Icaro, figlio di Dedalo e con lui in fuga dal labirinto, e una qualsiasi falena vanno bruciando le ali, troppo accostandosi al fuoco. I raggi del sole, la fiammella d’una candela. Entrambi sono prigionieri del medesimo destino. Cosa distingue l’eroe del mito, la sua sfida agli dei, il tentativo di vincere il principio di gravità, quell’andare sempre in alto, più su, un orgoglio smisurato, lo sguardo incosciente si confonde con la fierezza, dall’innato comportamento di una farfalla notturna, una fra milioni di sue indistinguibili e simili, in quell’effimero battere di ali, breve come le ciglia inavvertite, per trasformarsi in un mucchietto inutile e insignificante? Nell’eroe mitologico, nel suo essere libero di osare, l’unicità della grandezza; la condizione di pochezza e di piccineria nell’insetto a cui non è dato essere altrimenti. L’infinitamente grande contro l’infinitamente piccolo e a tutto danno di questo ultimo, senza speranza di ribaltare il verdetto. E ciò, verrebbe a dire, perché sta nell’uomo il sognare ad occhi aperti e trasformarli in opera compiuta (dice il filosofo Anassagora come l’intelligenza sia nelle mani) – Icaro, appunto, i disegni di Leonardo da Vinci e, infine, quello staccare l’ombra dal suolo che è la storia moderna del volo e che apre scenari ancora inesplorati.
Abbiamo rilevato in altra e recente occasione come, facendo riferimento ai testi induisti, le Upanishad nello specifico, gli estremi sono parte dello stesso universo, i cui confini sono irraggiungibili, di entrambi l’essenza è la profondità. Di più il Brahma e l’Atman portano in sé la medesima cifra, la capacità di raccogliere in sé il principio e la fine, contenere le molteplici forme dell’esistente. Icaro e la falena… ‘Perché la fragola è rossa e puntinata di nero? Per non essere confusa con l’elefante…’. Paradosso? E se non lo fosse… Poeta Pound, rinchiuso nel campo di Coltano: ‘La formica è un centauro nel suo mondo di draghi’ e, in precedente Canto, lapidario: ‘Formica solitaria d’un formicaio distrutto – dalle rovine d’Europa, ego scriptor’. Se le formiche si fossero sviluppate in prestanza fisica, accanto all’organizzazione sociale di cui sono dotate, superando la misura umana, chissà, forse saremmo noi a doverci preoccupare di non essere calpestati. Si dice come sia domabile il cavallo e reso al servizio dell’uomo perché il suo occhio ci vede simili a giganti… Già, all’uomo, fu fatto dono dell’intelligenza e l’intelligenza produsse la ricchezza del linguaggio e il linguaggio s’impose quale dominio (Pico della Mirandola e l’Oratio de hominis dignitate, il dono più grande, dare nome alle cose). Ma quante volte essa ci appare sterile e arrogante?
Se, poi, accettiamo la presenza di due infiniti, l’estensione e la profondità, il grande e il piccolo (il che è in sé contraddizione come avvertivano i filosofi del Cinquecento e Giordano Bruno ci finì in piazza Campo di Fiori, legato al palo con la mordacchia e alcune fascine di legna ai piedi. E, qui, tralascio l’identità, la coincidenza dei contrari, di Nicola Cusano, non a caso inteso ‘incunabolo’ della filosofia moderna), dobbiamo percorrere un altro sentiero che ci conduca là dove Icaro e la falena si tengono compagnia. Perché di destino si parla per l’eroe del mito; d’istinto, impulso legato alla specie, per l’insetto – entrambi prigionieri di ciò che si è e non si può sfuggire. E Pindaro ammonisce: ‘Divieni ciò che sei!’.
Dentro il mito, in quel cielo terso, sotto il flusso delle onde, in alto il sole (e mi tornano alla mente alcune immagini tratte da Volo di notte di Antoine de Saint-Exupéry quando Fabien, il pilota del corriere postale, pur consapevole ‘che era un tranello’, scorge ‘tre stelle in un buco, si sale verso di loro; ma poi non si può più scendere, e si rimane lassù, a mordere le stelle… Tuttavia la sua fame di luce fu tale, ch’egli salì’) Icaro stende le braccia e le ali, eternamente in volo ed eternamente immoto. Egli ormai è questa spinta verso l’alto, inascoltate le raccomandazioni del padre (tutti i padri sono saggi e tutti i vecchi vili, saggezza e viltà inutili), forse in un angolo della mente anch’egli timoroso, ma il cuore gli scoppia dentro di una folle gioia, di un canto irrefrenabile e, lo immagino, canta riempiendosi i polmoni d’aria e di sfida. E lo immagino con gli occhi grandi il naso aquilino i capelli lunghi e inanellati il fisico atletico, bello perché la giovinezza, se la si mette in gioco, sprigiona un alone di splendore, fragile momento, dono ingannevole, che sempre o il tempo o la morte dissolve… ‘Gli eroi son tutti giovani e belli’, da La locomotiva di Francesco Guccini. Fuori dal mito Icaro, pallida ombra vaga fra i mortali, anonimo.
S’è fatta sera, una notte di tarda primavera, la finestra è aperta sulle cime degli alberi, il giardino, il balcone fiorito, il cielo stellato e una fettuccia di luna sorride. Qualcuno forse siede al tavolo, beve ancora un sorso, mastica lento un boccone di pane spargendo briciole sulla tovaglia incerata a grandi riquadri e richiami floreali. Al centro una candela accesa, un alone di chiarore, lieve gioco di ombre. Fuori volteggiano due pipistrelli in cerca di cibo; farfalle svolazzanti, alcune superbe, simili a giovani donne dal seno eretto e dai fianchi larghi, le ali variopinte; altre grigie intimidite, le ali come tute grembiuli divise tutte uguali, un mondo proletario di fatica e di poche gioie, imparentate con le prime da pignoli entomologi ma lontane così distanti come il brutto anatroccolo senza speranza d’essere un giorno trasformato in cigno. Ed una di esse, forse la più ardita o ribelle o soltanto sciocca o perché sta nel suo stesso esistere, si diparte dalle altre, dalla protezione del buio, del vento appena accennato che dà impeto al loro ruotare incessante. Essa avverte in sé l’eco remoto, l’atavico richiamo verso ogni fonte di luce. E va, incurante del pericolo, va perché le sue ali grigie e brutte s’illuminino diventino esse stesse luce e fiamma. Per un solo attimo… d’eternità.
Icaro prigioniero dell’Essere; la falena vittima del Divenire.
L’Eroe unico e inimitabile a sfidare il limite della condizione umana; il solitario ignoto Milite della specie, il suo sacrificio, la sua morte attestano come ogni destino si ascrive al suo compimento in un rigenerarsi un riprodursi un consumarsi continuo. Senza gli eroi non v’è possibilità alcuna di distinguere ciò che, chissà come e perché, in quale disegno ascritto fin dalle origini, intende ergersi fra le rovine d’ogni sconfitta rifiutare la banalità del quotidiano superare il reiterato sforzo dell’inutilità. E’ pur vero l’inverso: sebbene sovente l’eroe ha il cuore randagio e la mente là dove alcuno non può raggiungerlo, egli si rappresenta campione di quell’umanità becera e dolente senza la quale egli non è nulla, iniziatore di vie che ad altri sarà dato percorrere e per loro s’è dato principio. Ecco perché entrambi ardono al calore e alla fiamma – l’uno nell’immortalità del mito; l’altra in ogni notte di tarda primavera…
V’è, però, altro calore ed altra fiamma per Icaro e la falena. Altro ruolo; altra lezione. Nonostante il rumore dei giorni, i nuovi dei proposti e ‘falsi e bugiardi’, i caleidoscopi d’un benessere effimero e d’un consumismo ‘usa e getta’, sempre qualcosa ci inquieta ci brucia dentro ci arrovella la mente fa pulsare il cuore, in pratica vince il tempo e lo spazio della nostra finitudine. Come scriveva, nell’esilio senza fine in Spagna, costretto nell’impotenza del non agire, Léon Degrelle: ‘Mi ricordo tre parole che un giorno avevo decifrato su una tomba di marmo nero giù a Damme in Fiandra, dentro una chiesa della mia patria perduta: Etsi mortuus urit’. Insorge la passione, il rovello dell’anima accartoccia le viscere, lo spirito si desta e si fa sentinella inquieta e impaziente d’altrove e chiede che ci si metta in cammino. Icaro è delle élites il segno; la falena indica che a tutti (dove, qui, ‘tutti’ va inteso alla stessa stregua dell’Amor fati di Nietzsche, cioè un privilegio pure una educazione, certamente di una condizione a fondamento) è dato ascoltarne il richiamo.
Ascritti nel fiume della Storia o anonimi, appunto come falene, dispersi nelle medesime acque tumultuose, gli uomini, ‘certi’ uomini, hanno raccolto la voce che arrivava loro – chissà da dove, chissà perché – e hanno detto addio al focolare agli affetti ai luoghi cari e sicuri e sono andati sempre più avanti, sempre più oltre, in prossimità del fuoco – in qualsiasi forma si manifestasse –, hanno gridato, urlato, pianto e riso al contempo, come ‘Mila (di mezzo alla turba): la fiamma è bella! La fiamma è bella!’… o, senza l’alone della grandiosità tragica e pagana de La figlia di Iorio, scaturita dalla penna immaginifica di D’Annunzio, ma pur sempre in cammino per rendere se stessi ceppo ardente. ‘Poi, – una notte di settembre mi svegliai – il vento sulla pelle – sul mio corpo il chiarore delle stelle – … Poi, – una notte di settembre me ne andai – il fuoco di un camino – non è caldo come il sole del mattino – … Io vagabondo che son io…’, così Augusto Daolio.
Ecco perché non c’è sembrato dare ‘scandalo’ (se ciò fosse, ce ne fregheremmo comunque, visto che nel nostro DNA sta un ‘Merlino provocatore!’) osservare Icaro in qualche raffigurazione pittorica e assistere, al contempo, impotenti a che la falena consumasse le sue ali alla fiammella della candela. Pensarli sì distanti e così vicini, forse perché avvertiamo, in queste luci vaghe dopo l’incendio del tramonto, che abbiamo speso ‘bene’ la nostra esistenza, di certo non in volo come l’Eroe del mito greco, la mia vanità non assurge a tanto, ma più semplicemente, pur folli e disperati, irriverenti e cialtroni, come falene nel cuore della notte.
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