Il sole era tramontato. Le strade erano deserte e silenziose. Fino all’alba vigeva il coprifuoco. Dick correva. Non era più giovane, il fiato gli mancava. Le voci dei Sanificatori erano sempre più vicine. Ne sentiva i comandi rabbiosi, confusi con l’abbaiare dei cani. Fra poco lo avrebbero raggiunto. Non aveva più di due o tre minuti per raggiungere il rifugio, forse meno. Scivolò rapidamente tra i muri grigi delle CAC, case anti contagio. Scuri alveari di cemento. A quell’ora era proibito accendere luci nelle abitazioni civili. L’edificio aveva subito da poco la quotidiana sanificazione e i muri emanavano l’acre odore del disinfettante. Dick pensò ai lussuosi palazzi in cui vivevano i Pantocrati, gli Arconti, i Contabili, i Sanitarchi, con i loro funzionari-maggiordomi. Si aprì una finestra. Nell’oscurità della sera una sagoma si sporse e lo fissò. La mascherina d’ordinanza le celava il volto. Il suono acuto di un fischietto lacerò l’aria. Poi “è qui! è qui!” urlò con voce vecchia e stridula una donna. Dick imboccò la strada che dai QUD, quartieri deviralizzati, portava nella zona proibita della città, tra le case evacuate. Era esausto, le gambe gli dolevano. L’abbaiare dei cani si faceva sempre più vicino. Non c’era più tempo. Doveva nascondersi.
Il latrare eccitato dei cani e le urla dei Sanificatori lo fecero sobbalzare. Calcolò che al massimo entro due minuti avrebbero cominciato a ispezionare le case disabitate. Si guardò intorno, il cuore gli pulsava forte in gola. Scese rapidamente la scala che portava in cantina, chiudendosi la porta alle spalle. Si trovò in una camera piccola e buia. Avanzando urtò un enorme baule. Lo aprì. Conteneva libri. Ai ladri non interessava quella roba. A nessuno interessava più. Cercando di agire rapidamente Dick buttò i libri per terra e si accovacciò nel baule. Richiuse il coperchio sopra di sé e si sforzò di reprimere il respiro affannato. Dopo un paio di minuti sentì un rumore di passi nella casa. “Cerca, cerca!” urlava qualcuno. Un cane rispose abbaiando. Dick lo immaginò fiutare la pista. Avrebbe certo seguito la traccia che portava in cantina. “Quel bastardo deve essere qui da qualche parte!” urlò un sanificatore.
I CRI, cani per la ricerca degli infetti, erano attirati dal caratteristico odore umano che solo i RAV avevano conservato. Era in trappola. Cosa gli avrebbero fatto? L’avrebbero ultimato? Meglio morire che venir rinchiuso in un CRES, in un centro di rieducazione sanitario, a far da cavia. O l’avrebbero deviralizzato? Avrebbero innestato anche a lui il VU-29, il vaccino universale. Una sorta di parassita bio-elettronico che controllava il corpo e la mente. Aveva visto i vaccinati. Molti erano morti per anafilassi o avevano subito danni irreversibili al cervello. Gli altri erano ridotti a schiavi, automi passivi. Il sensore sottocutaneo registrava ogni loro azione, parola, movimento, forse anche i pensieri. Il Partito li costringeva a spossanti ritmi di lavoro. In cambio dava loro miseri SOS, sussidi ordinari di sussistenza. Secondo gli Arconti questo era l’unico modo per riparare i danni provocati dalla pandemia.
Il sistema sanitario mondiale dipendeva dal Mivir, Ministero del virus, e aveva come unico compito di prevenire nuovi contagi. I controlli erano continui e inflessibili. Ogni caso dubbio veniva posto in quarantena in apposite celle di isolamento. Tutti dovevano indossare le PAC, protezioni anti-contagio e rispettare la DAC, distanza anti-contagio. Nessuno poteva circolare senza l’AUT, autorizzazione di uscita temporanea rilasciata dalle autorità. Per lavorare, comprare del cibo o qualsiasi altra cosa, dovevano esibire l’AVE, l’attestato di vaccinazione elettronica, e i successivi RAP, richiami antivirali periodici. I Vigilanti e gli Ordinatori fermavano spesso i cittadini per strada e facevano improvvise irruzioni nelle case per controllare i documenti vaccinali. Le irregolarità erano punite con pene severissime. I recidivi rischiavano l’ultimazione.
La gente era stretta nella morsa di un doppio terrore: da una parte l’invisibile virus dall’altra la feroce sorveglianza poliziesca. L’Arconte Generale aveva aumentato la paga agli Ordinatori e ai Vigilanti, per garantirsi la loro fedeltà. Anche l’OGI, ordine dei giornalisti indipendenti, era sul libro paga del PUS, Partito Unico per la Salute. Chiunque esprimesse critiche o dubbi era messo a tacere. Alcuni venivano corrotti, altri minacciati o più spicciamente eliminati. L’OS, l’Ordine dei Sanitarchi, forniva al Governo i pretesti scientifici per la sua politica di repressione e censura. Molti scienziati non allineati al Regime erano morti in circostanze misteriose. Alcuni erano stati internati nei famigerati CRES.
Le persone che resistevano alla dittatura sanitaria venivano detti ‘i divergenti’. Tipi asociali, con sindromi psicotiche, tendenze persecutorie e fantasie paranoiche, così erano descritti. Irresponsabili che rifiutavano di sottostare ai decreti arcontici, mettendo a repentaglio la vita degli altri. Diffondevano falsità anti-scientifiche, deliranti teorie di complotti. Erano meno dell’1% della popolazione, ma per il PUS rappresentavano un pericolo mortale. Secondo il Mivir, i RAV creavano nuovi focolai di virus mutanti, vanificando gli sforzi del Governo e dei Sanitarchi.
Per il Regime era colpa dei RAV se il virus riprendeva forza, se la gente ancora si ammalava e moriva, se il mondo rischiava la catastrofe. I divergenti erano nemici del popolo, dell’umanità. Perciò erano braccati come criminali e ogni giorno alcuni di loro cadevano nelle reti dei Sanificatori. Ogni ‘convergente’ si preoccupava di indicare agli Ordinatori tipi strani, di riferire frasi sospette. La gente si rallegrava quando leggeva sui giornali che qualcuno di questi folli ‘untori’ era stato stanato, sanificato o ultimato. I pochi divergenti rimasti si nascondevano in rifugi segreti, cercavano cibo nei cassonetti, vivevano scansando le trappole. La stampa li chiamava ‘i topi’. Si credevano dei ribelli ma anch’essi, senza volerlo, erano pedine nel gioco del Regime.
Dick lo sapeva. Era stato un biologo famoso. Aveva collaborato alla creazione del VU-29. Se la sua coscienza fosse stata più malleabile non si sarebbe trovato in un baule ma in una lussuosa residenza da Sanitarca. Lavorando al progetto VU-29 aveva capito che pandemia, contagi, vaccino, erano un iperbolico stratagemma per creare uno stato d’emergenza permanente. Gli Arconti se ne servivano per arrivare al GUM, governo unico mondiale, un regime totalitario in cui informazione, lavoro, salute, vita privata, tutto era controllato da potenti oligarchi.
Un giorno Dick se n’era andato sbattendo la porta. Aveva perso il lavoro. Proprietà confiscate, conti bancari bloccati, reputazione rovinata. Colleghi, familiari e amici avevano troncato i rapporti con lui. Aveva conosciuto altri divergenti e cercato di organizzare una resistenza, una rete di contro-informazione. Tutto inutile. Non potevano competere col potere dei media arcontici. E il PUS aveva occhi e orecchie dappertutto. Ufficialmente i divergenti andavano eliminati. Ma Dick sapeva bene che erano l’alibi per protrarre indefinitamente l’allarme sanitario. Il Governo aveva bisogno di una pestilenza. Quindi aveva bisogno di topi.
Chiuso nel baule si sentiva soffocare. Qualcuno entrò nella casa urlando ordini. “Voi due la cantina! Voi con me!” Dick trattenne il fiato, si rannicchiò, contraendo ogni muscolo. La porta della cantina si aprì. Sentì i passi pesanti sulle scale. Lo scricchiolio degli stivali si faceva sempre più vicino. Un cane fiutò il baule scodinzolando. Un Sanificatore illuminò con la torcia i libri sul pavimento. “Che roba è?”. Un altro si chinò, ne raccolse un paio. “Don Chisciotte … Guerra e pace. Solo libri di merda”. Il cane continuava ad annusare il baule. Ne usciva quell’odore di umanità che tanto gli aveva scaldato il cuore, in altri tempi. “Che c’è lì?”. L’agente dell’Ombra stava per aprire il baule quando al piano di sopra si scatenò un improvviso putiferio. “L’abbiamo preso! Il topo è qui!”. I due uomini risalirono di corsa le scale. Il cane prima esitò, poi si rassegnò e li seguì.
Per alcuni minuti ci fu un vociare concitato, colpi, imprecazioni. Dick non capiva. Forse un altro divergente si era nascosto in quella casa. O un vagabondo. Ascoltò le voci che si allontanavano. Quando si fece assoluto silenzio provò a muoversi, ma era come paralizzato. Restò così per alcuni minuti. Poi, sforzandosi, riuscì a sollevare il coperchio del baule e a uscire. Non c’era nessuno. Cautamente guardò fuori, in giardino. Il cielo s’era incupito e vi luccicavano le stelle. Nel giardino vicino un grande albero frusciava mosso dalla brezza notturna. “Credevo li avessero tagliati tutti”, pensò. Decise che avrebbe dormito lì. Era stremato, affamato, ma era ancora un uomo libero.
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