“I tre Precetti: dalla trasmissione orale della Grande Perfezione dello Zhangzhung” pubblicato per la prima volta in lingua italiana, a cura di Martino Nicoletti, rappresenta un piccolo gioiello della letteratura dello Dzogchen, così com’è stato tramandato ed è ancor oggi praticato nella tradizione preBuddhista del Bon. È articolato secondo tre Precetti e consiste nella traduzione di un antico testo tibetano che riporta gli insegnamenti trasmessi oralmente nell’VIII secolo d.C. dal maestro Tapihritsa a Gyerpung Nangsher Lopo, importante figura di religioso al servizio di Ligmicha, ultimo re dello ZhangZhung. Il testo qui tradotto fa parte del ciclo noto come “La Grande Completezza secondo la tradizione orale dello ZhangZhung”.
La “Grande Completezza” o Dzogchen è una dottrina mistica attestata in diverse fonti bonpo e conosciuta anche nella tradizione buddhista tibetana della “scuola antica” i Nyingmapa. Gli insegnamenti bonpo della Grande Completezza sarebbero giunti in Tibet tramite due distinte linee di trasmissione: entrambe originarie del Tagsig (sTag gzig), penetrarono nello ZhangZhung, una passando dall’India e dal Tibet, la seconda direttamente dallo ZhangZhung. La prima è nota come il “Bon dell’India”, la seconda come il “Bon dello ZhangZhung”. Il nome sTag gzig ha assonanza con quello dell’attuale Tagikistan, a nordovest del Tibet. Nella letteratura bonpo indica una regione non ben identificata a ovest dello ZhangZhung, dove si ritiene sia nato Shenrab Miwoche, il mitico fondatore del Bon. Lo ZhangZhung, come si è detto, è la regione dell’attuale Tibet occidentale, al cui centro c’è il monte Kailash con il lago Manasarovar. Questa zona è un importante luogo sacro per diverse religioni asiatiche, frequentato da pellegrini non solo bonpo, ma anche hindu, buddhisti e jaina che vi riconoscono il luogo d’origine di molte loro antiche tradizioni spirituali.
La Tradizione orale dello ZhangZhung comprende gli insegnamenti più importanti della Grande Completezza secondo il Bon. Essa è duplice: una è la “tradizione dell’esperienza” l’altra consiste nei “quattro cicli della tradizione della parola”. Il volume che include il testo qui presentato raccoglie gli scritti dei quattro cicli trasmessi oralmente da Tapihritsa a Gyerpung e così definiti: 1) esterno, un sommario generale della filosofia; 2) interno, le istruzioni dirette; 3) segreto, la nuda visione della consapevolezza; 4) segretissimo, la realizzazione della vera natura. Il nostro testo appartiene al secondo ciclo. Il nucleo del testo verte su due aspetti complementari dell’esperienza mistica: la nuda contemplazione non duale e la chiara percezione estatica di suoni, luci e raggi esposti. Il tutto viene esposto secondo tre modalità, dette “precetti”: Il Precetto della Base, il Precetto del Sentiero e il Precetto del Frutto.
Questi tre aspetti si riferiscono propriamente a tre “momenti” propri dello sviluppo della pratica: se con il termine “Base” si allude alla natura primordiale e completamente illuminata della mente, come anche di tutti i fenomeni, il Sentiero si riferisce invece alla realizzazione esperienziale da parte dell’adepto di questastessa natura, nonché della sua coltivazione nel corso di specifiche forme di meditazione di tipo contemplativo (trekchö). In questo ambito, come vedremo, sono fondamentali le pratiche connesse con la produzione spontanea di visioni (thögel), visioni che costituiscono la manifestazione spontanea dell’energia creativa della stessa Base a livello individuale. Il termine Frutto, infine, si riferisce alla piena realizzazione della pratica, la quale, nello Dzogchen, ha come espressione finale la manifestazione del cosiddetto “corpo d’Arcobaleno: un corpo luminoso e glorioso, realizzato grazie al riassorbimento spontaneo e totale di tutti gli elementi grossolani e sottili del corpo del praticante nella loro matrice luminosa primordiale.
Secondo il Precetto della Base: all’inizio c’è il vuoto metafisico, un’eterea essenza assoluta in cui tutto è presente a livello potenziale; è la Chiara Luce della Vacuità, la dimensione infinita della pura presenza che è simile a un cielo pienamente illuminato. Questa luce pervade tutto ciò che appare ed esiste, come lo splendore del sole in un cielo chiaro e privo di nubi. Pervade completamente il samsara e il nirvana e non ha confini che lo limitino. È immodifìcata, spontanea e perfetta in sé ed è conosciuta come il Kunzhi la “Base primordiale” sempre consapevole di se stessa. La sua auto consapevolezza è il “rigpa”. Il termine tibetano “rigpa” viene tradotto con “saggezza”, oppure “consapevolezza” ma, in questo contesto, indica lo stato originario nella sua potenzialità conoscitiva: è l’assoluta mente sconosciuta, che, per conoscere se stessa e farsi conoscere, manifesta consapevolmente l’esistenza; per questo è equiparata alla “madre” dal cui ventre scaturiscono nuove vite. Se la Base Universale è paragonabile allo spazio celeste, la “consapevolezza” è come il sole. Il cielo in se stesso è invisibile, intangibile, assolutamente indeterminabile, sconfinato e senza limiti. Il sole rappresenta la prima manifestazione della sua potenzialità: un centro radiante di luce che, illuminando lo spazio, illumina anche se stesso. In tal modo, da tempo senza inizio, Base e “consapevolezza” si trovano in una condizione di non dualità da cui scaturisce in modo spontaneo “l’energia” secondo le modalità di suoni luci e raggi, conosciute anche come i tre oggetti fenomenici. Assieme a queste tre grandi energie si manifesta inoltre un intelletto che ha due modalità operative: una corretta e una erronea,una pura l’altra impura . In quella corretta, allorché l’energia appare come i tre oggetti fenomenici, la coscienza dell’intelletto li contempla chiaramente come una propria magica e spontanea manifestazione. Avendo gli oggetti della propria manifestazione come circostanze, la consapevolezza sorge nuda, spoglia. La Base Universale viene compresa con limpidezza, senza oscuramenti. Così, tramite la comprensione, l’intelletto attinge il proprio stato naturale. Poiché non si seguono gli oggetti fenomenici, in quel momento si realizza la propria libertà.
Nella modalità erronea, quando si manifestano i tre oggetti fenomenici, la coscienza dell’intelletto che pensa s’inganna rispetto agli oggetti: essi non vengono riconosciuti come una propria magica manifestazione, bensì vengono percepiti come se fossero davvero fenomeni differenti da sé. L’intelletto che percepisce i fenomeni come differenti da sé oscura il significato della consapevolezza. Non riconoscendo la consapevolezza di sé, non si comprende il significato della Base Universale. E questo intelletto diviene “l’ignoranza innata”. Da questa “ignoranza innata” sorge “l’ignoranza grossolana” che reifica le tre grandi visioni dando vita all’universo materiale come lo percepiamo. Ogni fenomeno dell’esistenza deriva dall’energia della consapevolezza primordiale, inseparabile dal limpido vuoto. Tuttavia, gli esseri vivono nella sofferenza perché hanno dimenticato la loro vera origine, non riconoscendo più la propria natura autentica. Per recuperare lo stato originario bisogna recidere prima di tutto “l’ignoranza innata” e successivamente “l’ignoranza grossolana” attraverso l’esperienza auto conoscitiva dello stato di contemplazione.
Quando si parla di trovarsi nello stato della contemplazione significa trovarsi nello stato prima che sorgano i pensieri. Prima di entrare nel giudizio vi è sempre questo attimo di consapevolezza priva di giudizio e discriminazione. La conoscenza di questa “presenza” si ottiene recidendo la mente discriminante, la quale non significa tuttavia recidere forzatamente ogni forma di pensiero perché anche quella sarebbe una forma di attaccamento e discriminazione. Il praticante Dzogchen semplicemente osserva la propria mente senza esaminarla. Non si dedica ad alcun pensiero. Lo Dzogchenpa sperimentando il non esame ed esercitandosi a non agire in conformità dei pensieri che si manifestano, senza né accettarli né attaccarsi, sperimenterà questa “presenza” simile ad uno spazio cognitivo senza confini.
Per questo motivo nello Dzogchen si usa molto l’espressione “non correggere” o “non modificare” e “di lasciare tutto così com’è”. Agendo in questo modo si entrerà nella grande non-azione, uccidendo una volta per tutte “l’ignoranza innata”. Tuttavia “l’ignoranza grossolana”, pur indebolita, continuerà a sussistere. Dell’ignoranza grossolana si occupano il precetto del Sentiero e il Precetto del Frutto. Secondo il Precetto del Sentiero: Il “rigpa” mai separato dalla Base Primordiale (Kunzhi), benché oscurata dall’“ignoranza grossolana” che la reifica, pervade ogni fenomeno in specie il nostro corpo, dove, al centro del nostro cuore fisico, secondo questi insegnamenti, splende incontaminata. Questa “luce della saggezza dal cuore penetrante” si muove attraverso i canali energetici del nostro corpo, in alcuni in modo oscurato dall’energia dell’ignoranza (il “prana karmico”), in altri in modo puro ed incontaminato. In particolare vi sono due canali energetici che partono dal cuore e arrivano agli occhi dove l’energia del “rigpa” scorre limpida e pura e senza ostruzione da parte dell’“ignoranza grossolana”. In questo modo, se dimoriamo nello stato di contemplazione, lo spazio e la luce profonda che risiede nel cuore, risalgono lungo i canali, passano attraverso gli occhi e si trova nel cielo(lo spazio esterno) manifestandosi sotto forma dei vari oggetti luminosi, quale prodotto spontaneo della consapevolezza. Viene dato inizio ad un processo descritto nel Precetto del Frutto.
Secondo il Precetto del Frutto: questi fenomeni luminosi permetteranno al praticante di fare esperienza visiva della Base Primordiale. I fenomeni luminosi vengono designati pertanto come le forme del Vuoto. Quando la mente viene lasciata così com’è e non percepisce o non stabilisce un contatto dualistico e discriminante con le forme del Vuoto, la Base di tutto si manifesta in modo vivido e senza oscuramenti. Le apparenze degli oggetti si manifestano con chiarezza come riflessi in uno specchio. Poiché manteniamo un contatto con lo spazio e continuiamo a percepire la stessa luce che pervade la Base, facciamo esperienza della dimensione sacra nelle apparenze, ovvero percepiamo la luce nelle apparenze. In questo modo la visione prodotta dall’“ignoranza grossolana” incomincerà ad indebolirsi e nella fase finale ad assorbirsi nelle forme del vuoto della Base. Come risultato finale il praticante otterrà il “corpo d’arcobaleno”.
Il testo, splendidamente tradotto dal tibetano dall’illustre studioso Jean-Luc Achard, contiene anche un commento e le istruzioni esperienziali fondamentali dello Dzogchen di Lopon Tenzin Namdak – il più autorevole detentore vivente dei vari lignaggi d’insegnamento e di pratica della tradizione Dzogchen bonpo –, integrando così in modo impareggiabile istruzioni esperienziali con le complesse nozioni metafisiche della Grande Completezza. Questo libro è pertanto indispensabile a ogni serio praticante e ricercatore dello Dzogchen, nonché all’interessato a questa via di gnosi tibetana. Un caloroso grazie pertanto va allo studioso e praticante Martino Nicoletti che ha curato l’edizione italiana di questo prezioso testo ed l’invito a continuare nella sua opera di antropologo e traduttore di questi gioielli della spiritualità della tradizione preBuddhista.
Luca Violini