Un mio recente viaggio in Nepal, dove ho potuto soggiornare a Katmandu e visitare l’Himalaya, mi ha dato la possibilità di incontrare e parlare a lungo con un Lama Tibetano in un monastero buddista, ma anche di incontrare un Bramino Indù e gli asceti Sadhu, uomini santi che vivono in povertà in voto agli Dei. Questi incontri mi hanno portato molto a riflettere su quante profonde e marcate differenze sussistano fra la filosofia orientale così come è vissuta da un orientale, e così come è vissuta invece da un occidentale. Già quando anni fa avevo soggiornato in India e poi nella sciamanica Siberia orientale e in Cina, stavo maturando queste riflessioni che nel tempo sono poi fiorite nella constatazione, sempre più lucida, che un abisso separa ciò che è scritto nei testi Sacri orientali da quanto ingenuamente l’occidentale medio possa presumere di sapere delle pratiche orientali.
Secondo i Veda lo Yoga è, o dovrebbe essere, una selle sei Vie alla Liberazione, chiamate Darśana, assieme alla logica, alla analisi, alla riflessione interiore, alla devozione, allo studio dei testi Sacri e così via. Lo Yoga stesso poi presuppone che la vita intera del praticante sia accompagnata da requisiti e predisposizioni e discipline ben al di sopra di qualsiasi occidentale medio. Si pensi solo che il Samādhi, lo stato di unificazione che precede alla Mokṣa (la liberazione) comporta uno stato di smarrimento totale in cui il praticante non ha più né la nozione di “io” né la nozione di “essere” o “soggetto” ecc. Ovvero comporta il raggiungimento, all’interno della propria coscienza, dalla constatazione che il mondo dei sensi è un’illusione, frutto dell’incantesimo di Maya (Potenza di Siva), ovvero sia che il mondo è una magia e non possiede una natura propria. Nagarjuna, fondatore della scuola dei Mādhyamika e patriarca delle scuole Mahāyāna, lo dice chiaramente quando afferma che: “Non comprendendo i discorsi del Buddha si ha paura di una realtà priva di sostegno e inconcepibile” (1).
Si tratta pertanto di un percorso di vita ben lungi da quanto semplicemente ci viene presentato nel mondo dei talk-show e dei fast-food, ovvero come una mezzora di rilassamento e respirazione che di per sé non solo non comporta nessuna reale trasformazione ma risulta anche dannosa nella misura in cui si distacca da quella che è, o era, il suo significato originario. La cosa più significativa, che tengo a sottolineare in queste mie riflessioni, è che da tale pericolo dello Yoga sono stati gli stessi filosofi indiani a metterci in guardia. Già le Upaniṣad sostengono infatti che non porta a nessun risultato la pratica di qualsiasi attività religiosa se essa non implica, paritempo, all’interno di sé stessi, la meditazione sulla realtà Assoluta. Si dice:
“Per colui che, non conoscendo l’Ātman, compie un’azione pur assai meritoria, per lui alla fine questa azione va perduta. Soltanto l’Ātman deve essere venerato come la vera sede. Per chi veneri soltanto l’Ātman come vera sede la sua azione non va perduta: tutto ciò che si desidera, tutto infatti si ottiene da questo Ātman”
(Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad; quarto Brāhmaṇa).
Quindi, una attività va perduta se non fondata sulla consapevolezza del Ātman, ovvero sia sul Brahman. Il filosofo indiano Kṣemarāja (Kashmir, X secolo – XI secolo) commentando l’ottavo aforisma del Śivasūtra di Vasugupta (Kashmir, VIII secolo – IX secolo) descrive
“L’emergenza dell’intuizione suprema come un improvviso erompere” (2) attraverso quindi un “dischiudersi improvviso” che non consegue da alcuna pratica o esercizio, o postura o preghiera o attività. Ricordiamoci che questi testi, che hanno fondato la grande scuola dello Scivaismo kashmiro, tutt’altro che essere “secondari” nel grande panorama delle filosofie orientali, sono, come li ha ben definiti il grande indologo Raffaele Torella, “una delle vette raggiunte dal pensiero filosofico e dell’esperienza spirituale dell’intera civiltà indiana”.
Quindi si delinea un profilo ben preciso: che non è l’attività yogica o rituale che porta alla mutazione della coscienza. Questo assunto filosofico, presente in nuce già nelle Upaniṣad vediche, è esplicitato con una chiarezza impressionante dal mistico e filosofo indiano Abhinavagupta nella sua imponente Opera intitolata Tantrāloka (“Luce dei Tantra”). È lui a dirci che:
“Le cinque discipline quali l’ascesi etc., le varie posizioni del corpo ed i diversi tipi di controllo della respirazione non sono direttamente di utilità alcuna nei riguardi della coscienza, ma semplici manifestazioni esteriori” (3).
E continua spiegando che: “infatti, quanto sia già radicato nella coscienza interiormente, può essere trasmesso, attraverso essa, al soffio vitale, al corpo o alla mente, per virtù dell’esercizio, ma non certo il contrario. (…) questo solo è prescritto: cioè che la mente sia saldamente applicata alla vera realtà, poco importa il modo in cui ciò sia ottenuto”.
Da ricordare qui, che per Abhinavagupta, come per gli altri filosofi orientali, quella “vera realtà” cui si fa menzione è appunto il piano oltre la manifestazione, nella pienezza di Siva, il mago, colui che riassorbe il mondo e lo porta alla sua consunzione. Non esiste nessuna pratica, né yoga, che possa condurre, con una serie graduale di esercizi, a questa constatazione, ovvero sia alla vacuità del mondo. Lo yoga pertanto qui assume una forma di “mantenimento” se vogliamo, una pratica conservativa, non produttiva. Appare altresì come una disciplina quasi propedeutica ma non è essa stessa la causa della rivelazione, né in alcun modo la può determinare con un nesso causale. Anzi, il praticare queste discipline, nascondendo a sé stessi le proprie intenzioni come appunto un individualistico desiderio di stare meglio in salute, e non, altrimenti, come un effondersi nella “vera realtà” è oltre modo dannoso, perché, almeno a mio giudizio, va ad alimentare un latente autocompiacimento, un egoistico desiderio di miglioramento e di aumento del proprio essere, quando, e qui i testi parlano chiaro, l’adepto deve svuotarsi di sé.
Sostanzialmente nella filosofia orientale non si tratta di un processo additivo, quanto piuttosto di un processo sottrattivo. L’esperienza di questa sottrazione è sconvolgente, tanto che uno degli appellativi del Dio Siva attribuiti dal Tantrismo è Bhairava ovvero il tremendo, il terribile. Egli è colui che è preposto all’annientamento, alla distruzione delle nostre false credenze e dei nostri schemi mentali. Nel Vijñānabhairava Tantra, letteralmente “la conoscenza del tremendo”, si parla, è vero, di mantra e di tecniche respiratorie, ma non di certo nel modo in cui un occidentale medio si aspetterebbe.
Infatti si dice che la tecnica del respiro, in cui ci si ferma in meditazione nel istante di sospensione fra l’inspirazione e l’espirazione, va compiuta ben 21.600 volte al giorno! Tante volte quanti sono i respiri che facciamo in 24 ore. Secondo la tecnica tantrica nel momento in cui l’inspirazione si congiunge con l’espirazione è l’accadimento in cui il maschile, Siva, si unisce con il femminile, la sua consorte Parvati, e in quel frangente esatto deve avvenire la morte psichica dell’Io per cogliere l’Assoluto. Si capisce molto bene, di fronte a questo, che un oretta e mezza di yoga, magari in una palestra in centro a Milano dotata di wifi, ha del ridicolo. Oltretutto, come detto, anche nel Vijñānabhairava Tantra queste tecniche yogiche vengono presentate come collaterali, dal momento che l’insistenza sul fatto che lo yogin non debba dimenticare l’eguaglianza di tutte le cose con tutte le altre (Samādhi) è onnipresente. Sterile sarebbe la pratica yogica senza la meditazione sulla vera realtà, non solo la pratica sarebbe infertile ma anche ostacolativa del pervenire alla Conoscenza. Il monito, ancora una volta, è chiaro:
“Tutto questo universo è privo di realtà, simile a una magia. Così saldamente pensando lo yogin raggiunge la pace” (4)
Non c’è una gradualità, un percorso a tappe, che può portare a questa Verità; essa erompe, è un bagliore improvviso, e la meditazione e lo yoga non sono, come puerilmente si può pensare, una scalinata, come, appunto, si può fare in palestra, laddove con l’allenamento si può sollevare pesi sempre maggiori. Il pericolo che una simile visione graduale può comportare è enorme, l’ego può esserne ingigantito a tal punto da ritenersi “superiore” o “più grande”. Su tale rischio gli autori dei Pāśupata Sūtra, una delle più antiche opere della tradizione Saiva, parliamo del IV-V secolo, hanno provveduto indicando tecniche allo yogin per suscitare negli altri disprezzo, per umiliarsi, per ottenere, quindi, un annientamento dell’ego e dell’orgoglio. Tali testi, diciamolo, erano destinati ai discepoli ed erano quindi segreti, di certo non )erano massificati, e suggeriscono tecniche che farebbero ribrezzo alla sensibilità dell’occidentale medio, come cospargersi di cenere, fare finta di essere matti, farsi insultare, mortificare la propria persona, vincere la dualità gusto-disgusto bevendo urina, e così via:
“Agisca, insomma, dimodo che ottenga il disprezzo. Disprezzato, infatti, il saggio raggiunge la perfezione dell’ascesi” (5)
Immagino che fra le migliaia di persone che in Europa praticano lo “yoga” non se ne trovi una sola che sia disposta a seguire le tecniche Saiva di questi Sutra semplicemente perché stare seduti su un tappetino ad allungare le gambe e a respirare non ti mette in discussione, non ti trasforma realmente, non intacca l’ego. Si prende ciò che fa comodo di una pratica e si elimina il resto. Lo yoga descritto nel testi sacri orientali è ben altra cosa rispetto al retaggio occidentale di queste pratiche, ridotte a un prodotto di consumo anch’esse, ad un usa e getta, a un lucro. Lo Yoga orientale invece è una totalizzante esperienza che sconvolge i fondamenti stessi dell’esistenza di chi ha deciso di percorrere la sua strada (6), una scelta che appartiene a pochi, a coloro che sono disposti a immergersi, a estinguersi nella chiarità dell’infinito.
Note:
¹ Nagarjuna; -Le settanta stanze sulla vacuità- n.70 Chiara Luce edizioni 2007
² Vasugupta; -Gli aforismi di Siva- Adelphi 2013 pg.112
³ Abhinavagupta; -Tantrāloka- IV, 87-88; Classici Utet 1972 a cura di Raniero Gnoli
4 Vijñānabhairava Tantra; 131; Adelphi 1989
5 Pāśupata Sūtra; III; Boringhieri 1962 a cura di Raniero Gnoli
6 Sull’esperienza totalmente devastante dello yoga nella fase precedente alla Liberazione, R. Torella commentando Vasugupta, dice: “Questo è il momento più vicino alla liberazione, ma anche il più insidioso. Se non affrontato con le energie ben deste il grande vuoto che si spalanca e in cui tutto il mondo fenomenico si acquieta finisce per inghiottire anche lo yogin”.
Emanuele Franz
1 Comment