10 Ottobre 2024
Etnofederalismo Etnonazionalismo Globalizzazione Identità Mondialismo Nazione

Identità


di Fabio Calabrese


Capita spesso che degli articoli nascano da altri articoli, quando ci si accorge di non aver detto tutto quello che si intendeva dire, quando ci sono questioni che meritano di essere ulteriormente approfondite.
Redigendo il mio scritto precedente, “Euroscettici e populisti”, mi è capitato di parlare sommariamente del fenomeno della globalizzazione e di quello ad esso parallelo dei “no global”.
Anche se le due cose sono collegate, non si dovrebbe confondere del tutto globalizzazione con mondialismo. Quest’ultimo, infatti, è qualcosa di più del fatto che le economie delle diverse aree del nostro pianeta sono di fatto interdipendenti, è la tendenza a creare ovunque società multietniche attraverso la migrazione da un’area all’altra di grandi masse umane, con il corollario effetto della sparizione di popoli, etnie e culture per dare luogo a un’umanità totalmente ibridata e imbastardita. Chi non sia divorato dal demone di ideologie cosmopolite (cristianesimo, illuminismo, marxismo) non può non vedere che questo destino che incombe su di noi è la peggiore delle disgrazie. Qualcuno, con un’immagine semplice ma efficace, l’ha paragonato a un tritacarne: esso sta preparando alla nostra specie la stessa sorte di un animale passato al tritacarne, dopo un simile trattamento non è più possibile distinguere pelle, carne, ossa, interiora ma solo una poltiglia esattamente come si vuole avvenga alla sciagurata umanità del terzo millennio.

Tutte le opposizioni alla globalizzazione dovrebbero in realtà essere, se non sono deviate verso un falso scopo, opposizioni al mondialismo. Opporsi alla globalizzazione E NON al mondialismo, come fanno i “no global” di sinistra che guardano con simpatia a ogni forma di meticciato, è il massimo dell’assurdità. Quale significato potrebbe infatti avere mantenere dei segmenti dell’economia separati dal mercato globale se nel contempo si vuole far sparire i popoli, le etnie, le culture a cui queste economie differenziate dovrebbero fare da supporto? Sarà forse perché ci si muove nell’ambito dell’illogicità pura, che il movimento “no global” si è assai presto trasformato in un’accolita di teppisti fra i più violenti che si possono immaginare, capaci di mettere a ferro e a fuoco una città, ma non di avere un ragionamento che vada oltre la giaculatoria di slogan balbettanti.
Una vera opposizione al mondialismo si ritrova semmai in tutti quei movimenti che possiamo chiamare identitari, e che sicuramente non si collocano a sinistra.
Tutti questi concetti li avevo spiegati anni fa in un articolo, “Identitari e no global”, scritto per la rivista “Identità” di Salvatore Francia, e pubblicato sulla stessa, una bella iniziativa che però non è riuscita a durare.
Anche nei confronti di questi movimenti identitari esprimevo però una certa cautela: non si può pensare di tornare, che so, alle comunità di villaggio dell’età neolitica. Identità non va necessariamente intesa come localismo e campanilismo (destinato oltre tutto a venire fatalmente in urto con altri campanilismi), separatismo in stile Lega Nord e via dicendo. Io penso che sia una questione di semplice realismo. Le realtà nazionali e meglio ancora un’Europa di popoli reciprocamente solidali, un’Europa svegliatasi dal drogato incubo UE possono avere la forza di opporsi alle tendenze mondialiste, ma le micropatrie sono scogli destinati a essere sommersi al montare della marea, o addirittura ghiaia che può essere sbattuta per ogni dove.
Bene, mi sono dovuto accorgere che quando ho scritto queste cose, sono stato anche troppo generoso.  
Ultimamente, dopo due anni di sospensione, si è tornato a svolgere il tradizionale raduno leghista di Pontida (ora, io vorrei persino tralasciare il fatto della totale incongruenza storica: quando i comuni raccolti nella Lega Lombarda tennero a Pontida lo storico giuramento, la loro coalizione non era rivolta certo contro lo stato italiano che allora non esisteva, ma contro l’impero germ
anico guidato da Federico Barbarossa, e per questo motivo in età romantica gli episodi del giuramento di Pontida e della battaglia di Legnano sono stati celebrati come loro antesignani dai patrioti risorgimentali certamente con più coerenza storica dei leghisti odierni).
Prendo in mano il giornale che dedicava un articolo a questo evento, e rimango allibito guardando la foto che lo correda, dove si vedono tre tizi, tre militanti leghisti, due dei quali vestiti con asciugamani e lenzuoli che a loro parere dovevano riprodurre l’abbigliamento degli antichi Celti e con in testa elmi cornuti (uno dei due con le corna disposte orizzontalmente che saranno state un metro per parte), il terzo con un costume, verosimilmente di gommapiuma, da orco dei cartoni animati.
Cose di questo genere andrebbero bene a carnevale, sarebbero ancora state passabili a un’hobbiton tolkieniana o a un festival celtico, ma non certo al raduno di una forza politica che bene o male si candida alla guida del Paese, cos’è, una ricerca dell’identità o della buffonata?
Queste micropatrie non esistono se non sul piano del folclore, e del folclore pacchiano, che ha più a che fare coi fumetti di Asterix che con la storia.
Coloro che mi conoscono sanno che mi sono occupato e continuo a occuparmi molto di celtismo, per una serie di motivi, perché quella degli antichi Celti è una cultura misconosciuta, negata da chi ha interesse a mantenere il mito bugiardo di una civilizzazione da oriente, perché la radice celtica è comune a molte nazioni europee, e dovremmo prenderla in seria considerazione se la nostra finalità è quella di dar vita a un’Europa basata sul sangue e sulla storia invece che sul dio denaro (e si vede bene oggi come questa “Europa” creata sulla base dell’interesse si sta rivelando una macroscopica truffa ai danni degli Europei), e in fine – last but not least – perché anche da noi in Italia una spiritualità di tipo celtico è piuttosto sentita e seguita laddove, salvo pochissimi, per quanto riguarda il paganesimo classico non si va oltre un interesse erudito per la sua mitologia, e penso sia necessario mantenere la disponibilità al coagulo, al sincretismo, alla collaborazione fra le forze spirituali che si oppongono sia a un cristianesimo sempre più mondialista, sia all’ateismo marxista, ma non ho mai trovato nel celtismo un pretesto per negare la mia italianità, e, come se non bastasse, le buffonate preferisco lasciarle fare a qualcun altro.
Quasi all’improvviso, ancora prima di ripiegare il giornale, mi è però venuto un altro pensiero. Perché ci si inventa delle patrie immaginarie? Per quale motivo si vuole essere Galli cisalpini, padani, longobardi magari, e nell’altra mezza Italia da sotto Roma in poi figli delle Due Sicilie o della Magna Grecia?
Si vuole, si vorrebbe essere tutto meno che italiani perché dell’Italia ci si vergogna. Ma la colpa di questa situazione, di questo senso di ripulsa estremamente diffuso, non può essere imputata ai leghisti o ai loro equivalenti meridionali. Diciamola la verità, una volta per tutte e con chiarezza: settant’anni di democrazia antifascista sono riusciti a produrre negli Italiani la vergogna di essere tali. E’ a mio parere una responsabilità gravissima di cui la classe dirigente democratica e antifascista dovrebbe essere chiamata a rispondere, non meno che degli intrallazzi e delle ruberie del saccheggio infinito della cosa pubblica. La maggior parte di costoro dovrebbe essere traslata direttamente dai banchi parlamentari al banco degli imputati.
Occorre una buona conoscenza, una consapevolezza storica ma anche e forse soprattutto grinta, orgoglio per capire che noi non siamo quello che ci hanno ridotti a essere. Perdonatemi la citazione dal “Re leone” disneyano ma che nel nostro caso calza a pennello, e forse dovremmo ripeterci tutti i giorni: “Tu sei molto di più di quel che sei diventato”.
Occorre sollevare lo sguardo oltre le miserie del tempo presente. Quale altra nazione può vantarsi di aver dato al mondo Roma e il rinascimento? Non basta. Ci sono stati quattro uomini che forse più di ogni altro hanno cambiato i destini del Mondo: Marco Polo, che ha reso consapevoli gli Europei dell’esistenza di un vasto mondo oltre e lontano dalle sponde del Mediterraneo, Leonardo Da Vinci, il geniale anticipatore che ha intuito la scienza e la tecnica moderne, “Un uomo sveglio quando tutto il resto dell’umanità dormiva”, l’ha definito Sigmund Freud, Cristoforo Colombo che con la scoperta dell’America ha unificato la storia del nostro pianeta svoltasi fin allora come su due palcoscenici, quello eurasiatico-africano e quello americano, del tutto separati, Galileo Galilei che ha inventato il metodo sperimentale-matematico e fondato la scienza moderna. Questi quattro uomini avevano una cosa in comune. Sapete quale? Erano tutti e quattro italiani, come me e voi.
L’UNESCO ha stimato che l’Italia contiene il 50%, la metà del patrimonio artistico, architettonico, archeologico mondiale. Questo immenso patrimonio di cui oggi non ci prendiamo sufficiente cura, non è arrivato in Italia per caso, che anzi la nostra terra è stata semmai vittima di saccheggi, spoliazioni, furti che ne hanno fatto finire un’ingente quantità all’estero, è stato prodotto nei secoli dal senso artistico, dall’inventiva, dalla genialità della nostra gente.
Non abbiamo nessun motivo di vergognarci e molti motivi di fierezza per il fatto di essere italiani, semmai è la democrazia antifascista che ci deve procurare repulsione e disgusto.
T
utte queste pseudo-identità pseudo-nazionali che ho nominato sono traballanti, e infatti appena qualcuno di questi padani, cisalpini, bi-siculi, magni greci si reca all’estero, viene subito identificato come l’italiano che non vorrebbe essere. Che qualcuno di questi si provi a raccontarla agli stranieri la storiella dei padani e dei bi-siculi, otterrà solo di farsi ridere in faccia!
L’identità nazionale è qualcosa che non si può scegliere. L’identità in generale è CIO’ CHE NON SI SCEGLIE. Nessuno sceglie il tempo e il luogo della propria nascita, i propri genitori, il proprio sesso (oddio, è vero, alcune persone scelgono di ALTERARE il proprio sesso, ma è discutibile che diventino realmente dell’altro, non ai fini riproduttivi, e si pongono comunque in una situazione di non normalità). Una persona può scegliere un lavoro, una carriera, un partner, ma proprio per questo, queste cose non fanno parte dell’identità. Si può decidere di cambiare lavoro, si può divorziare dalla propria moglie, dal proprio marito, ma non dai genitori.
L’identità nazionale è dello stesso ordine, è qualcosa con cui nasciamo e non possiamo cambiare. Questo lo si può percepire come una non libertà, ma sappiamo anche che la libertà TOTALE non è possibile né desiderabile. Konrad Lorenz faceva notare che gli organismi dotati di scheletro come l’uomo, hanno perso la libertà di poter flettere ogni segmento del proprio corpo in ogni direzione possibile, libertà che hanno invece i lombrichi, ma è solo questo che ci consente di avere la libertà di alzarci in piedi. Identità, appartenenza, radicamento in una realtà nazionale, etnica, storica, culturale possono essere percepiti come dei limiti, ma sono essi che consentono a ciascuno di noi di non essere solo un puntino, un nulla perso nel magmatico caos di un’umanità sterminata fatta di miliardi di nostri simili.
E’ proprio questo che oggi un sistema che tende all’informe, alla cancellazione delle differenze, tende ad abolire, non per dare all’uomo maggiore libertà, ma per renderlo più facilmente manipolabile.
A me era capitato diverso tempo fa di sottoporre alcuni miei scritti all’attenzione di un mio collega ed amico. A fronte di una valutazione complessivamente positiva, egli mi rimproverò l’uso che facevo del termine “etnico” là dove egli riteneva che sarebbe stato più appropriato scrivere “nazionale”. Io avevo dato per scontato che “ethnos” fosse la stessa cosa che “ghenos”, che una comunità umana sia innanzi tutto definita dalla comunità di sangue, ma – egli mi fece notare – nel linguaggio volutamente ambiguo o per meglio dire surrettiziamente impregnato di costrutti ideologici delle scienze sociali attuali, “etnico” ha finito per riferirsi alle componenti culturali-apprese in opposizione a quelle biologiche-innate, ed era quindi il caso di non prestare il fianco all’equivoco o a questa aberrante concezione.
In base all’aberrazione delle attuali “scienze sociali”, un afroamericano, un nero che parla e pensa in inglese, lingua germanica, è “un germanico”. Non sorridete, perché questo è il tipo di situazioni che l’immigrazione porterà sempre più massicciamente anche da noi.
L’idea stessa di nazione implica la continuità e l’appartenenza di sangue. “Natio” viene da “nasco”, ed è per questo che si cerca oggi di sostituirla sempre di più con quella di cittadinanza, il cui significato si riduce a nulla di più di uno scarabocchio e di un timbro su di un pezzo di carta.
In una bellissima pagina del “Dialogo dei Massimi Sistemi”, Galileo Galilei descrive i pedanti del suo tempo, i quali, non piacendo loro il mondo così com’è, cercano di sostituirlo con un “mondo di carta” fatto di citazioni di Aristotele. Questo genere di pedanti non si è estinto, si è semplicemente trasferito dalla scienza alla giurisprudenza e alla politica.
Diciamola la verità, con chiarezza e una volta per tutte, non solo la “natio”, l’eredità di sangue di ciascuno di noi, è un costituente fondamentale dell’identità personale di ciascuno di noi oltre a concorrere a formare un’identità etnica in misura infinitamente più importante di tutti i costrutti culturali, ma l’appartenenza a un “ghenos” comporta inevitabilmente un “ethos” a cui non è possibile sottrarsi.
La verità pura e semplice è che SI NASCE SCHIERATI. Questo lo si capisce molto bene se si ha la ventura, come è accaduto a me, di nascere su di un confine “caldo”. E’ un fatto la cui consapevolezza si cerca a ogni modo di rimuovere, ma rimane un fatto: gli Italiani della sponda orientale dell’Adriatico hanno pagato per tutti e nella maniera più atroce la sconfitta nella seconda guerra mondiale. Io non so se il maresciallo Tito, il dittatore comunista jugoslavo abbia mai letto il “Mein Kampf”, ma di certo ha applicato alla lettera la formula hitleriana: “Il suolo straniero si può assimilare, il sangue straniero no, o lo si allontana o lo si elimina. Con il crollo dell’Asse, sulla sponda orientale dell’Adriatico è avvenuta una “pulizia etnica” di grandi dimensioni (anche in questo caso, nel distorto linguaggio dei democratici, teso a falsare le cose, “etnico” significa “culturale”?): decine di migliaia di italiani colpevoli solo di essere tali, sono stati massacrati, gettati vivi negli inghiottitoi carsici noti come foibe, ma lo scopo, pienamente riuscito, era di indurre gli altri alla fuga con il terrore.
Tanto per prevenire le solite, scontatissime, noiose fino alla nausea, obiezioni di parte democratico-antifascista, dirò che – è vero – prima della guerra e durante essa il fascismo qui sul confine orientale ha avuto dei torti nei confronti degli sloveni, ma prima di tutto ha ereditato una situazione di
conflitto fra le due nazionalità di gran lunga preesistente, risalente all’ottocento o anche prima, e poi, se gli italiani in camicia nera hanno avuto dei torti, quello che ci è stato reso è stato il diecimila per cento, o anche oltre. Qualsiasi popolo che non fosse infettato di masochismo antinazionale di matrice marxista come purtroppo è l’Italia postbellica e attuale, l’avrebbe smessa da un pezzo con lo strabismo masochista e autoflagellatorio dei blateramenti antifascisti.
Trieste si è trovata in una situazione particolare: per un mese e mezzo ha subito l’orrore dell’occupazione titina e della “pulizia etnica” di cui ancora oggi la foiba di Basovizza è la tragica e tangibile testimonianza, poi, non si sa per quale strano miracolo, gli angloamericani hanno allontanato gli occupanti titini dalla città, che altrimenti sarebbe oggi solo un pezzo di Slovenia, ma essa non è stata restituita all’Italia. Per nove anni essa è vissuta nella totale incertezza del suo destino, in bilico fra il ritorno dell’Italia, la definitiva annessione jugoslava, un subito abortito “territorio libero”, l’occupazione militare angloamericana.
Essere patrioti italiani, anti-slavi e ovviamente anticomunisti, per gli italiani di Trieste non era una scelta ma una semplice questione di sopravvivenza.
La cosa peggiore, la cosa che a posteriori ferisce di più, però non è tanto questa, quanto piuttosto l’operato dei “compagni” italiani, di coloro che vivendo ben lontani da questo scomodo confine potevano permettersi il lusso di essere appunto “compagni”, l’omertà tombale con cui questo delitto è stato avvolto e nascosto per almeno sei decenni (assieme, va detto, agli eccidi di civili innocenti e di avversari disarmati dopo la resa, agli stupri, alle torture che costituiscono il volto nascosto della “resistenza” anche nostrana), atrocità che si cerca ancora oggi di nascondere negando i fatti.
Contrariamente a quanto affermano oggi i “compagni” diventati con una bizzarra metamorfosi il più solido sgabello del grande capitale usuraio internazionale, contrariamente a quanto dichiarò Walter Veltroni durante la campagna elettorale del 2008 (“la lotta di classe non esiste!”), i conflitti di classe esistono, ma hanno un ruolo marginale e accessorio rispetto a quelli di nazionalità, di sangue, di “ghenos”. Quando qualcuno s’inventa un’utopia internazionalista, nove volte su dieci il suo scopo reale è di subornare qualcuno di altra nazionalità a vantaggio della propria. Questo è stato certo il caso dell’internazionalismo comunista in Europa, che è stato la maschera del nazionalismo slavo (russo, jugoslavo, eccetera) nella sua guerra contro il mondo latino e germanico.
Anche solo ricordare le vittime delle foibe e la tragedia dell’esodo e, a maggior ragione opporsi alle arroganti pretese della minoranza slovena significava essere un “fascista”. Nei lineamenti dei “compagni” non ho mai scorto, non ho mai potuto scorgere altro che il volto del nemico.
Forse è bene che vi accenni qualcosa della storia della mia famiglia e della mia storia personale. Mio padre fu uno di quelli che per i nove anni del governo militare alleato erano sempre a manifestare in difesa dell’italianità di Trieste, e questo significava rischiare la pelle quasi quotidianamente negli scontri con gli slavo-comunisti  e la polizia militare alleata (che almeno in un’occasione, nel novembre 1953 sparò ad altezza d’uomo, facendo quattro morti, fra cui un ragazzino, Pierino Addobbati) Un mio zio, fratello di mio padre, era carabiniere e scampò per un pelo alle foibe, ma sua moglie, che era la sorella di mia madre (erano due fratelli che avevano sposato due sorelle) fu costretta tanto a subire minacce, perquisizioni, persecuzioni, terrore, che ne ebbe la mente sconvolta. Un’altra sorella di mia madre morì per i postumi delle lesioni riportate durante un bombardamento angloamericano. Con questa storia familiare, non ho mai nutrito un amore sviscerato né per gli uni, i “compagni”, né per gli altri, i “liberatori” a stelle e strisce.
Io devo ammettere di essere stato ABBASTANZA fortunato, ho attraversato il periodo “caldo” degli anni ’70 portandomi dietro “solo” un carico pendenti che mi ha gravato sul capo per vent’anni. Per che cosa? A dirlo fa quasi ridere, per partecipazione a una manifestazione non autorizzata!
Finita questa storia (che mi è comunque costata la perdita di un posto di lavoro), ne è cominciata un’altra più grave. Eravamo ai tempi della dissoluzione dello stato jugoslavo, quando da noi esplose un fulmine a ciel sereno: in base ad accordi fra il governo italiano e quello jugoslavo che sarebbero dovuti rimanere segreti, l’esercito jugoslavo avrebbe dovuto ritirarsi dalla Slovenia passando per Trieste per imbarcarsi. Caso strano (che non aveva precedenti e non si è più ripetuto) in quel momento al Quirinale sedeva un uomo perbene, Francesco Cossiga, che rivelò pubblicamente quel che si stava macchinando alle spalle di una città dove il ricordo di quel che aveva significato la presenza jugoslava da fine aprile a giugno 1945, era ancora vivo.
La cosa provocò a Trieste il trambusto che è facile immaginare. Io a quel tempo lavoravo in un liceo scientifico il cui preside era non solo “rosso come il fuoco” come avrebbe detto la mia povera mamma, ma un pazzo squilibrato dagli istinti tirannici non diversi da quelli di un despota orientale. Quel giorno, arrivando a scuola, trovai i ragazzi in evidente stato di agitazione: avevano chiesto un’assemblea al “compagno preside”, in assoluto la persona più odiosa che abbia mai conosciuto in vita mia, e ovviamente, Stalin Secondo che era pronto a concederle per qualsiasi cavolata purché di sinistra, gliel’aveva “democraticamente” rifiutata.
“Bene”, dissi ai miei allievi, “Facciamo l’assemblea in classe”.
Bastò, la cosa arrivò all’orecchio del Dittatore Scolastico, e da quel momento non ebbi più pace: anni di boicottaggio, di “mobbing” durante i quali me ne piovvero di contestazioni d’addebito, e in cui il “compagno preside” cercò di aizzare colleghi, genitori e studenti contro di me, fino a quando non ne potei più e “mi rifugiai” in un istituto tecnico accettando una cattedra di minor prestigio ma ponendo fine a una situazione che era diventata insostenibile. Tutto questo può parere poco, ma vi assicuro che la prospettiva di perdere il lavoro quando si ha famiglia e due figli piccoli, non è certo una di quelle che si possano contemplare con serenità.
Io non voglio atteggiarmi a vittima, so benissimo che ci sono molti camerati che per aver osato manifestare le loro idee si sono trovati in situazioni ben peggiori, hanno subito la galera vittime di processi montatura, patito ogni sorta di ostracismo e di emarginazione sociale: hanno il mio pieno rispetto e la mia piena solidarietà e non voglio certo paragonarmi a loro, ma diciamo quanto meno che la mia esperienza mi ha insegnato una cosa, il REALE significato della parola “democrazia”, cioè tappare la bocca a chi la pensa diversamente.
Non mi si chieda di non essere un fascista o quello che i “buoni democratici” nella loro innata e ipocrita bigotteria considerano “un fascista”, sarebbe come chiedermi di cessare di esistere.   
   

6 Comments

  • nota1488 30 Aprile 2013

    Non ci venga chiesto di non essere bianchi, perché in piena era mondialista, un bambino bianco nasce schierato che gli piaccia o no: schierato nella sua nobile comunitá di sangue.
    L’Italia per non vergognarsi piú deve ritrovare la sua identitá romana pre-imperiale (e quindi pre-cristiana), celto-mediterranea e rimuovere gli elementi semitici arrivati con la sporcizia spirituale del Levante (sono facilmente riconoscibili, occorre solo una sana educazione storico-razziale).

  • nota1488 30 Aprile 2013

    Non ci venga chiesto di non essere bianchi, perché in piena era mondialista, un bambino bianco nasce schierato che gli piaccia o no: schierato nella sua nobile comunitá di sangue.
    L’Italia per non vergognarsi piú deve ritrovare la sua identitá romana pre-imperiale (e quindi pre-cristiana), celto-mediterranea e rimuovere gli elementi semitici arrivati con la sporcizia spirituale del Levante (sono facilmente riconoscibili, occorre solo una sana educazione storico-razziale).

  • Hns 1 Maggio 2013

    Questo commento è stato eliminato dall’autore.

  • Hns 1 Maggio 2013

    Questo commento è stato eliminato dall’autore.

  • Anonymous 1 Maggio 2013

    Manca la citazione di cacciari e la parola “abramitico” però eh !

    P.s.
    lo scrivo con l’anonimo,così lo staff decide se pubblicare o meno!

  • Anonymous 1 Maggio 2013

    Manca la citazione di cacciari e la parola “abramitico” però eh !

    P.s.
    lo scrivo con l’anonimo,così lo staff decide se pubblicare o meno!

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