Uno yankee del Maryland alla corte del Re di Sparta
Alla fine del XX secolo il poliedrico artista Frank Miller presentò per i tipi della casa editrice Dark Horse la sua interpretazione fumettistica dello svolgersi e del senso della Battaglia delle Termopili, dandole un titolo secco e immediato, in cifre: 300. Si trattava di una “miniserie” in cinque albi mensili, scritta, sceneggiata e disegnata da Miller come “autore completo” (solo i colori non erano infatti suoi, portando la firma di Lynn Varley), all’interno dei quali ogni tavola (per ottimizzare la numerose scene panoramiche e “corali”) era stampata su due pagine. Il volume cartonato che raccolse pochi mesi dopo l’intera storia – tagliato con un singolare “andamento orizzontale” (quasi fosse una specie di raccolta di sunday pages americane) – ebbe il suo battesimo italiano nel novembre 1999, con il marchio della romana Play Press; nella primavera del 2014 la neonata Mondadori Comics (etichetta inaugurata con la serie di ristampe maxbunkeriane Kriminal Omnibus nel novembre 2013) ne ha licenziata una nuova versione.
Il punto centrale dell’azione è ben noto: nell’agosto o nel settembre del 480 prima dell’Era Volgare un’avanguardia di trecento opliti di Sparta guidati dal re guerriero Leonida difese eroicamente, fino all’estremo e totale sacrificio personale, lo stretto passaggio delle Termopili, rallentando così i Persiani di Serse (che contarono 20.000 vittime) e contrastando il loro agevole dilagare verso la Hellas centrale. L’eroismo stava nell’azione. Stava anche nella disparità numerica. Secondo le diverse fonti, antiche e moderne, 5.000/7.000 Greci si opposero infatti a un numero enormemente più alto di Persiani (da un minimo di 150.000 in alcuni recenti azzardi ai milioni di Erodoto). Nella costruzione del fumetto questa vicenda-cardine della humana historia è narrata – un anno dopo ai soldati riuniti intorno al falò di un accampamento – da Dilios, l’unico Spartano sopravvissuto alle Termopili, la notte antecedente alla riscossa di Platea.
Giunti fin qui è doveroso un passo indietro o, come direbbero i cineasti hollywoodiani (e anche gli sceneggiatori di fumetti, che con il cinema condividono gran parte dell’argot!), un flashback.
Negli anni ’80 il comic avventuroso supereroistico a stelle-e-strisce (tradizionalmente pubblicato in giornaletti mensili spillati a colori), dopo mezzo secolo di vita, sfinito Moloch, iniziava a non sopportare più la sua annosa stanchezza – dovuta all’esaurirsi degli spunti narrativi, alla scarsità qualitativa delle sceneggiature e della parte grafica e all’ormai incredibile assurdità e complessità inestricabile degli universi immaginari in cui si muovevano quegli eroi di carta (paradigma di questa situazione erano le infinite terre parallele che complicavano senza via d’uscita il cosmo dell’Uomo d’Acciaio). In quel decennio soprattutto tre nomi – le cui firme troviamo sia in ambito Marvel (L’Uomo Ragno, I Fantastici Quattro, etc.), sia in campo DC (Superman, Batman, etc.), sia sotto etichette “indipendenti” (come appunto Dark Horse) – saltarono agli occhi come innovatori. Il “nostro” Frank Miller (statunitense, seppur dell’europeo New England, classe 1957) e i due inglesi Alan Moore (nato nel 1953, genio multimediale, è noto universalmente per V for Vendetta) e Neil Gaiman (nato nel 1960, fu celebrato soprattutto per Sandman, estrema rivisitazione di un classico personaggio del fumetto USA, compiuta ispirandosi alla figura mitologica di Morfeo). Miller, in particolare, rivoluzionò il mondo di Batman, dando all’Uomo Pipistrello una nuova origine più oscura, tratteggiando un fumetto più vicino – come stilemi narrativi e disegno – al noir europeo. Per innovare, questi grandi autori, furono costretti dunque a tornare alle origini e – per così dire – si rifugiarono, non solo fisicamente ma pure idealmente, nel Vecchio Continente.
Le Termopili 2.0
Su 300 si sono versati i proverbiali fiumi di inchiostro, sia in prima battuta (a partire dalla prima edizione in fascicoli del 1998), sia nel 2007 quando uscì il film (omonimo) che ne fu tratto – e che ovviamente rilanciò il fumetto.
Da un punto di vista stilistico il grande Miller c’è tutto, in questa gustosa volgarizzazione delle Termopili: le masse scure contrapposte con violenza ai fondali più chiari; l’uso spregiudicato della silhouette, spezzata però da “intarsi” bianchi; la parziale abolizione del contorno delle figure – una delle tante convenzioni del fumettismo, dopotutto, come sostenevano i Maestri della Linea Chiara franco-belga, Hergé, Jacobs e gli altri; la rinuncia quasi totale ad alcuni dei capisaldi grafici stessi del codice-fumetto (le linee di velocità, per esempio); la gabbia della tavola che esplode e si ricompone in una miriade di vignette, nella più totale asimmetria; la deformazione – voluta e funzionale alla narrazione – dei volti e del corpo umano (con originalissimi movimenti e pose); le inquadrature che schizzano in un attimo dal particolare al campo lungo… Beh, potremmo star qui a discuterne in eterno! L’unica cosa che non ci ha mai convinto del tutto per quanto riguarda l’aspetto disegnato di 300 è il colore (dato che Miller offre il meglio della sua arte con il bianco-e-nero, secondo noi), anche se, dobbiamo onestamente dire, la Varley ha fatto un lavoro più che dignitoso, optando per una limitatissima “tavolozza” cromatica, riavvicinandosi così, paradossalmente, all’usuale mondo monocromatico milleriano.
In questa sede interessa però a noi maggiormente saggiare (o almeno modestamente tentare di farlo) l’attendibilità storico-filosofico-letteraria dei passi salienti dell’opera di Frank Miller, mettendo però in chiaro alcuni punti iniziali. Qualcuno potrebbe pure dire: piantando dei paletti. 300 è un fumetto, e non un saggio o un manuale (di storia/letteratura/filosofia/mitologia). Non è nemmeno un pamphlet, né un testo di “misticismo”. Non ha intenti pedagogici. Rimane – e c’è poco da girarci intorno – un prodotto realizzato per la riproduzione in serie, pensato per ricavare profitto sul mercato del diporto e dell’intrattenimento adulto. Anche se, nella nostra opinione, intrattenimento di qualità e di alto livello. Più artigianato che arte. Detto questo, è davvero interessante andare a vedere cosa rimane in 300 delle antiche cronache sulle Porte Calde e di quello che è considerato lo svolgimento storico dello scontro. E cosa rimane nel fumetto del mito – di Leonida, discendente di Eracle, e della sua impresa. Frank Miller pare rifarsi direttamente e massicciamente alla lezione erodotea – o quanto meno agli storici e ai romanzieri che a quella fonte, nei secoli, hanno attinto. Il fumettista accende il riflettore sui momenti della vicenda che più lo hanno impressionato. Certamente i momenti più “vivaci”, più “adatti” per l’avventura fumettistica.
Cahiers de doleancés delle incongruenze, delle inesattezze, delle omissioni e degli anacronismi e – all’opposto – delle attinenze storiche (incongruenze e attinenze che continuamente si intersecano) nel fumetto ne sono stati riempiti a decine – e si trovano facilmente in Rete. Si va dalle armi usate dai combattenti alle corazze indossate dai due eserciti; dai personaggi dimenticati a quelli che cambiano di nome; dai ruoli esagerati ai ruoli ridimensionati; dalla confusione di oracoli e vaticini. È però, più che il fumetto cartaceo, soprattutto il film di Zack Snyder a vincere il palmarès delle “licenze poetiche” – ma la cellulosa che aveva fatto da canovaccio alla celluloide aveva già cantato in maniera diversa, e dunque è meglio non confondere i due mezzi di comunicazione.
Leonida o non Leonida? Questo è il problema…
Fra le differenze principali di 300 rispetto alle cronache le più ghiotte riguardano la figura di Leonida. Ma il Leonida dell’immaginario milleriano – tutto sommato – se la caverebbe piuttosto bene in un ipotetico match col suo omologo reale…
Da ragazzo, dopo il periodo di duro apprendistato a cui doveva sottoporsi ogni fanciullo spartano qualunque fosse la classe di appartenenza – la cosiddetta agoghé – Leonida ritorna a Sparta vivo, vegeto e vittorioso, imponendosi (non solo per sangue ma anche per merito), come re. Re unico, par di capire leggendo il fumetto, nonostante che a Sparta i re fossero in due a governare simultaneamente, in un ancestrale sistema di diarchia – due diversi re, seppur appartenenti a linee dinastiche di unica discendenza, riconducibili entrambe a Eracle: un monarca era esponente della Famiglia degli Agiadi (e Leonida apparteneva proprio a questo ceppo) e l’altro era della schiatta degli Euripontidi.
L’addestramento del giovane eroe, con il gelo opprimente che avvolge le lande e il lupo assassino, mostruoso e gigantesco (e ritorneremo più avanti sul tema del gigantismo, del nemico sproporzionato…), ucciso dopo averlo fatto cadere nella trappola di uno stretto passaggio – budello letale che prefigura quello delle Porte Calde – non pare invece discostarsi dalla tradizione. Ulderico Nisticò, nel suo agile e pregnante saggio Il ritorno degli Eraclidi (Edizioni Ar), parla di questo periodo fondamentale nella vita degli Spartiati: I fanciulli crescevano assieme per classi di età, soggetti ad una disciplina durissima, che aveva il fine di sviluppare le forze fisiche e creare l’allenamento necessario alla difficile arte dell’oplita, ma soprattutto di rendere naturale la disciplina stessa, in cui l’uomo spartano doveva vivere per tutta la vita. Dominio di se stessi era lo scopo ultimo, e per questo si insegnava a vincere il dolore e le passioni, e, se necessario,anche la più forte delle passioni di un essere umano, l’amore di se medesimo! Questo sentimento doveva essere alieno dagli Spartani, i quali dovevano saper morire, i fanciulli, lungi dai vezzi, imparavano a soffrire freddo, caldo e fame, e questa al punto che era consentito loro rubare, dacché il cibo che loro si dava era meno che sufficiente; se sorpresi, però, erano puniti; e questo sviluppava l’astuzia, una dote meno nobile, ma, in questo nostro mondo, non meno necessaria! e sviluppava anche la libertà. Infatti, se un popolo armato o un esercito hanno bisogno di disciplina, non di meno hanno bisogno di iniziativa. (…) Poiché ognuno di quei fanciulli poteva essere un comandante di reparti o di eserciti era necessario che sapesse anche prendere una decisione.
Lo spirito spartano, l’essenza stessa di Leonida, il periodo arduo della formazione del giovane, la soppressione dei malformati – sul quale Miller insiste anche più avanti, nelle pagine che narrano la vigilia del combattimento – viene approfondito dallo stesso Nisticò, in un’altra illuminante pagina del suo scritto: Il primo criterio eroico è che l’opera trascende l’uomo! Ogni uomo, ogni dio, ogni animale, nell’età eroica è giudicato non secondo quello che è in astratto, sui fondamenti di un concetto a priori, ma secondo quello che fa; dunque il valore di un uomo, se nasce in sé, finisce fuori di sé, nel fatto, ed è però oggettivo. Non è concepibile un valore potenziale che sia rispettabile prima di attuarsi. Per questo non il nascere in Sparta da famiglia di Spartiati, ma un modus operandi dà la condizione di Spartiata, se bene il sangue dorico puro sia stimata condizione indispensabile perché si possa ricercare lo stesso attuarsi dell’aretà, la virtù. Ma nessun diritto di nascita è stimato sufficiente, tanto meno quello del luogo, laddove manchi la virtù: questa è la ragione della dura selezione, che esponeva alla morte i nati che non mostrassero sanità di corpo. La parola aretà è derivata dalla radice ar-, comune ad àristos, ottimo o nobile, ad aroter, latino arator, il coltivatore di campi, al nome del dio che compie le più fiere azioni, quelle della guerra, Ares, ad aretèr, colui che compie le azioni religiose, ed al latino ara, l’altare, e ad ars, e al nome stesso degli indoeuropei in Oriente, gli Aria!
In altri punti della sceneggiatura di 300 la traccia dello storico di Alicarnasso addirittura viene ribaltata da Miller (impossibile dire se trattasi di decisione voluta o di errata lettura o interpretazione). In particolare, alla fine del I capitolo (L’onore), la vicenda dell’araldo persiano mandato a Sparta a chiedere “terra e acqua” – ovvero completa sottomissione – che viene gettato in fondo a un pozzo melmoso, perché lì avrebbe trovato quello che cercava; è la scena che termina con il celebre “pedatone” che Leonida affibbia al messo, urlando: Questa è Sparta! Miller non solo spettacolarizza, ma persino rovescia esattamente quando scritto al passo 133 del Libro VII di Erodoto, facendo fare a Serse quello che aveva fatto Dario. Infatti, scriveva l’antico cronista: Ad Atene e a Sparta Serse non inviò araldi a chiedere terra per le seguenti ragioni: quando in precedenza Dario aveva inviato identica richiesta, gli Ateniesi avevano gettato i messi nel baratro, gli Spartani in un pozzo, con l’invito a prendere da lì terra e acqua per portarla al re. Ecco perché Serse non mandò a essi dei messaggeri.
La stessa figura del soldato scampato alla mattanza delle Termopili – e per questo odiato, deriso e disonorato – Aristodemo di Sparta, viene riabilitata e trasfigurata nel personaggio di Dilios, la voce narrante di 300 e capo nei combattimenti di Platea del 479. Ma anche secondo Erodoto, seppur non fin dall’inizio, il riscatto ci fu: Due dei trecento, Eurito e Aristodemo, si racconta, potendo entrambi accordarsi e mettersi insieme in salvo a Sparta (Leonida li aveva allontanati dall’accampamento, e giacevano infermi ad Alpeni, con gravissimi disturbi agli occhi) oppure morire con gli altri, se non volevano tornare a casa, pur avendo queste due alternative, non vollero intendersi, anzi, in pieno disaccordo, Eurito, avendo saputo della manovra accerchiante dei Persiani, chiese le armi, le indossò e ordinò al suo ilota di condurlo fra i combattenti; quando ve lo ebbe condotto l’ilota fuggì, mentre Eurito si gettava nel folto dei nemici e moriva; Aristodemo, invece, non ebbe animo sufficiente e sopravvisse. Ebbene, se Aristodemo fosse stato infermo lui solo e fosse tornato a Sparta, oppure anche se fossero tornati tutti e due assieme, credo che gli Spartani non si sarebbero sdegnati con loro; invece, poiché uno di loro era morto e l’altro invece, che aveva un’identica giustificazione, s’era rifiutato di farlo, inevitabilmente su Aristodemo ricadde, e pesante, l’ira degli Spartani. Corre voce che Aristodemo si mise in salvo a Sparta così e con questa spiegazione; ma altri raccontano che era stato inviato come messaggero fuori dell’accampamento e poi, pur potendo raggiungere la battaglia in corso, non volle farlo, si attardò lungo il percorso e si salvò; mentre il suo compagno di missione riuscì a riunirsi ai combattenti e cadde sul campo. Tornato a Sparta, Aristodemo fu coperto di vergogna ed emarginato, emarginato come segue: nessuno Spartiata gli accendeva il fuoco o gli rivolgeva la parola; subì l’onta di sentirsi chiamare “Aristodemo il vigliacco”. Ma nella battaglia di Platea si riscattò da questa imputazione. Si narra che anche un altro di questi trecento, di nome Pantite, inviato messaggero in Tessaglia, poté salvarsi: costui, al suo ritorno a Sparta, vedendosi disonorato, si impiccò.
L’ammazzagiganti
La repellente mostruosità è incessantemente presente nel fumetto, e spesso è associata al gigantismo – sinonimo di “nemico”. Oltre al titanico lupo iniziale del battesimo di sangue di Leonida, gli Efori sono raffigurati dal disegnatore come sacerdoti eremiti, otto “porci innati”, putridi avanzi di un’era pre-licurghea, specie di lebbrosi che vivono solo di fumosi oracoli e di aurea corruzione. Nel fumetto vengono in maniera appropriata citate le Carnee, feste sacre spartane durante le quali era vietato muovere battaglia (che si svolgevano nel periodo, insieme ai Giochi Olimpici), ma viene esagerata l’opposizione degli Efori alla strategia di Leonida… Nisticò, nel già citato volume, spiega meglio: L’assemblea degli Spartiati, detta Apella, aveva il supremo potere giuridico, ma di fatto esso era riposto nel senato, la Gherusìa, adunata dei vecchi, i capifamiglia e magistrati. Il potere esecutivo, ma in verità solo il comando dell’esercito, toccava al re, che però era subordinato agli ephoroi, ispettori, una magistratura di cinque membri, iniziata da Licurgo con poteri limitati e divenuta in seguito il vero governo: infatti le accresciute necessità della politica, a cui la Città contro suo grado fu costretta, conducevano ad avere dei politici più esperti e una condotta più coerente di quella che davano le antiche assemblee. Così e contro lo spirito delle leggi nasceva anche a Sparta una classe di militari e politici di carriera.
Il tradimento del pastore di Trachis, Efialte (nome molto probabilmente affibbiatogli ex post dalla storiografia classica visto che significa “incubo”), che guidò il “corpo scelto” persiano degli Immortali lungo un sentiero secondario e alternativo che portava alle spalle dei Greci, segnò la fine gloriosa di Leonida e dei suoi uomini. Erodoto (che nacque proprio negli anni della Battaglia) narrò dettagliatamente la vicenda e gli antefatti che portarono alle armi nelle sue Storie, al libro VII: Proprio quando il re non sapeva più che fare in quel frangente, gli si presentò un abitante della Malide, Efialte figlio di Euridemo, certo convinto di ricevere da lui qualche grande ricompensa, e gli parlò del sentiero che portava alle Termopili attraverso i monti; e così segnò la fine dei Greci che là avevano resistito. In seguito, per paura degli Spartani, Efialte si rifugiò in Tessaglia; dopo la sua fuga, alla riunione degli Anfizioni a Pile, i Pilagori misero una taglia sulla sua testa e più tardi (era rientrato ad Anticira) morì per mano di un uomo di Trachis, Atenade. Atenade uccise Efialte per un’altra ragione, su cui mi soffermerò in un secondo tempo, ma non per questo fu meno onorato dagli Spartani. Così dunque morì Efialte tempo dopo questi avvenimenti. Circola anche un’altra versione dei fatti: sarebbero stati un uomo di Caristo, Orete figlio di Fanagore, e l’Anticirese Coridallo a parlare al re e a indicare ai Persiani la strada intorno al monte; ma io non ci credo affatto. Intanto bisogna considerare che i Pilagori dei Greci non misero una taglia su Orete e Coridallo, ma su Efialte di Trachis, verosimilmente dopo aver raccolto le più sicure informazioni. Inoltre sappiamo che Efialte si era dato alla fuga per questa imputazione; in effetti anche senza essere della Malide, Onete avrebbe potuto conoscere quel sentiero, se aveva frequentato spesso quella regione, ma fu Efialte a mostrare il sentiero attorno al monte; il colpevole è lui e lui io scrivo.
Il personaggio di Efialte è centralissimo nella storia di Frank Miller, ed è protagonista dell’intero terzo capitolo (La gloria). Non solo da pastore qual’era viene “promosso di grado” a guerriero spartano, ma il frustrato e invidioso traditore viene rappresentato con il corpo deforme e sovradimensionato. È questa una scelta dell’autore, che non ha alcun riscontro noto nella storiografia e nella leggenda. Una scelta non solo stilistica, casuale, di “effetto” – ma più profonda, secondo noi. Il lupo mastodontico, preda del giovane e futuro diarca; gli Efori, malati e torreggianti nel loro romitorio sulla sommità di un’altissima “meterora”; gli elefanti usati in combattimento dai Persiani – definiti “mostri di terre remote, bestie stupide e goffe”… E così anche il corpo scelto di fanteria pesante, rammentato da Erodoto, gli Immortali persiani, enormi, con le loro maschere mostruose. Serse, poi. Viscido e corruttore. Alto un metro abbondante sopra la testa del non nanerottolo comandante di Sparta. Un colosso disumano, dall’incerta sessualità e dall’ignota appartenenza razziale.
In 300 tutti gli antagonisti dell’eraclide Leonida “soffrono” di una stessa malattia – il gigantismo. Frank Miller, associando il Male all’aspetto ciclopico e brutale, contrappone continuamente – non sappiamo quanto in maniera conscia – l’eroica stirpe dorica, celeste e “iperborea”, di Eracle (capostipite degli Spartani) agli esseri infernali della stirpe ctonia dei giganti. Leonida in questo senso, in virtù della sua impresa contro il mostro sputato dalla terra, è un (semidivino) eroe eraclide; non delude Leonida il suo leggendario antenato, Eracle il semidio alleato degli Olimpici contro i giganti, come ebbe a scrivere Julius Evola nel 1934 in Rivolta contro il mondo moderno, dove si poteva anche leggere che nell’antico mondo ellenico nella lotta materiale spesso si concepì il riflesso di una lotta cosmica perenne, della lotta fra l’elemento olimpico-uranico spirituale del cosmos e quello titanico, demonico-femminile o di scatenata elementarità del caos. E ancora: Insieme a quello olimpico l’Ellade conobbe tipicamente il tema “eroico”. Parimenti staccati dalla natura mortale e umana, semidii partecipanti della stessa immortalità olimpica, sono, ellenicamente, gli “eroi”: e l’eroe dorico e acheo, quando non è il sangue stesso di una parentela divina, cioè una naturale sovrannaturalità, è l’azione a definirlo e a formarlo. La sua sostanza, come quella dei tipi che ne deriveranno in cicli più recenti, è interamente epica. Essa non conosce gli abbandoni della Luce del Sud, il riposo nel grembo generatore. È la Vittoria, Nike, a coronare l’Eracle dorico nella sede olimpica.
Un eroe con un piede sull’Olimpo, Leonida delle Termopili, un eroe degno del massimo rispetto, tanto che Miller, ancora una volta, si discosta da Erodoto, lasciando nelle ultime pagine la testa sul collo di Leonida trafitto da decine di frecce; mentre, come scriveva lo storico greco, Serse passò in mezzo ai cadaveri; al corpo di Leonida, avendo udito che era re e comandante degli Spartani, ordinò di tagliare la testa e di piantarla su un palo. Mi pare chiaro da molti altri elementi e da questo in particolare, che Serse si era infuriato contro Leonida, quando era vivo, più che contro chiunque altro; altrimenti nei confronti di questo cadavere non avrebbe travalicato le norme: sì perché tra tutte le popolazioni a me note sono proprio i Persiani a onorare di più i valorosi in guerra.
Infine l’autore cita persino l’Epigrafe di Simonide, l’epitaffio ancora oggi leggibile (nella riproduzione che ne fecero nel 1955) sul luogo dello scontro. Nella traduzione italiana della sceneggiatura suona così: Passante, dì agli Spartani – che qui giacciamo, per la legge di Sparta.
Una storia a fumetti (sottolineiamo e ribadiamo: a fumetti) di grande caratura, il 300 di Frank Miller. Speriamo di avervi stimolato a leggerla o a rileggerla – dimenticando senz’altro il film un po’ fracassone e del tutto inutile… Una storia dove l’autore non sale in cattedra, raccontando piuttosto a se stesso (e con soluzioni grafico-narrative forse anche troppo raffinate e dotte per il pubblico medio d’Oltreoceano), e a modo suo, una vicenda immortale fatta di gesta e di uomini immortali. Il lavoro milleriano ha avuto anche il non secondario merito – nonostante le inesattezze e le forzature presenti nel racconto grafico – di aver contribuito a resuscitare l’interesse intorno a un punto cruciale della storia antica. Questo, e sarebbe quasi inutile specificarlo, è stato vero soprattutto a livello popolare (un calco di quello che accadde decenni fa per il Medioevo, dopo Eco e il suo pastiche letterario Il nome della rosa), con tutta la sua coda di parodie più o meno geniali, più o meno squallide – ma se riflettiamo sul fatto che la media di libri letti a testa dai cittadini di un Paese come l’Italia è inferiore all’unità per anno… non possiamo lamentarci e fare più di tanto gli schizzinosi.
Francesco Manetti
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