Quel che segue è opera di fantasia. Ogni attinenza a fatti o persone reali è volutamente casuale.
«Ecco un reperto fondamentale». L’anziano professor Sun prese una lunga bacchetta e indicò sullo schermo alcuni fogli vergati con simboli incomprensibili. «L’abbiamo chiamato ‘Codice Krem’. Viene dalla zona B-957. È stato trovato miracolosamente intatto sotto nove metri di ghiaccio, in una teca metallica. Le informazioni in esso contenute ci permettono di collocarlo tra il 2020 e il 2025 D. C., secondo l’antico sistema di datazione. Non è uno dei soliti frammenti coi quali cerchiamo di ricostruire idiomi morti da secoli. Qui abbiamo circa un centinaio di pagine scritte in una lingua vetero-alfabetica. Ci son voluti circa trent’anni anni per decifrarne il significato. Decisive son state le ricerche del professor Kao e le sue analisi comparative con altri documenti coevi. Tuttavia, diversi punti sono ancora controversi ».
Gli studenti fissavano curiosi gli strani geroglifici. Il corso di storia e lingue antiche del professor Sun era il più seguito nella scuola. «Il Krem è una specie di diario, un resoconto di incontri tra persone verosimilmente legate da rapporti d’amicizia. Una piccola confraternita, sette persone in tutto. Nel documento vengono indicate con lettere di alfabeto, forse le iniziali dei loro nomi. Si tratta di cinque uomini, B., G., L., P. e S., e due donne, E. e R.. Non conosciamo la loro età o professione. Si riunivano ogni prima domenica del mese, verso l’imbrunire». «Che significa prima domenica del mese?» domandò un ragazzo. «Gli antichi non avevano un’idea fluida del tempo, come noi. Lo dividevano rigidamente. Calcolavano periodi di sette giorni, detti ‘settimane’. La domenica era il giorno in cui la gente si asteneva dal lavoro». «Vuol farci credere che per sei giorni su sette lavoravano?» chiese un tale con aria sbigottita. Tra gli studenti passò un ciangottio di bisbigli, divertiti e scettici. «Può sembrarci incredibile, ma quella gente lavorava cinque o sei giorni la settimana, in genere otto ore al giorno. Percepiva per questo una certa cifra con cui vivere». «Come si può vivere con una cifra? Mangiavano i numeri?» domandò un tale, suscitando l’ilarità dei compagni. «In un certo senso. Comunque, cedevano la maggior parte del loro guadagno allo Stato. Dopo oltre quarant’anni di lavoro venivano congedati e percepivano una piccola quota di denaro, detta pensione, non sempre sufficiente a sopravvivere. Loro la chiamavano libertà».
Gli studenti risero. A Sun piaceva stemperare la seriosità accademica. «Ma veniamo al Krem. Oggi prenderemo in esame solo le ultime pagine, dove si ritiene sia registrato il loro ultimo incontro. Immagino che quella sera si scambiarono i soliti convenevoli, informazioni sulla salute, la famiglia, le novità. In un primo tempo la loro associazione aveva questo strano nome: ‘i salmoni’. Termine che ha fatto a lungo discutere, finché Mei ha scoperto trattarsi di una particolare razza di pesci, oggi estinta. Pare che tali animali avessero l’abitudine, per ragioni ignote, di nuotare controcorrente. Suppongo quindi che i nostri amici si considerassero anticonformisti, che condividessero opinioni eterodosse». «Mi scusi professore, ma non capisco che relazione vi sia tra un pesce e un’opinione» lo interruppe uno studente. «Nessuna. Ma era comune per loro esprimersi in modo strano. Guardate questo insieme di grafemi. La traduzione che ne dà Kao è ‘peste’. Non sappiamo però se qui si intenda una reale epidemia o il contagio di un pensiero dominante, un’infezione astratta. Ricordate il famoso vaccino?». «Il siero che causò centinaia di milioni di morti e provocò gravi mutazioni genetiche» rispose uno studente. «Bene. Ora, secondo Tan, ‘peste’ indica qui la vaccinazione di massa imposta dai governi del’epoca. I nostri sette amici in qualche modo riuscirono a eluderne l’obbligo e i controlli. Forse per questo decisero di cambiar nome al circolo e di chiamarsi ‘i Sopravvissuti’. Tuttavia Kao è convinto che la parola ‘peste’ abbia qui un senso più lato: corruzione dei costumi, bubbone morale e intellettuale. È una questione ancora aperta».
Il professore rimase per alcuni istanti in silenzio. «Quella sera fu E. a redigere il verbale dei discorsi. Le discussioni si incentrano sul rapido degenerare dei tempi. Indicò alcune righe, che gli studenti fissarono senza capire. «Secondo la ricostruzione di Kao, di cui ci fideremo, in questa pagina G. fornisce una sorta di quadro sinottico della società, che definisce ‘terminale e cannibale’. Ci descrive un’umanità fatta di bambini prodotti artificialmente, di schiavi controllati dalle macchine, di persone con cervelli semi-meccanici. Accenna a neuro-manipolazioni, proliferazione di armi spaventose, modelli sessuali aberranti e di altri fenomeni cui Kao ha tentato di dare una spiegazione. Secondo S., “Orwell e Huxley erano ottimisti”. Non sappiamo però a chi si riferisse. Accenna alla tirannia di una ‘élite’, “banda di eletti che nessuno ha eletto”. Si dice stanco di mangiare insetti e cibi sintetici, e riporta con orrore la proposta di legge di convertire in barrette alimentari i cadaveri delle persone». Alcuni studenti mimarono smorfie di disgusto. «Queste conversazioni sono tutte percorse dalla paura del futuro. Tutte prevedono un’involuzione sociale e persino una regressione della specie umana. Ma sulle cause i pareri sono variabili». Il professore fece scorrere le pagine. «Qui S. sostiene che la degenerazione della società è opera di ‘Satana’». «Un politico?» domandò una ragazza. «No. È un termine intraducibile ma ne possiamo intuire il senso. Indicava una specie di nemico dell’umanità, un principio metafisico del male. Apparteneva al gergo di una religione dell’epoca. Sono concetti problematici, legati anche a un modo di esprimersi tortuoso».
Puntò la bacchetta su una parola. «Qui B. dice che “l’uomo vive in una fogna, tanto avvezzo al puzzo del male che il suo naso non distingue più i profumi”. Probabilmente allude a un ambiente idealmente malsano, impregnato di falsi valori, che fanno perdere all’uomo il suo discernimento naturale. Dire una cosa per un’altra per noi è inconcepibile, per loro era normale. La nostra cultura sta lentamente cercando di riscoprire questi vari livelli del linguaggio. Intendiamoci, non sono bugie. Kao le definisce ‘figure retoriche’ o ‘metafore’. Notate questa frase di R.: “non amo l’immagine della fogna”». «Ma è possibile amare un’immagine? Non si amano le persone?» chiese perplesso uno studente. «È un modo di parlare indiretto, immaginifico. Anche R. riconosce che la società è per molti aspetti ‘nauseante’ e si chiede come possa la maggioranza della gente sopportarlo. Ma è nausea morale, astratta. E. suggerisce che ciò dipenda da un meccanismo di assuefazione, per cui possiamo adattarci al peggio. “I nostri organi interiori devono evolvere per poter sopravvivere”, dice. Sono immagini fantasiose, ma hanno una loro verità. Io, per esempio, col tempo mi sono adattato alla vostra presenza, e ora vi sopporto benissimo».
Gli studenti risero di nuovo e l’anziano professore ne fu compiaciuto. «Nel Krem ricorrono spesso espressioni oscure: morte della bellezza, Anticristo, Apocalisse, kali-yuga, tramonto dell’Occidente ecc. Richiederebbero ciascuna lunghe digressioni, ma crediamo siano in sostanza forme diverse di quello che L. chiama sensus finis. Kao lo traduce: assenza di speranza, attesa del peggio. Tuttavia, L. crede nella possibilità di una rinascita. Immagina un’umanità futura radicalmente rinnovata, guidata dai valori della pace e della compassione». «Sembra la nostra società» commentò un ragazzo. «Sì, che la Luce ce la conservi. G. pronostica invece un futuro tenebroso e disumano. Noi sappiamo che avevano ragione entrambi, ma uno vedeva vicino e l’altro lontano». Sun bevve un sorso d’acqua. «Secondo P, il male li mette di fronte a un’alternativa: “prender armi contro un mare d’affanni e, opponendosi, por loro fine o nobilmente soffrire nella mente colpi di fionda e dardi d’atroce fortuna”. È un linguaggio inusuale, forse preso da un vecchio testo poetico. Noi diremmo: ribellarsi o subire con rassegnazione filosofica. R. è una ribelle, ma crede sufficienti proteste pacifiche, combattimenti di carattere intellettuale e morale. G. ritiene invece necessaria una ribellione violenta. Secondo loro non serve a nulla una filosofia fine a sé stessa, che non stimoli all’agire. G. definisce un lusso colpevole quel “sapere nel quale la capacità d’azione si affloscia”, citazione che attribuisce a un certo Nietschze. Anche B. condanna l’abitudine di interpretare il mondo “comodamente seduti sulle proprie astrazioni”. Penso voglia dire: senza sforzarsi di cambiarlo. E in questo dà ragione un certo Marx, che non siamo riusciti a individuare storicamente. Secondo L. l’interpretazione della realtà è invece l’unico modo per cambiarla. Per lui è pericoloso voler mutare le cose senza averne prima capito la natura. Inoltre sostiene che la riflessione dello spirito sia un potente atto interiore e creativo, che ha effetti più concreti e duraturi sulla storia d’ogni possibile sommossa politica. Idea oggi condivisa da tutti, ma i suoi argomenti appaiono confusi e non costruttivi. Discuterne non è materia del nostro corso. Vi consiglio però di leggere “L’atto e l’essenza” del dottor Xin».
Il professore si fermò, un poco affaticato. Gli studenti presero appunti, scambiarono commenti tra loro. Infine il vecchio riprese la sua bacchetta e proseguì. «E. dice che a volte sogna una rivoluzione, a volte vuol isolarsi, rinunciando a lottare. Non crede più alla politica, ‘democrazia’e ‘libertà’ le sembrano parole vuote. Anche questa sfiducia di E. è per noi ampiamente giustificata. Ma allora si riteneva che la democrazia fosse la forma di governo più rispettosa dei cosiddetti diritti umani. Idea che sappiamo fu radicalmente smentita dai fatti. E ‘libertà’ è un concetto di cui una società sana non ha bisogno. E. dice di non credere neppure alle rivoluzioni, che giustamente vede come causa ed effetto di spirali storiche discendenti. D’altra parte, non ha fiducia nella filosofia. Pensa che i dogmi filosofici, politici e religiosi siano le vere calamità. G. sostiene invece che le peggiori sciagure siano “capitalismo e liberismo”. Immagino che il professor Zon ve ne abbia già parlato. «Sì, li chiama “economie disfunzionali”» confermò uno studente. «G. allude anche a un “potere giudaico” che dominerebbe il mondo, ma non sappiamo a cosa si riferisca esattamente». «Iutaico?» chiese un ragazzo. «No, giudaico. Come “giù dai colli scende mormorando la brezza della sera”, per citare i versi del grande Lin». Passò quindi alla pagina successiva.
«Qui E. contesta l’idea che sia in corso un attacco alla civiltà occidentale e alle sue radici. A lei pare invece che il male nasca proprio dalle radici della civiltà. Così, mentre G. vorrebbe il ritorno ad antichi valori, antiche tradizioni, che contrastino “l’attacco satanico”, lei trova assurdo cercare salvezza in un pensiero incline per sua natura ad autodistruggersi». Sun fissò per un attimo il vuoto, forse immaginando quei sette che discutevano sull’orlo di un baratro. «E. dice: come può Satana essere anti-occidentale, visto che l’Occidente è in sé profondamente anticristiano? Forse che “Satana fa guerra a sé stesso?”. Secondo R. questa sarebbe una buona notizia. E cita un testo oggi perduto, un certo Vangelo di Luca: “ora, se anche Satana è diviso in se stesso, come potrà stare in piedi il suo regno?”. Secondo L. è proprio questo il punto: “il male che si ammala, che si contagia con la sua stessa virulenza, si sgretola nelle sue interne contraddizioni, ritorce su di sé la sua forza di corruzione”. I satanici sarebbero per lui dei “filantropi involontari”, che proprio nella loro totale assenza di virtù positive riducono il male a un’assoluta negatività, a cadere nel nulla. “Questo, che ci sta di fronte e ci minaccia, è lo spirito che nega? Lasciamo dunque che neghi anche sé stesso. Non resistiamo al male. Si estinguerà da solo”. Secondo B. invece “dobbiamo sempre temere l’Ombra, il seme della violenza e della menzogna deposto in ognuno di noi”. Il codice si conclude con quella che pare una citazione, forse di idioma proto-europeo: In girum imus nocte ecce et consumimur igni. Come potete vedere, è una frase palindroma». Sun fece scorrere la sua bacchetta da sinistra e destra e viceversa. «Kao traduce: “il cerchio della notte si consuma nel fuoco”, e vi attribuisce un significato magico. Accanto v’è uno strano disegno. Secondo alcuni rappresenta una farfalla, animale preso a simbolo dell’anima». «Cos’è l’anima?» chiese una ragazza. «È un concetto oscuro. Pensiamo si avvicini alla nostra idea di “continuo informativo”. Vi sono altre domande?».
Nel silenzio Sun depose la bacchetta e spense la luce che illuminava le pagine. «Questi discorsi, vecchi di tanti secoli, non sono semplici reperti storici. Ci ricordano quale terribile destino attende una civiltà che si allontana dalla Luce. Lingue, razze, culture inghiottite nel nulla. Non sappiamo che ne fu dei ‘Sopravvissuti’. Questi esseri strani, paradossali, erano in fondo simili a noi, come noi in cerca di risposte e di soluzioni. Ma non hanno avuto il tempo di trovarle». Sun si sedette. Guardò gli alberi in fiore, ascoltò il canto degli uccelli. Fece un cenno, come a dire che la lezione era finita. Gli studenti se ne andarono alla spicciolata, ridendo e parlottando nell’aria fresca del mattino. Il vecchio guardò malinconico i loro velli bianchi, splendenti come neve al sole, quel dimenarsi festoso di giovani code. “Che la Luce li protegga”, pensò.
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