza eguali, perché è dei tempi di turbolenza, di sgretolamento dei vecchi paradigmi il far germogliare nuove ondate di creatività, rifiorimenti inattesi quanto salutari. Perché è proprio nel dramma e nell’oscurità che si accende la fiammella dell’arte. Invece? Invece si è testimoni di un’aridità che pare addirittura guadagnare spazi e confini. Le cause sono plurime, ma per coglierle occorre scavare in profondità senza timore di portare alla luce verità scomode, anche per chi si ritiene “divergente”. Lo faremo a partire da una lettura Tradizionale della realtà, una lettura che ovviamente avversa dalle sue radici lo “spirito del mondo moderna”. E lo faremo conducendo il lettore oltre le analisi stantie, verso traiettorie di azione che altrimenti sarebbero impensabili.

L’arte è l’attività umana che più di ogni altra manifesta la convivenza del piano spirituale con il piano materiale, avendo come fine proprio l’ordinamento formale della materia grezza a principi di natura soprannaturale. Guardiamo per un attimo dove oggi l’arte, o più in generale l’espressione creativa, trova spazio senza per il momento avanzare giudizi sulla qualità delle singole opere.

In qualunque negozio, supermercato, bar siamo costantemente intrattenuti da musica. Se accendiamo la radio, fra un intervento e l’altro dei conduttori, ancora musica. Scorrendo le pagine su internet, specialmente dei social network ci imbattiamo di continuo in fotografie d’autore, dipinti, video musicali, trailer di film. Alle pareti delle nostre abitazioni, come degli uffici ci sono stampe o quadri. La sera, rientrati a casa spesso guardiamo un film o una serie TV. Senza nominare tutte le opere d’arte che abbelliscono le nostre città o i nostri paesi e che magari vediamo ogni giorno andando al lavoro. In realtà l’elenco potrebbe essere completato, ma ci pare già fin qui sufficiente per constatare che noi siamo letteralmente circondati da espressioni artistiche, che le nostre giornate sono riempite dei loro suoni e immagini sino all’inverosimile.

Ribadiamo che non è ancora il momento per noi di fare delle considerazioni qualitative. Fra questo oceano di creatività vi sono alcune cose eccellenti, moltissime mediocri e altre addirittura inqualificabili. Resta però il fatto fondante, ovvero che l’arte è ovunque nelle nostre vite, nelle nostre quotidianità. E noi?

Noi la trattiamo come un che di accessorio, un qualcosa che, nella quasi totalità dei casi, resta come un sottofondo. Ma se immaginassimo, che questo sottofondo scompaia, noi avvertiremmo un vuoto incredibile. Un vuoto a cui probabilmente non riusciremmo nemmeno a dare un significato definito. Perché in fondo la nostra attenzione, il nostro “tesoro” è altrove. Del regno dell’immateriale non abbiamo più forse le coordinate, talmente ci siamo ormai rinchiusi nelle tristi stanze della materia.

Bisogna però subito precisare quale sia la prima e più importante vittoria del materialismo. Essa non consiste, come forse pensano troppi, nella cancellazione della dimensione spirituale, quanto nella separazione netta fra piano della materia e il piano dello spirito. Separazione che si è resa piuttosto facile eliminando la dimensione intermedia, animica.

Dobbiamo tornare quindi indietro di molti secoli per osservare come tale separazione ha avuto il suo nascere ed evolversi. Scrive ad esempio un Guénon riferendosi al Rinascimento: «Quanto alle scienze tradizionali del Medioevo, esse, dopo aver avuto in quest’epoca qualche ultima manifestazione, disparvero in blocco, quasi come quelle di civiltà lontane distrutte da qualche cataclisma». Il Rinascimento è stato in verità ancora ricco di slanci intellettuali e artistici di grande livello, ma al suo sfumare è indubbio che tutta la conoscenza ha iniziato a sganciarsi sempre di più dal piano metafisico che può essere raggiunto non con la semplice ragione ma tramite l’intuizione intellettuale. E anche le arti che fino a quell’epoca conservavano il loro carattere eminentemente misterico ed iniziatico – la terminologia è assolutamente corretta – hanno assunto una fisionomia sempre più profana. Ricordiamo tra l’altro che nel Medioevo non si faceva distinzione fra artista e artigiano, il quale restava il più delle volte anonimo, ma si parlava essenzialmente di artifex.

Era chiaro, in quegli uomini, che il Cosmo e l’uomo trovavano il loro senso di unità e di integrità in Dio e di conseguenza non solo la conoscenza, ma anche l’ordinamento civile e le arti dovevano essere espressione di questa unità. Nulla era considerato profano.

Scrive a tal proposito Ugo di San Vittore: «Opera di Dio è creare ciò che non era, secondo quanto sta scritto: In principio Dio creò il cielo e la terra. Opera della natura è produrre all’atto ciò che prima era solo germe, secondo quanto è detto: Produca la terra erbe verdeggianti. Opera dell’artefice è congiungere le cose (tra loro) separate o separare le già congiunte; di ciò è detto: Unirono foglie di fico e si fecero indumenti». Congiungere e separare è quindi sempre opera di unità.

Da quell’epoca è iniziato un processo che ha mano a mano reso tutte le azioni dell’uomo totalmente profane, senza che lui se ne avvedesse compiutamente. Sempre più vano, perché puerile, è il tentativo di vivere oggi la dimensione spirituale senza tradurla nella materia: senza incarnarla.

Il materialismo, in quanto allontanamento dal Principio e quindi dall’unità, è scivolamento nel molteplice, che porta già in sé il veleno dell’individualismo, poiché appunto nega che vi debba essere un che di sopra-individuale a cui tutto e tutti si debbono uniformare. Questo individualismo tocca oggi il suo punto massimo nel fatto che quasi nessuno si sente parte di una comunità, membro vivo di un “corpo sociale”. Nessuno non solo avverte, ma nemmeno sospetta che si debba percepire il senso della responsabilità collettiva e quindi dell’espiazione collettiva, per cui «se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme». Questa visione che si fa esperienza concreta e intima noi la abbiamo tragicamente perduta.

Tale corsa discendente oggi vede i suoi ultimi, accelerati, sussulti. E non vi è aspetto della vita, tanto individuale che collettiva, non vi è gruppo o conventicola per quanto si ritenga “antagonista” che non partecipi di questa malattia. L’arte non solo non fa eccezione, ma è forse una delle attività dell’uomo che per prima ha risentito di questo imbarbarimento. L’artista non è una monade poiché nessuno di noi “naturalmente” lo è. Ma venendo a mancare anche l’ultimo rimasuglio del senso di comunità e di tensione spirituale sincera, una tensione che deve fecondare la materialità delle nostre esistenze quotidiane, ecco che allora il fermento artistico a cui dovremmo assistere, stenta a mostrarsi. Perché vi possono essere veri artisti solo laddove vi è ancora un piccolo resto di vera comunità umana.

Ma nulla è affatto perduto, anzi! Il comprendere a fondo le radici della crisi di quest’era moderna ci chiama alla responsabilità e ci fa uscire dal nostro isolamento, dalla nostra sterile lamentela. Sebbene in superficie questo decadimento che è iniziato molti secoli addietro non pare avere argini, vi è infatti un piano nascosto e sottile che va invece inteso come evolutivo. Tutto quello che tragicamente appartiene al senso “letterale” della storia ha anche un valore simbolico e “teleologico”, per cui provvidenziale.

Oggi l’arte può e deve tornare ad essere protagonista, perché senza vera arte non c’è visione del mondo, del futuro. Ma per farlo ha bisogno dell’impegno di tutti gli uomini di buona volontà, i quali debbono prima di ogni altra cosa comprendere come anch’essi sono pienamente inseriti in questa decadenza, la quale ha origini così lontane. Ha bisogno di uomini che accettino quindi di entrare in crisi, di lasciarsi destrutturare per poi farsi ricostruire ed infine collaborare alla costruzione condivisa. Di uomini che riacquistino il valore preminente dell’immateriale sul materiale. Per far rinascere l’arte serve liberarsi del veleno del materialismo che come abbiamo descritto scorre in tutti noi, anche se non ne siamo consapevoli. Non sono i talenti a mancare, ma prima di tutto questo percepirsi inseriti in una traiettoria condivisa di vita. Tutti, artisti e pubblico, il quale deve tornare a farsi promotore attivo e finanziatore dell’arte.

L’arte non può parlare il linguaggio dell’io, perché l’arte è come la vita. Essa esige di passare al linguaggio del Noi.

 

1 Comment

  • Seizerodue 20 Dicembre 2024

    A me sembra tutto molto più semplice.

    Il termine “arte” non ha alcun contenuto “spirituale” perché significa “mestiere”.
    Un “artista” non è uno sciamano in contatto con il sopranaturale, è una persona esperta in una certa attività, uno che sa fare un mestiere.
    Questa è la ragione per cui il babbo di Leonardo, non potendolo avviare alla sua professione perché nato fuori dal matrimonio, lo mette a bottega dal Verrocchio, non perché parlasse con gli Dei ma perché imparasse un mestiere.
    Tra le altre conseguenze, Leonardo non fu nemmeno “scienzato” ai suoi tempi perché mancava del pre-requisito indispensabile della formazione umanistica, cioè non scriveva trattati in latino o in greco, perché anche Newton non sarebbe stato nessuno se non avesse scritto in latino.
    Quando il Papa incarica un Michelangelo non pensa al fatto che possa mettere in pratica il divino ma pensa che sia il più bravo a dipingere o scolpire santi, madonne e cristi in croce, magari col contorno neoclassico che andava di moda.

    Qui addiveniamo alla seconda parte della faccenda e cioè che la “arte” richiede un committente. L’artista che fa mirabilia nel deserto, perché invasato, è una barzelletta. Michelangelo era ricco sfondato perché si era procurato la committenza del Papa, cosi come Leonardo organizzava eventi mirabolanti per il Duca di Milano.
    Quindi ancora, l’arte è doppiamente “materialista”, prima perché si tratta di sapere fare un mestiere, lavorare il legno, la pietra, costruire o manovrare un aggeggio e poi perché il mestiere si fa dietro pagamento e quindi si fa quello che piace al committente, non quello che suggerisce lo spirito.
    A margine, quello che piace è convenzionale, cioè fondamentalmente è una moda, un insieme di “valori” condiviso che esiste in un dato momento, per una combinazione di fattori, il che esclude l’arte “di rottura” o “anti-convenzionale”, nel senso che necessariamente la “anti-convenzione” di qualcuno è la “convenzione” di un altro
    E’ abbastanza ovvio, se l’artista traducesse in materia qualcosa di immateriale il risultato sarebbe incomprensibile e non avrebbe alcun valore, viceversa, perché una certa opera sia considerata preziosa deve essere ovvio a tutti la sua natura e scopo. Per un bambino il pasticciere è dio, non gli importa nulla di una statua d’oro alta dieci metri. Per un popolano la statua d’oro è il modo per guadagnare il favore del dio e quindi abbondanza del raccolto, salute, sfortuna per i nemici.

    Veniamo alla “crisi”.
    Non di crisi si tratta ma del fatto che la diffusione sempre più capillare delle macchine ha cambiato il rapporto tra committente ed artista. Michelangelo non ha più il Papa come committente e non fa più opere uniche, adesso ha come committente una industria che produce in serie, da cui “disegno industriale” o “design”. Il prodotto di massa non solo deve essere economico in ogni aspetto ed ottimizzato rispetto alla macchina, deve anche essere conforme alle convenzioni “popolari”, cioè di gente con gusti e morale volgari, non elitari. La Cappella Sistina non deve piacere al Papa, deve piacere a milioni o miliardi di persone di un pubblico eterogeneo quindi “medio”. Tipo Marvel Universe. Siamo arrivati al punto che il “musicista” non può essere Mozart e nemmeno un bravo esecutore, adesso è una persona che sa usare una certa combinazione di elettronica e di software e più andiamo avanti, meno fatica si deve fare perché la macchina viene fabbricata da altre macchine e quindi evolve per conto suo.

    Infine, tornando al fatto che il committente è “la gente”, da un due o trecentanni si è imposta l’idea della rivoluzione per cui gli ultimi devono essere primi. La “dittatura del proletariato” ancora significa il minore comune denominatore e ci sono poche cose che tutti condividono, le cose di base, biologiche. Non c’è una contrapposizione tra “spirito” e “materia”, casomai c’è la contrapposizione tra ricco e quindi colto e sofisticato e povero e quindi incolto ed elementare. Al proletariato si deve dare il pane e i divertimenti, non cose complicate. Quindi l’artista deve fare il pane e magari fare a botte nell’arena.

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