La libertà non nasce da una semplice disubbidienza civile ma, più radicalmente, da un rifiuto interiore. Vorrei tuttavia allargare l’orizzonte della rivolta e, uscendo dalla claustrofobica attualità, considerare la natura endemica della nostra schiavitù. Difatti, anche in epoche e società molto più liberali di questa, l’uomo si è sempre uniformato ai modelli di pensiero in cui la cultura lo chiude, come tracciandogli intorno un invalicabile cerchio magico.
È un complesso di verità e valori condivisi, e noi possiamo intenderci solo con chi ne accetti gli impliciti postulati. Tendiamo quindi inevitabilmente – o necessariamente – a bloccarci in una certa visione del mondo e a restarne dipendenti. Alcuni provano a fuggire i valori comuni o a ‘trasvulatarli’. Ma in genere sono ribellioni velleitarie, che non riescono a prescindere dai presupposti dello status quo ante.
Disubbidire, staccarci dalle forme ideali della nostra tradizione, è un gesto che, più che coraggioso, ci appare folle e distruttivo. Come potremmo rinunciare alle nostre idee su essere e divenire, spirito e natura, bene e male, libertà, verità, giustizia etc.? Per liberarsi serve un gesto iconoclastico, quasi blasfemo. A questo si riferisce il vecchio detto zen: «se incontri il Buddha uccidilo». Dovremmo uccidere i Maestri, i genitori, i tutori e qualsiasi autorità ci tenga, anche ben oltre l’infanzia, in uno stato di minorità e di tutela mentale.
Questo ideale tirannicidio, quando vi si tende consapevolmente, si riduce quasi sempre a un atto mancato, perché i valori da cui siamo dominati sono inconsci. Non hanno un corpo visibile su cui sia posta una testa, come quella di un Re, che si può fisicamente mozzare. Così, ci limitiamo a sognare d’esser liberi, d’aver con la nostra rivoluzione cambiato il modo.
Io, ad esempio, sogno un mondo in cui la realtà è semplice e naturale, in cui non è necessario usare i valori come dighe per arginare la corruzione umana. Un mondo dove non serve andare in cerca dell’uomo come Diogene, o surrogarlo con l’umanità, il senso di responsabilità etc. Dove non si è costretti a inventarsi un senso della vita e dove, quando tira il vento e le foglie secche cadono, nessuno ne fa una tragedia.
Forse un tale mondo esiste, oltre le colonne d’Ercole dei miei pensieri. Ma allontanarci dalle nostre certezze, verso l’ignoto, fa paura. Ci rassicurano i valori già approvati e certificati. Perciò ci appoggiamo, come fossero grucce, a citazioni e lezioni imparate a memoria, a ‘verità’ cui dobbiamo solo consentire perché si trovano già compiutamente rivelate in un ‘Libro’ o nella competenza degli ‘esperti’. Anche se si tratta della conoscenza di sé stessi, chiediamo lumi ad altri.
Ci basiamo su certezze che, pur senza essere evidenti, hanno carattere di indubitabilità. Così, il cristiano dirà di fondarsi sulla verità avallata dall’insegnamento della Chiesa. E che questo insegnamento poggia sull’autorità della Sacra Scrittura; e questa sulla rivelazione divina; e che questa non poggia su niente perché è la verità stessa, come insegna la Chiesa. Ecco un tipico circolo chiuso e autoreferenziale, di cui è impossibile dubitare perché non ammette altra realtà al di fuori di sé. Il filosofo o lo scienziato si muoveranno all’interno di circoli epistemici formalmente diversi ma della stessa sostanza.
E se apriamo una parentesi in cui porre le nostre interpretazioni del mondo, ci affrettiamo a richiuderla. Se, come Cartesio, cerchiamo di sottoporre le nostre certezze a un dubbio sistematico, quelle che facciamo uscire dalla porta rientreranno con qualche espediente dalla finestra. Anzi, daremo loro la chiave di casa perché possano più comodamente tornare.
Tutti cresciamo in questa casa che altri hanno costruito. Da un lato, dobbiamo esserne grati. Dall’altro, anche se comoda, ben arredata, maestosa, può diventare una prigione. È quindi essenziale, per emanciparsi, quell’atto che nella tradizione buddista vien detto ‘uscire di casa’, o ‘lasciare i genitori’. Ovvero, dubitare delle verità e dei valori che una tradizione ci ha inculcato. È l’esperienza dell’esilio, di un viaggio che forse un giorno ci ricondurrà a casa. O forse ci porterà a morire lontani, ma più liberi.
“Quando ti vedremo?” chiedono i discepoli a Cristo. “Quando vi spoglierete senza provar vergogna, quando vi toglierete gli abiti e li poserete ai vostri piedi come fanno i bimbi, quando li calpesterete!”, è la risposta. Ovvero, come dice Giobbe: «Nudo sono uscito dal grembo di mia madre, e nudo tornerò in grembo alla terra». Questa essenziale nudità corrisponde all’uscire di casa. Non è una scelta intenzionale ma una crisi naturale, come si passa dall’infanzia a un’età più matura. Dobbiamo allora spogliarci dei nostri abiti mentali, divenuti troppo stretti. È un momento cruciale perché, se non cediamo alla tentazione di trovare subito nuovi vestiti, possiamo restare nella nostra nudità “e nudi contemplare”.
Ma cosa contempliamo? Questo è il punto. Non possiamo saperlo perché abbiamo dimesso i nostri familiari strumenti di lettura del reale. Ci appare allora un senso, prima nascosto dai nostri indumenti intellettuali, che non sappiamo definire e codificare. Un senso che rimane quindi inesplicato, sul quale scopi e significati abituali non hanno presa. Qualcuno lo definirebbe ‘vuoto’. Ma per noi il vuoto è solo un contenitore da riempire con quello che ci sembra necessario, ovvero coi nostri valori.
È da questa necessità di riempire il vuoto che nasce quella pedagogia del ‘dover essere’, triste tirocinio che ci vede sempre vuoti e manchevoli di qualcosa, sempre impegnati a colmare le nostre deficienze, preoccupati di rivestire la scandalosa nudità dell’essere con abiti adatti. Molti sono infatti convinti che si possano acquisire le qualità desiderate semplicemente ubbidendo a un metodo e alle sue regole. Anche se, in realtà, chiedere a un ansioso d’esser calmo o a un timido d’esser impavido è come chiedere a un cane di miagolare.
Dall’intravista libertà del vuoto, cadiamo nuovamente nella dipendenza ai valori e ai contenuti, in questo ‘dover essere’ che produce una morale ipocrita e una tensione innaturale. Cadiamo nel vizio congenito delle tecniche, ognuna con la sua ricetta per cambiare in meglio le persone, con i suoi salutari esercizi, le salutari diete. E nessuna che consigli il riposo e il digiuno, un’astinenza della volontà che ci liberi da immagini ideali di sé.
Chi pensa di ‘dover essere’ umile affetterà quindi gesti d’umiltà, l’egoista si sforzerà d’amare il prossimo e il timido di mostrarsi spavaldo. Per difendere il valore della castità dagli assalti del demonio, il monaco preda di una tentazione sessuale si infliggerà 40 giorni di digiuno, facendo 300 genuflessioni ogni giorno e ogni notte (secondo la regola di san Teodoro), oppure, come Origene, ricorrerà all’evirazione.
Si confonde così la dimensione dei fatti con quella dei valori. Nel Vangelo è scritto che basta desiderare una donna per commettere adulterio. Questo è il piano del valore. Che il valore si materializzi in un fatto sarà forse gravido di conseguenze pratiche ma è inessenziale per lo spirito.
È appunto questo l’aspetto difettivo del nostro sistema di valori, l’assimilarsi a un sistema di fatti, porre l’io sociale, esteriore, come surrogato dell’io spirituale, pensando sia sufficiente fare, dire, pensare qualcosa, o astenersene, per realizzare un valore. Questa è un’etica della verniciatura, che si culla tra intenzioni superficiali, rifiutandosi di guardare più a fondo, alla propria interiorità.
L’idea di dover migliorare la propria immagine mediante una prospettiva di valori ci impedisce una percezione sincera di noi stessi, sostituendola con una costruzione idealistica; ci spinge a emettere giudizi e a correggere la realtà seguendo criteri che spesso contraddicono i nostri veri desideri. Diventiamo schiavi di un bene astratto, pellegrini verso una irraggiungibile Terra Promessa.
Alcuni si metteranno quindi a cercare la salvezza dell’anima. Il monaco zen cercherà l’illuminazione, l’indù l’affrancamento dalla ruota delle rinascite, il filosofo cercherà il sapere, l’artista la bellezza, il manager l’aumento dei profitti, il politico il potere assoluto etc. Ognuno avrà un’utopia da realizzare, immaginerà una scala di valori che lo avvicina al Valore Ultimo.
Ma esiste un valore ultimo? Alcuni affermano sia la ‘felicità’. “Perché vuoi esser felice?” suona infatti senza senso. Non sembra necessaria un’ulteriore motivazione. Eppure, io non credo che il valore, ossia il bene, trovi il suo definitivo compimento nell’esser felice. Se il Paradiso fosse un’eterna felicità, una sorta di ininterrotto orgasmo spirituale, mi sembrerebbe un celestiale inferno.
Ovviamente il problema non sta nella felicità, che per ognuno può significare qualcosa di diverso, ma nel teorizzarla come meta da raggiungere, nel codificarne la via, gli accessi, gli impedimenti etc. Nel ricondurre anche la felicità alla condizione di un ‘dover essere’ che fa schermo all’essere, all’hic et nunc, come un banco di nubi copre il sole. Così anche l’esser felici diviene una psicosi, una morbosa fantasia direttrice cui cerchiamo di adattarci. A questa felicità legata a un progetto, a un’idea, preferisco quella che non so dove cercare, che nasce da sé, da un desiderio sconosciuto.
«L’uomo ha un tempo per morire, il salto improvviso del cavallo che salta un fossato. Chi non sa soddisfare i suoi desideri, non capisce nulla del Tao». Così dice, in un immaginario dialogo, il brigante Zhi a Confucio che, da pedante moralista, lo vorrebbe convertire a valori umanitari. Nell’Hagakure, sorta di compendio dell’etica samurai, leggiamo: “La vita dura solo un istante. Dovremmo aver la forza di andare avanti facendo ciò che più ci piace”.
Le due affermazioni si equivalgono sotto un duplice aspetto. Pongono entrambe la radicalità del desiderio come senso ultimo dell’essere, e la collegano alla fugacità della vita. Non v’è qui un effimero che diventa eterno – come nella nostra concezione della morte e dell’aldilà – ma un eterno che si fa effimero. Non v’è l’astratto aldilà del ‘dover essere’. L’essere è sempre un aldiqua, un’immanenza segnata dal cambiamento e dalla caducità. Non esistono dunque valori fissi cui aggrapparsi, solo il flusso di un mobile desiderio.
Questo è sufficiente a gettare nel panico il moralista e a scompigliare i suoi ordinati valori. Ma, di fatto, solo il desiderio può rendere evidente ciò che per noi ha valore. Non può esistere infatti un bene che sia per sua natura indesiderabile. Bisogna esser sinceri con sé stessi, ascoltare l’istinto che ci guida prima che uno strato di pregiudizi lo ricopra.
Un valore è autentico se coincide con un autentico desiderio. Ma i nostri valori ideali tendono verso l’alto, come il fuoco, il desiderio tende al basso, come l’acqua. Non si consuma in superbe elevazioni ma cerca la profondità. È tanto più autentico quanto più è profondo, e tanto più profondo quanto più è umile, cioè privo di artificio e di ostentazione.
Per questo dobbiamo denudarci, e accettare la nostra nudità come una naturale e salutare povertà di spirito. Spogliati delle nostre pretensioni intellettuali vedremmo forse che la felicità è il quieto scorrere dei giorni reso possibile da desideri semplici e profondi, la gioia noncurante e inavvertita (la salute è infatti silenziosa) di un’anima sana, non turbata da malesseri interiori.
La beatitudine inerente al Sé farebbe forse capolino come un sole che sbuca dalle nubi. Esaltazioni orgiastiche, fremiti di potere, eroici furori, rapimenti estatici, ci sembrerebbero piccoli vortici nel vasto mare di quel piacere cui tendiamo per istinto, spinti da quel sapere inconscio che è la vera essenza della fede. Come il neonato cerca il seno materno e non ha pace finché non lo trova, ‘sapendo’ che v’è un capezzolo da cui potrà succhiare il latte.
«Quando ho fame mangio, quando ho sonno dormo. Lo stupido riderà di me, il saggio capirà» dice Lin Chi, maestro zen del IX secolo. «Quando ballo, ballo, quando dormo, dormo». Tanto nelle parole del monaco cinese quanto in quelle di Montaigne, v’è un desiderio semplice, che ha il profumo della rosa senza perché di Silesio, la cui bellezza prescinde da ogni valore intenzionale, da ogni ‘dover essere’.
Sembra esserci in noi un’antica alienazione che ci impedisce di capirlo. Il compito d’esser quello che non si è riluce davanti a noi come una nobile fiamma, una missione. La profondità del desiderio sembra minacciarci invece come un oscuro abisso marino. Dio – ovvero il Valore Assoluto – è per noi la fonte della verità, del bene etc., ma non del desiderio, la cui competenza è lasciata a forze infere. Religione, morale, psicologia, guardano tutte con diffidenza al desiderio. Si crea così un insanabile conflitto tra una trascendenza metafisica e un’immanenza vitale, tra la speculazione astratta e la concreta realtà dell’esperienza.
Dio è per noi un triangolo, un occhio onnisciente, un vecchio architetto col compasso in mano. Non concepiamo che dietro di Lui vi sia un desiderio, perché desiderare significa mancare di qualcosa, e Dio non manca di nulla. Il Tao, dice invece Laozi, è come l’acqua che scorre, come il neonato, come la matrice femminile; generosità, vitalità, fecondità inesausta. È l’eterno desiderio di creare e manifestare sé stesso. Non il dovere ma il piacere di essere.
Esser liberati dai valori forzati, fondati su verità astratte, significa dunque cogliere la creatività del nostro desiderio, in cui si perde la distinzione tra natura e spirito. Al sapere dei valori forzati subentra allora il non-sapere di valori spontanei, l’artificio lascia il posto alla semplicità e alla sincerità. Non è del desiderio in sé che dobbiamo preoccuparci, ma della sua superficialità, della sua mancanza di coraggio, dell’incapacità di essere autentico e profondo.
Si dirà che così avremo una molteplicità di sistemi etici, basati su desideri soggettivi. D’accordo. Avremo una nostra etica e la condivideremo solo con amici la cui anima parli il nostro stesso linguaggio. Per altri sarà falsa ma sarà vera per noi. Per altri sarà piena di contraddizioni ma per noi sarà logica. Perché ubbidisce solo alla viva, flessibile realtà che nella nostra coscienza incessantemente si crea e si distrugge.
Torniamo così al cuore del problema. Dobbiamo aspettare che siano altri a dirci quale sia il nostro ruolo nel cosmo e quali debbano essere i nostri valori? Quale sia la verità su noi stessi? Una tale verità sarebbe solo un idolo. La ‘verità obiettiva’, la spiegazione degli oggetti, è un’ossessione della nostra cultura. Non può esistere verità o valore che non sia nel soggetto.
Io credo alla semplice, silenziosa evidenza. Credo alla felicità come appagamento – spontaneo e imprevedibile – di un desiderio sconosciuto. Credo alla verità che libera dal sapere, che libera anche dalla verità, che libera dalla libertà stessa. Se siamo aperti e vulnerabili un mistero ci infetta, come un contagio involontario. Non dipende dal nostro senso di responsabilità. Anzi, meglio se siamo irresponsabili.
“Tuttavia, siccome ciò potrebbe rivelarsi nocivo, se mal interpretato, ho deciso di non rivelare questo segreto ai giovani” dice il vecchio samurai. Non bisogna dire di “fare ciò che più piace” o che la vita è “il balzo improvviso del cavallo che salta un fossato” a quelli che potrebbero distorcerne il senso. Meglio lasciar loro il culto del ‘dover essere’ e dei suoi valori, anche se forzati. “Visto come vanno le cose oggi nel mondo” prosegue l’Hagakure “io resterò in casa a dormire”.
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