Vivendo nella più totale ipocrisia il mondo occidentale si riempie quotidianamente la bocca di parole quali «diversità», «discriminazione», «uguaglianza», ben sapendo che nel mondo attuale soltanto 26 individui possiedono la ricchezza di 3,8 miliardi di persone. Per una questione di apparente giustizia sociale ci figureremmo tutti uguali come gli ometti del Lego, ma a parte la necessità di nutrirsi e la sessualità, che sono doti comuni all’intero genere umano, ogni individuo è particolare, singolare, unico, caratteristico, e forse persino irripetibile.
Un punto, questo, sul quale l’uomo tradizionale non aveva dubbi. Anche i pitagorici pensavano che la sola uguaglianza possibile fosse quella che generava amicizia e rendeva le persone partecipi di qualcosa che era identico, essenziale, intangibile. Mentre Platone scrisse nelle Leggi che la Natura non prevedeva uguaglianze, se dunque l’uomo voleva introdurre in essa dei livellamenti si rendeva necessario ricorrere alla distorsione.
Sempre secondo l’Ateniese non era un atto dovuto neppure la pietà «a chi soffre la fame o qualcos’altro del genere», non per crudeltà ma perché tale sentimento andava riservato esclusivamente alle rare vittime di sventura che pur «praticando la temperanza, o qualche virtù, o una parte di qualche virtù» erano cadute in disgrazia. In altre parole: se sei vittima di te stesso arrangiati, affari tuoi, se invece la sfortuna ti ha colpito a tradimento riceverai un aiuto.
Il cristianesimo rimuoverà l’antico concetto di pietà selettiva e mai gratuita per introdurre quello di assistenzialismo indiscriminato. Chiedi e ti sarà dato, a prescindere dai tuoi meriti o demeriti. Una visione ultimamente poco condivisa che nei prossimi anni, a giudicare dal precario stato di salute dell’Europa cristiana, potrebbe avere dei seri problemi di sopravvivenza. Chissà che non si torni «all’antico», dunque, cioè al pensiero che non ci sono «uguali» nel genere umano perché il livello di sviluppo individuale costituisce la meta di un percorso che va conquistato al prezzo di dolorose rinunce e grandi fatiche.
Una concezione vecchia di migliaia di anni sulla quale non ci sarebbe nemmeno bisogno di discutere, se non fosse che nell’Era del Desiderio è dura comprendere che niente è dovuto perché chiunque deve mettersi in gioco in uno sforzo costante di creazione e di competenza tecnica che dipende sia dall’esperienza personale, sia dalla rassicurante continuità di rituali e sia da tradizioni comuni che reclamano ad ogni istante le proprie radici.
Egualitario e unanime
L’ideologia dell’identico è relativamente giovane, essendo nata in seno alla teologia cristiana secondo cui tutti gli uomini sono uguali davanti a dio, al di là delle loro caratteristiche individuali, al di là del contesto particolare della loro esistenza individuale, al di là di tutto. Si vorrebbe educare l’intera umanità sottomettendo tutte le culture agli stessi valori fondamentali, che non sono niente altro che i valori specifici di una cultura particolare, ma questo è impossibile.
In ordine di tempo l’identico è il precursore ideologico del pensiero unico e della «cultura della cancellazione», che in nome di un’utopistica umanità planetaria vorrebbero piallare ogni differenza, ossia eliminare tutto ciò che si frappone tra l’individuo e la sua comunità fatta di tradizioni, storie comuni, culture popolari, usanze vive, stili di vita, modi di pensare e scelte condivise.
L’economia del profitto ha sempre sognato una società «egualitaria», e alla fine l’ha realizzata. Il motivo di tale desiderio è presto detto: l’uomo «uguale» è statico, rassegnato, docile, sottomesso, all’opposto dell’uomo «unanime» che è imprevedibile perché le sue azioni si confrontano con il gruppo umano di appartenenza prima di rispondere alla legge del capo. Com’è sempre stato, del resto, dato che ogni persona porta con sé un codice genetico che rappresenta un unicum e fin dalla nascita si trova esposta alle più disparate influenze ambientali, che inducono a loro volta a qualità ineguali, le quali portano con sé diverse opportunità di sopravvivenza.
Difficilmente il mantra «creati uguali» innesca un progresso, mentre il principio «evoluti differentemente» appare più realistico e promettente. E il motivo per cui ne stiamo parlando deriva dall’osservazione di un Occidente ansimante e di un Oriente rampante, quando invece l’Eurasia avrebbe potuto (e dovuto) crescere «insieme» in un’ottica di mutuo soccorso e nel rispetto delle reciproche diversità culturali e territoriali.
Ora comunque non si tratta di constatare quanto abbiamo perso, anche perché non servirebbe, ma di vedere cosa può essere recuperato. Oppure aggiustato, a cominciare dal superamento di pregiudizi quali «noi (occidentali) siamo liberi mentre loro (gli orientali) vivono sotto regimi autoritari.
Ammesso che ambedue le cose siano vere, abbiamo l’impressione che serva una uguaglianza nominale da spendersi all’interno di una gabbia neanche più dorata ma, quando va bene, placcata? Risponde ai «principi democratici» tessere leggi che colpiscano il dissenso anziché incarcerare il singolo dissidente? La censura imposta dai «buoni» è più giusta di quella prescritta dai «cattivi»? Siamo sicuri di essere capitati nel migliore tra tutti i mondi possibili?
Tracciando nella Storia recente una linea spessa e ben visibile, il Covid ha dimostrato che esistono modi alternativi di vivere la vita. Si possono trascorrere ore serene anche senza i fine settimana stracolmi di festival e di giubilei dove tutti vestono abiti cuciti in serie, bevono gli stessi aperitivi, mangiano gli stessi panini, comprano gli stessi libri e una volta a casa guardano gli stessi film alla televisione.
Il visionario Tocqueville aveva previsto le mascherate che attraversando Festival Verdi e Gay Pride, Notti Bianche per bambini insonni e Love Parade per sballati cronici, avrebbero ostentato la finta immagine di un mondo arcobaleno dove la vita era «ugualmente» divertente per tutti. Ma nessuno gli ha dato retta. Così i regimi democratici hanno avuto tutto il tempo di incoraggiare e sponsorizzare gli svaghi dell’Homo Festivus, un essere pacatamente sovversivo che non turbava i sonni del potere, accontentandosi di cantare per qualche ora NO all’odio e SI ai sogni, prima di rientrare nei ranghi.
Provvisorietà del potere
Seguendo la strada tracciata dalla cultura tradizionale, l’Oriente ha sempre ignorato gli ibridi liquidi metasessuali, plurali, transreligiosi, permissivi e depressi, che crescevano e si moltiplicavano in Occidente. Una società fondata sulla supremazia etica dello Stato-Comunità non sa cosa farsene di un livellamento egualitario fatto di mediocrità e disimpegno. L’omologazione finalizzata alla castrazione delle energie personali non è funzionale al gruppo, né serve al sistema statale.
Proprio qui risiedono le nostre reciproche incomprensioni. La mentalità europea (mossa dal desiderio) non riesce a capire le dinamiche di quella cinese (spinta dal destino), ma capisce poco anche di quella indiana, e di quella russo-ortodossa. Nell’Europa egualitaria i partiti nascono e muoiono con estrema facilità, contando poco o nulla, mentre in Cina, ad esempio, il vigente concetto di leadership è ancora saldamente ancorato a quello della dinastia Zhou, che attorno al 1050 a.C. si affermò sul paese in virtù del «mandato celeste».
Nessuna parentela con il diritto divino di un monarca, visto che nel caso cinese l’incarico può essere revocato in qualsiasi momento. Se il nominato si comporta male, se è incapace di mantenere un buon sistema politico oppure opprime il popolo, sarà il cielo stesso a dargli il benservito, offrendo poi il mandato a qualcun altro.
La «grazia divina» non è scontata, insomma. Una regola che in Occidente sarebbe bello poter applicare alla mezza dozzina di «famiglie» che spadroneggia nel mondo da oltre un paio di secoli. Ma fatto salvo il ceppo, nel senso che stiamo parlando di due interpretazioni della medesima indicazione originaria, un ramo si è sviluppato in orizzontale e l’altro in verticale.
Nella norma che proclama il figlio del cielo cinese la religione non c’entra, trattandosi di una questione privata tra l’imperatore e i piani alti dove abitano gli dèi. Mentre l’autorità dei re cristiani europei, divenuti capi di Stato con l’istituzione delle repubbliche, poggia sulla base di una religione delle masse, cioè sulla visione giudaico-cristiana che promuove l’unione di tutti i fedeli a livello superiore (con dio) inducendo gli uni a competere con gli altri per accaparrarsi una grazia divina che ogni individuo interpreta a modo suo.
Non è un caso che nei Paesi cattolici sud-europei ci si rechi «alle urne» nel giorno della santa messa e ci siano sacerdoti (i politici) che affermano di parlare in nome della Verità divina. Una visione intrinsecamente pericolosa, foriera di conflitti interreligiosi, o di duelli ideologici combattuti all’ultimo sangue.
Provare affetto per il proprio destino
Se il mondo europeo è pieno d’intermediari, quello cinese ne è quasi sprovvisto, essendo compito del cielo manifestare la propria contrarietà attraverso «presagi», che poi vengono interpretati, oppure direttamente tramite lo scontento e la ribellione popolare. Neppure l’indottrinamento comunista è riuscito a scalzare l’antica idea basata sulla massima “spiacente, ma dio mi ha detto che hai torto”, un principio di flessibilità che l’Occidente non ha mai capito fino in fondo, motivo per cui guarda «all’est» come alla culla dell’autoritarismo.
I successori di Mao, ad esempio, presero atto di alcuni errori del suo governo (la carestia causata dal Grande Balzo, la violenza fagocitata da una caotica rivoluzione culturale, eccetera) e cambiarono radicalmente direzione. Oggi la Cina è un soggetto completamente diverso da quello che abbiamo conosciuto nel XX secolo, migliore o peggiore lo stabiliranno i posteri, mentre noi siamo rimasti «religiosamente» fermi al nostro posto.
Chi dei due stia meglio, o peggio, è difficile stabilirlo. Ad ogni modo il turismo cinese è attualmente uno dei più diffusi al mondo e tra i viaggiatori all’estero non si registrano fughe di massa, come accadeva invece ai tempi del maoismo, ma, anzi, i vacanzieri sembrano ben contenti di tornare a casa carichi di graziosi souvenir. È vero, le elezioni in quel paese sono considerate un esercizio inutile e il cinese medio non pensa di farsi valere attraverso il voto. Ed è altrettanto vero che la società considera irrilevante il dissenso individuale, riservandosi però la facoltà di usare l’arma del dissenso collettivo in caso di bisogno.
Impossibile ignorare inoltre la scarsa considerazione in cui i cugini dell’est tengono i «diritti civili», che tuttavia si configurano come diritti privati vantaggiosi solo per una parte ristretta del gruppo sociale, ma come non riconoscere l’importanza data ai «diritti sociali». Quelli che noi abbiamo venduto per un piatto di lenticchie.
Sotto sotto, non piacerebbe anche a noi uscire dal turbine dei desideri soggettivi per rientrare nelle acque calme delle necessità collettive? Non nutriamo tutti, in fondo, il desiderio di dare un calcio al superfluo per tornare a condurre una vita più umana? Sarebbe una gioia impagabile poter dire ai nostri governanti pasticcioni “spiacente, dio ti ha dato torto, il mandato è revocato”.
Andare avanti a brindare una volta a sinistra e l’altra a destra non è più soddisfacente, difatti il partito degli astenuti è il più numeroso d’Occidente. Si è ormai ampiamente capito che nessun programma elettorale potrà trasformare l’individuo da homini lupus a homini deus. Per attivare un processo del genere ci vuole una vasta condivisione dei principi e dei valori, un’unità di scopo che miri a un fine vantaggioso per tutti.
Il tramonto dell’homo liberalis
In apparenza il mondo in cui viviamo è un mosaico di tessere distinte, ma a ben guardare il quadro è straordinariamente uniforme, monotono, grigio, incolore. In Europa non c’è più alcun Stato veramente libero, nessuna nazione può attuare politiche economiche indipendenti, né gestire i propri affari interni come ritiene opportuno.
Gli Stati europei sono sempre più esposti alle trame dei mercati globali e all’interferenza delle multinazionali, succubi delle scelte politiche dell’azionista di maggioranza (l’America), sottoposte al regime ideologico delle ONG, assoggettate alle regole dettate dagli istituti internazionali di controllo. Flussi enormi di capitale, di forza-lavoro (schiavi) e di informazione pilotata modellano il mondo occidentale con una crescente noncuranza nei confronti dei confini, delle tradizioni e delle opinioni delle comunità, mentre la politica gira come l’ultima ruota del carro.
In cima a questo impero globale non c’è un «celeste imperatore» bensì un comitato d’affari temporaneamente unito da interessi comuni. Non vedo chi possa dirsene contento, a parte i pochissimi privilegiati inclusi nel cerchio magico. Né servirà, alla lunga, l’azione ribellista di chi si chiama fuori dal gioco all’insegna del “che mi frega, in fondo, io il mio posticino al sole ce l’ho“.
Resta un mistero come la grande Europa abbia potuto ridursi in questo stato partendo da una brillante idea di «bene comune», da intendersi come il raggiungimento di finalità capaci di mettere chiunque, il ricco come il povero, nella piena condizione di realizzarsi, di trovare il proprio posto nella società, di comprendere il proprio Destino.
Ma è qui che adesso ci troviamo. Siamo l’anello superfluo, anziché mancante, di tutto il discorso evoluzionistico. Superata tuttavia l’umiliazione dovuta al fallimento dell’homo liberalis, incapace di collaborare con i suoi simili per il raggiungimento di procedure morali collettive atte a migliorare la società, rialziamoci e andiamo avanti.
Fortunatamente il concetto «crescere insieme» non è morto, perché la Tradizione è l’eterno. Lo si ritrova impresso nella dottrina dell’anātman, o anattā, orientata verso il raggiungimento di un livello di empatia con ogni essere vivente del passato, del presente e del futuro. Figlio della cultura indo-europea, cioè anche nostro, il principio è stato oggi ripreso dalla fisica quantistica, quindi non stiamo parlando di esotiche frivolezze da salotto.
Solo l’unione sacra tra gli individui vivi, morti e non ancora nati, e non l’individuo in quanto tale, può portare al progresso. Conta la relazione, non gli elementi collegati. Interessa l’intreccio, non i nodi. Basterebbe ammettere questa semplice realtà per avvicinare il pensiero orientale a quello occidentale.
I «prestiti» che oggi noi europei dovremmo chiedere ai paperoni cinesi non sono in valuta bensì in principi fondamentali e in tradizioni comuni, e non si può certo dire che non abbiamo niente da offrire in cambio. Dopotutto ognuno di noi è parte di una narrazione molto più grande, membro di una comunità che permane grazie a una diffusa comunione d’intenti. Soltanto le pratiche condivise riaffermano il senso di identità e rafforzano la coesione, ed è proprio per questo che a partire dall’Era Glaciale (sul prima non ci sono notizie) i popoli eurasiatici hanno investito in esse risorse enormi.
Sappiamo per esperienza che il senso d’identità spinto all’eccesso può portare a pericolosi antagonismi, ma una convergenza di scopi tra popoli coesi che seguono il proprio destino permette a una rete di società strutturate di affrontare anche le peggiori sciagure. L’ultimo esempio è proprio sotto i nostri occhi: forte della cultura «collettivista» ereditata dalla tradizione eurasiatica (che appartiene a tutti noi) la Cina ha affrontato con determinazione e compattezza la prima emergenza pandemica del XXI secolo, abbandonando l’Europa sulla giostra degli interessi individuali, di bottega e di corporazione, un carosello nel quale continueremo a girare per chissà quanti anni.
Rita Remagnino
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