di Giacinto Reale
Qualche anno fa Luciano Violante fece rumore con una sua dichiarazione nella quale parlava di “ragazzi di Salò”, alludendo a quanti in buona fede e con dignità militarono nella RSI.
Il senso del discorso, curiosamente accolto con gran favore anche tra i neofascisti, però, era che si trattava di una minoranza, in una massa di facinorosi violenti fino al sadismo, animati dalle peggiori intenzioni, capaci delle turpitudini più abiette.
Di contro, i partigiani sarebbero stati anime belle, idealisti senza macchia, combattenti senza paura, sempre corretti (sia pure nei limiti di quel che una guerra civile poteva permettere) nei confronti del nemico.
Senza essere particolarmente esperto di cose della RSI, mi sono fatto un’idea diversa, confermata, per esempio, dalla recente lettura de I ribelli siamo noi, storia di Torino nella RSI, la crudele cronaca di una guerra civile 1943-46, Collegno 2007, di Michele Tosca, che è una minuziosa ricostruzione, giorno per giorno, episodio per episodio, delle vicende repubblicane nel capoluogo piemontese e zone viciniori.
Credo che tra i due combattenti del ’43-’45 ci fosse una differenza “tecnica” di fondo che non poteva non influenzarne i comportamenti, a prescindere dalle motivazioni ideali alla base del loro agire.
I partigiani si muovevano in un clima di generale illegalismo (a cominciare dalla scelta di imbracciare le armi e non rispondere alla chiamata di leva), nel quale il sequestro forzato di beni e viveri ai contadini, qualche violenza di troppo, un errore nell’individuazione di una “spia” da giustiziare sembravano assolutamente normali… e poi, la prospettiva era quella della vittoria, che avrebbe “sanato” tutto.
I “ragazzi di Salò”- tutti – agivano, invece, in un contesto regolamentato da leggi e norme precise, il cui rispetto era affidato a forze dell’Ordine e magistrati che erano in buona parte quelli dell’Italia pre-repubblicana e sarebbero stati poi – ove non particolarmente compromessi- quelli dell’Italia democratica.
Insomma, per dirla tutta, se uno o più militi repubblicani compivano un sopruso o si macchiavano di una nefandezza, erano quasi certi di finire sotto processo su denuncia delle vittime o dei loro stessi camerati.
Qualcuno veniva anche arrestato, come Mario Volontè (padre di Gianmaria, noto attore “impegnatissimo a sinistra”) fondatore del PFR torinese, incarcerato dai suoi stessi camerati per certe intemperanze al Comando del presidio di Chivasso della Brigata Nera e c’era pure chi finiva a Dachau, come Tullio Tamburini, il “grande bastonatore” della vigilia.
E poi, la prospettiva era quella della sconfitta certa (alle “armi segrete” non ci credeva nessuno) che avrebbe significato “resa dei conti”… e allora, senza nessuna furbizia e senza per questo mancare
al proprio dovere, era inutile e controindicato infierire più di tanto.
al proprio dovere, era inutile e controindicato infierire più di tanto.
Discorso appena diverso è da fare per gli uffici di polizia speciali e autonomi: qui il ricorso alla violenza – durante gli interrogatori dei sospetti – non era infrequente, ma era retaggio storico delle polizie di tutto il mondo, che sarebbe arrivato – almeno- fino alle torture inflitte, nella democratica Italia del centro sinistra dal “dottor De Tormentis” ai prigionieri brigatisti o neofascisti.
E sarà anche il caso di ricordare che se Koch e Carità (con i loro uomini) furono ostacolati dalle Autorità della RSI, fino all’arresto – nonostante una certa benevolenza tedesca giustificata dal loro “efficientismo” – il predetto De Tormentis sarà promosso ed encomiato dal regime democratico.
Prova evidente di quanto detto è che, dai pur maldisposti tribunali del ‘45-‘48, i condannati in primo grado per le famose “sevizie particolarmente efferate” previste dal decreto Togliatti non abbiano superato qualche centinaio, dei quali, peraltro, molti poi assolti in Appello.
Il reato più frequentemente ascritto agli uomini della RSI fu, piuttosto, la fucilazione di uomini, per rappresaglia o perché colti con le armi in pugno al termine di un’operazione militare, reato che effettivamente non era tale, perché previsto e regolamentato dalla normativa di guerra vigente.
Se proprio vogliamo dirla tutta, ciò che era deprecabile, piuttosto, era il ricorso – invece della “semplice” fucilazione – al macabro rito della impiccagione e la successiva esposizione prolungata dei cadaveri a titolo di monito.
Dall’altra parte, invece, vigeva la regola che “i partigiani non fanno prigionieri” (se non per brevi periodi e per effettuare qualche scambio), se non altro perché non sapevano dove metterli (per qualche raro esempio di carcere partigiano in alta montagna sarebbe più esatto parlare di mattatoio) e come sfamarli.
Per non dire che questi fardelli umani sarebbero stati di grandissimo ostacolo a quella mobilità continua che era la caratteristica principale delle formazioni partigiani.
Quindi: fucilazioni immediate, di singoli e gruppi, senza accuse o motivazioni specifiche, che si andavano ad aggiungere alla lunga sequenza delle esecuzioni gappiste.
Questo emerge anche dal libro di Tosca, nel quale trovo, però notizia di un’efferatezza partigiana che non ha niente di nemmeno lontanamente paragonabile nei comportamenti degli uomini di Salò.
Credevo che il culmine fosse stato raggiunto con l’episodio che avevo letto tempo fa (se non ricordo male, in uno dei due libri di Marcello Marcellini dedicati alla Resistenza nell’Italia Centrale, – se qualcuno è curioso, vado a verificare), laddove si narrava dell’uccisione di una presunta spia fascista, della “bollitura” del suo corpo e successiva saponificazione, con vendita alla moglie di una saponetta così ottenuta (salvo poi informarla della provenienza).
Nel libro di Tosca c’è di peggio: ecco uno stralcio della sentenza per collaborazionismo a carico del fascista Silvano Marconcini, Sottotenente di Artiglieria:
“L’imputato Silvano Marconcini era conosciutissimo nella Val di Susa… era naturale richiamasse l’attenzione della bande partigiane della valle. Una di queste, la Carli, decise una spedizione nella sua casa di Bruzolo, allo scopo di sopprimerlo e tagliare i capelli alla madre e alla sorella. Senonché, dei bruti, appartenenti a quella spedizione, non avendo trovato il Marconcini, tosarono le due donne, e sotto gli occhi esterrefatti della madre, violentarono a più riprese la figlia. Questo deprecabilissimo fatto (specie se vero nei suoi particolari narrati al foglio 27 del fascicolo 14 docum
enti, secondo cui la Marconcini, tenuta ferma da quattro individui fu stuprata prima dal capobanda e quindi successivamente dai 36 uomini componenti la banda) sconcertò la mente del fratello e lo determinò ad una vendetta contro gli autori dell’oltraggio”
enti, secondo cui la Marconcini, tenuta ferma da quattro individui fu stuprata prima dal capobanda e quindi successivamente dai 36 uomini componenti la banda) sconcertò la mente del fratello e lo determinò ad una vendetta contro gli autori dell’oltraggio”
Per questa attenuante (sic !) il tribunale condannò il Marconcini a soli otto anni di reclusione.
Sfido chiunque a trovare, a carico dei ragazzi di Salò (anche dei più cattivi) episodi simili e altrettanto sicuramente documentati… sarà allora forse il caso di cominciare a parlare piuttosto di “ragazzi della Resistenza”, con allusione a quei pochi (che ci furono) che si batterono con coraggio e lealtà, in difesa delle proprie idee, nella speranza di restituire libertà all’Italia (e non di instaurare una sanguinosa dittatura del proletariato).