Si cita talvolta un asino che, posto a eguale distanza da due mucchi di fieno uguali, non potendosi decidere si lascia morire di fame. Naturalmente nessun asino sarebbe così stupido. Solo un filosofo, posto tra due valori equipollenti potrebbe per coerenza venir preso da paralisi e da inedia. Del resto, saggezza e filosofia han divorziato molto tempo fa, da quando ci è stato insegnato a nutrire non la vita ma i nostri valori e a ingrassarli come polli. Ma un asino, per sua fortuna, non dispone di una precisa teoria dei valori.
Al contrario di noi che, in ogni frangente della vita, dobbiamo capire quali, tra le opzioni che ci si presentano, abbiano maggior o minor valore. Decidere quale via intraprendere, quale azione compiere od omettere, richiede un ordine di valori, come di una luce che illumini il cammino. Il valore è quindi passato dal suo originale significato economico (quanto vale una merce o qual è il suo prezzo) a indicare in senso lato virtù, qualità morali, beni ideali. Può essere fine o mezzo, motivazione di un atto o atto in sé. Trova giustificazione in quanto strumento di valori superiori, collocato sui gradi di una scala gerarchica, o in cima, dove non ha più nulla sopra di sé, nel qual caso si auto-giustifica.
Per fortuna, fin dalla nascita siamo circondati da uno stuolo di educatori, pedagogisti, maestri spirituali etc. che ci forniscono gli attrezzi utili per orientarci nel fitto intrico dei valori. Mi pare tuttavia che alcuni valori siano connaturati nell’animo umano e che un buon insegnante possa solo favorire e proteggere il loro sviluppo spontaneo. Altri, legati a una determinata cultura o religione, vanno invece introdotti a forza nell’organizzazione mentale e nel carattere di una persona, per farne un buon cittadino, un buon cristiano e così via.
Sono in genere valori legati all’imitazione di un dato modello, dal quale dipende la nostra stessa dignità morale o intellettuale. Possono avere carattere mondano, come regole sociali, o sovramondano, come nella devota De Imitatione Christi. Il nostro compito è assimilarci al modello o, almeno, mostrarne l’apparenza. Come fa chi visita una mostra d’arte o va a un concerto non perché ne colga i reali contenuti estetici ma per dovere culturale. All’esterno si mostreranno i valori della bellezza e del buon gusto, ma se guardassimo all’interno vedremmo solo una perplessa impazienza.
Ogni valore imposto richiede dunque uno sforzo, un faticoso adeguamento. Siamo, per così dire, condannati ai valori forzati, ai paradigmi religiosi, politici o filosofici che una tradizione ci pone sul collo come un giogo. Ma col tempo tali valori diventano per noi una seconda natura, un complesso di inavvertiti automatismi, come l’andare in bicicletta, e non ci pensiamo più. Più un valore è inconsapevole più diventa solido e tenace. Ad esempio, la maggior parte della gente celebra oggi i valori dell’antifascismo o della democrazia per riflesso nervoso, non certo per cognizione di causa. Si tratta comunque di valori effimeri, che non avrebbero alcun senso per un uomo medievale e non l’avranno per la società transumana del futuro. Perciò è necessario, in certe congiunture della storia, un aggiornamento o persino una drammatica modifica dei valori.
Inoltre, la classificazione dei valori non è unanimemente condivisa, anzi, tot capite tot valores. In questo campo la disparità d’opinioni provoca incessanti conflitti. La soluzione non sta, come qualcuno vorrebbe, in un teorico reciproco rispetto. Porre tra i valori fondamentali ‘il rispetto dei valori altrui’ è una sciocchezza. Ogni valore infatti vuole imporsi. Se non avesse in sé la pretesa di affermarsi, ovvero di farsi valere, un valore non avrebbe valore, il che è un evidente controsenso. È logico e naturale che tra i valori vi sia lotta e competizione.
Ogni valore è motivo di conflitto in sé stesso, perché proietta un valore di segno opposto che lo segue come un’ombra. Perciò, ad esempio, il monaco che si impone il valore della castità dovrà continuamente lottare con le tentazioni della carne, che manifestano in lui il ‘disvalore’ contrario. Un valore avrà sempre un nemico da combattere. Lo stesso avviene tra le ideologie, che sono insiemi di valori. Così, quando si allude alla fine delle ideologie non si intende dire che non ne esistano più ma che un’ideologia dominante – oggi quella cosiddetta neo-liberista, economicista – è prevalsa sulle altre o le ha sterminate.
In modo analogo, ho l’impressione che dal bellum omnium contra omnes dei valori morali sia emerso infine un vincitore: il senso di responsabilità. Sembra anzi l’unico valore rimasto. Quella noiosa formula sentita per anni – ognuno si assuma le sue responsabilità – si è rivelata inefficace, e oggi su tutti noi pare incombere la minaccia degli ‘irresponsabili’. Ormai, si dice, il destino del mondo dipende solo dal nostro ‘senso di responsabilità’.
Chiariamo che ‘essere una persona responsabile’ può voler dire due cose assai diverse. Da un lato esser consapevoli delle conseguenze dei propri atti e preoccuparsene. Dall’altro esser colpevoli di qualcosa. Lo dico perché, in quest’epoca di chiarezza scientifica, qualcuno non mi accusi di essere vago e impreciso.
L’irresponsabile è oggi una figura facilmente identificabile. È colui che non si vaccina e non osserva alcune regole, decisamente surreali ma che, dicono gli ‘esperti’, sono indispensabili alla salvezza del genere umano. L’irresponsabile è pertanto considerato l’unico responsabile di un’infinita strage e di una globale catastrofe socio-economica.
Deve quindi risponderne (questo in effetti vuol dire ‘responsabilità’) e pagare la sua colpa con pesantissime sanzioni e limitazioni della libertà personale. Il fatto che non voglia ammettere la sua responsabilità non lo giustifica, anzi lo rende ancor più irresponsabile (ossia più responsabile), dato che la sua responsabilità (ossia la sua mancanza di responsabilità) gli viene palesata a ogni ora del giorno e della notte mediante inoppugnabili dati scientifici.
Così, dopo valori religiosi che portavano a guerre di religione, valori economici che portavano a spaventosi saccheggi, dopo incessanti conflitti di valori, l’umanità si stringe finalmente intorno a un unico grande valore condiviso, che trascende i colori politici, le razze, le religioni, i sessi. Pare non resti che eliminare una frangia ostinata di irresponsabili, seguaci del disvalore, per trasformare la Terra in un luogo totalmente pacifico e felice.
Non capisco dunque perché tanti si lamentino di una crisi di valori. Forse costoro vorrebbero ripristinare antiquati valori familiari, di confuciana memoria, come l’amore tra uomo e donna, la fedeltà, la pietà filiale, valori evangelici come l’umiltà e la mitezza, valori militari come il coraggio e il sacrificio etc. Forse non si accontentano di questo immenso valore – il senso di responsabilità – che ingloba in sé e rende superflui tutti gli altri.
Vorrei per altro sottolineare la coerenza di questo super-valore morale col carattere scientifico del pensiero moderno. Si dirà: questo non è possibile, perché la scienza si occupa di fatti e non emette giudizi di valore. Questo poteva esser vero un tempo, ma oggi le cose son cambiate. Proviamo a chiederci su cosa poggia un valore. Scavate, scavate, infine troverete che poggia su una (presunta) verità.
Pensate che per millenni intere popolazioni avrebbero accettato valori che comportavano privazioni e sacrifici se non fossero state persuase che tali valori avevano un fondamento reale? Che tanti monaci si sarebbero arrampicati sulla scala al Paradiso di san Giovanni Climaco, o su altre simili, col rischio di aver le vertigini e cadere nel vuoto, senza la certezza di aderire a una solida verità?
Non è necessario avere una personale esperienza di questa verità, averne una diretta visione interiore. Vi si può credere per intima fede, per fiducia nella tradizione, o per sfiducia in sé stessi. In ogni caso, la relazione tra il valore e la verità appare necessaria e inscindibile. La verità è garanzia della realtà del valore, la condizione stessa della sua validità, a partire dall’immortale affermazione che «la verità vi farà liberi».
Solo che, ai tempi nostri, è il cosiddetto pensiero scientifico a porsi come fondamento di verità, a proporre una visione oggettiva e non disputabile del mondo. Non bisogna quindi stupirsi se la scientificazione del pensiero finirà col distruggere sistemi di valori – come il diritto, la politica, la morale, l’arte, la religione – che dipendono da strumenti non scientifici di valutazione della realtà.
A quel punto, i valori perderebbero ogni significato ideale e al loro posto troveremmo solo cause materiali. Forse resterebbero, come fossili del linguaggio, allusioni al ‘bene’, a virtù o vizi morali, a percezioni estetiche, a norme giuridiche. Ma il loro valore diverrebbe una quantità scientificamente misurabile, di natura chimica, neurologica, farmacologica.
Per questo il nostro attuale ‘senso di responsabilità’ concorda con un sistema di supposizioni o superstizioni scientifiche. Perché risponde all’idea, più che di un valore, di una ‘causa fisica’. ‘Sei responsabile’ significa ‘sei la causa fisica di quello che accade’. Così una nozione squisitamente scientifica si fa tramite di un giudizio morale. E, per converso, un valore etico viene ratificato dalla scienza.
Il senso di responsabilità resta tuttavia un valore strumentale. Il suo valore finale, nell’opinione corrente, sembra essere la vita, immaginata come fondamento imprescindibile di ogni altro valore. Così si producono però due paradossi. Il primo è che, se vivere fosse il valore assoluto, morire sarebbe l’assoluto disvalore. E questo è assurdo, perché nascere, vivere e morire sono valori correlati, e divenire immortali sarebbe un grave problema.
Si potrebbe perciò arguire che il valore cui si tende sia la durata della vita, coerentemente con una visione scientifico-economica delle cose, basata su quantità misurabili. Dovremmo tuttavia porci un limite, perché non si può incrementare indefinitamente la vita come un valore di mercato. Potremmo stabilire quindi, con un apposito disegno di legge, di orientare tutti i nostri valori e di usare ogni mezzo, per quanto brutale, affinché ognuno non viva meno di 120 anni.
Ma così la vita diventerebbe un contenitore vuoto, che semplicemente allarghiamo senza riempire con nulla. E questo è il secondo paradosso. Se è posta come valore ultimo, la vita può distruggere ogni altro valore. La libertà, la bellezza, l’amore, la convivialità etc. tutto andrebbe sacrificato alla longevità. La vita resterebbe infine a contemplarsi nella sua fredda nudità e solitudine. Al massimo avrà d’intorno il senso di responsabilità, come una serva petulante e premurosa, preoccupata di stendere la sua padrona su un letto di Procuste e allungarla sempre più.
Ancor più paradossale è che la vita, come valore, rappresenta un pericolo per sé stessa. Ogni forma vivente può essere infatti una minaccia per altre forme viventi. Quindi, la difesa di una vita può implicare la distruzione di un’altra. La vita potrebbe ergersi a valore supremo e intangibile solo negando di essere un valore supremo e intangibile. Non si tratterebbe allora di difendere la vita in sé ma la vita che ‘vale di più’.
Si ripresenta qui il vecchio problema, già affrontato nella Germania pre-nazista, dell’attribuire agli esseri umani un diverso valore vitale, fino a giudicare alcune vite indegne d’esser vissute. È questo il criterio con cui, per difendere il valore della vita, si procede oggi alla persecuzione dei non vaccinati e forse se ne sta pianificando il genocidio (dire “renderemo la vita impossibile ai non vaccinati” significa infatti “li ammazzeremo”, se la semantica non mi inganna).
Questa è una possibile prospettiva futura, neppure remota. Siamo per ora in una fase di transizione nella quale ancora si cerca di conservare alcuni valori morali – almeno come finzioni intellettuali – conciliandoli con i dettami della conoscenza scientifica. È questo a creare il paradosso di una scienza che ci dice cos’è bene e cos’è male, cos’è giusto e cosa non lo è, di una scienza per sua natura avalutativa che diviene, in quanto fonte primaria di verità, anche fonte primaria di valori morali.
D’altro canto, la logica scientifica non è una logica di armonie ma di forze. Non contempla tanto una conciliazione di valori quanto il prevalere di quelli più forti. Appare dunque scientificamente legittimo che un capo di governo dica “la legge sono io”, incarnando un potere politico assoluto e incontrastabile, e che davanti alla forza (da non intendersi come virtù) i valori della legalità e del diritto debbano recedere e sottomettersi.
Un simile governante rappresenta per uno Stato i valori che Jack lo squartatore poteva rappresentare per una donna. Tuttavia, la società sembra accondiscendere di buon grado all’idea d’esser fatta a pezzi. La coscienza comune è infatti soggiogata dall’immagine della forza. Per questo un tale politico, legato di un potere imperiale assoluto (quello del denaro), può impunemente dire: “hoc volo, sic iubeo, sit pro ratione voluntas – questo voglio, così comando, che il mio volere valga da ragione”.
Dobbiamo accettare il fatto che nella nostra società siano i predominanti poteri economico-finanziari a rappresentare per diritto scientifico la fonte del valore e a ispirare l’etica sociale. Dietro il nostro senso di responsabilità e le avanzate ragioni umanitarie o sanitarie non v’è dunque alcun valore morale. Il medico infatti non cura più la salute del paziente ma quella delle case farmaceutiche; il politico non amministra più gli interessi del cittadino ma quelli di banche e lobby. Ne deriva una verità disinteressata al vero e un sistema di valori senza valore perché fondato su una radicale falsità.
Così, alla base dell’attuale congiuntura troviamo una ‘verità scientifica’ (il virus, i contagi, i positivi asintomatici etc.), il cui valore finale è una sanificazione dell’ambiente e il cui valore strumentale è il senso di responsabilità dei cittadini. Ma dal momento che non tutti sono ugualmente dotati di coscienziosa responsabilità, ci si affida a strumenti di coercizione e repressione sempre più brutali: green pass base, green pass rafforzato, super green pass, super green pass rafforzato, maxi super green pass e così via, ad infinitum. Questa progressione senza fine del mezzo e della sua violenza potrebbe farci sospettare che anche il fine cui tende debba restare irraggiungibile, ovvero incolmabile come un vuoto infinito. E che la stessa ‘verità scientifica’ su cui poggia l’intera costruzione sia vuota.
Alcuni, con un romanticismo fuori dal tempo, vedono ancora nella scienza un apostolato che si esprime in valori puramente cognitivi, senza invadere territori etici, politici, economici etc. Come se le varie dimensioni potessero procedere parallele senza toccarsi, interferire e contaminarsi. In realtà, la ‘scientificità’ è il valore forzato per antonomasia, cui corre l’obbligo di sottostare con incondizionato assenso morale e intellettuale. I valori dogmatici, espulsi da un ambito religioso in cui tutto è ormai relativo, han trovato ricetto nella scienza, e in particolar modo nella medicina, dove congetture scientifiche e prospettive salvifiche si confondono.
Purtroppo la cultura occidentale ha adorato per secoli un idolo della verità, astratto e devitalizzato. È questo a render possibile che sedicenti verità scientifiche, dopo essersi prostituite, inondino le dimensioni etico-politiche e le corrompano con falsi valori (cui persino i vertici della Chiesa si uniformano). Siamo pertanto soggetti, oltre che a una ‘tirannia dei valori’ – come direbbe Hartmann – a una tirannia della verità. In altre parole, se in un contesto antitetico a quello attuale ‘la verità ci renderà liberi’, è oggi proprio la verità, quella che ci viene imposta, a renderci schiavi.
(continua…)
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