Mario Draghi è tutto quello che occorre per cambiare nel breve il giudizio sull’Italia, perché i mercati ora vedono il binomio “Draghi-Italia” come una cosa possibile, sensata, credibile. E quindi ecco che, in un mercato ricco di liquidità, l’Italia ridiventa un posto appetibile per comprare un po’ di tutto.
Il primo a reagire è stato lo Spread BTP-Bund e subito dopo il mondo che Mario Draghi meglio rappresenta, ovvero le banche. Inoltre, se prima il Recovery Fund era un’incognita, oggi per il mercato sarà una pratica seguita da Super Mario e quindi verrà portata a termine con successo.
C’è fiducia e la credibilità del soggetto fa il resto. Perciò, a parte l’usuale sudditanza servile dei media mainstream e le consuete indecenti giravolte dei politici, anche tanti imprenditori, commercianti, lavoratori, un’ampia fetta di popolo, ripongono le loro speranze nel deus ex machina, nel risolutore carismatico dei mali del Paese.
Indubbiamente l’uomo è un professionista competente, che poi faccia gli interessi di chi… questo è un altro paio di maniche.
Si chiama Draghi al plurale e, infatti, c’è n’è più di uno.
C’è quello che ha elogiato la separazione fra Tesoro e Banca d’Italia operata da Ciampi e Andreatta, che ha gettato le basi sia della futura moneta unica europea, sia del fallimentare modello economico neoliberista in cui viviamo.
C’è quello che, DG del Tesoro, nel 1992 incontrò alti rappresentanti della comunità finanziaria internazionale sul panfilo Britannia della regina d’Inghilterra, dando inizio alla stagione delle privatizzazioni-svendita delle industrie italiane, in collaborazione con Prodi.
Fu Draghi, ancora nella veste di DG del Tesoro, che fece sottoscrivere allo Stato italiano una serie di derivati (finalizzati a mascherare la reale entità del debito pubblico italiano) – i cui dettagli non sono noti perché coperti dal segreto di Stato – che negli anni sono costati al nostro paese svariati miliardi.
Sempre Draghi scrisse la nuova normativa in materia di mercati e finanza, che portò all’abrogazione della legge fascista del ’36 che imponeva la divisione delle banche commerciali dalle banche d’affari, da una parte le banche dedicate al credito per famiglie e imprese, dall’altra le banche che giocano in borsa con i soldi degli investitori privati (Decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58).
C’è quello che operò ai vertici del ramo europeo della Goldman Sachs, quando questa speculava contro l’Italia e che vendette alla Grecia i 3000 miliardi di derivati che contribuirono al suo default.
C’è quello della lettera Trichet-Draghi (conosciuta anche come lettera della BCE all’Italia) cioè della corrispondenza riservata con cui, il 5 agosto 2011, i vertici entranti e uscenti della Banca Centrale Europea indirizzarono al Governo italiano una serie di richieste volte a condizionare il sostegno europeo all’Italia a drastiche misure di risanamento, cioè “una profonda revisione della pubblica amministrazione”, compresa “la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali”, “privatizzazioni su larga scala”, “la riduzione del costo dei dipendenti pubblici, se necessario attraverso la riduzione dei salari”, “la riforma del sistema di contrattazione collettiva nazionale”, “criteri più rigorosi per le pensioni di anzianità” e persino “riforme costituzionali che inaspriscano le regole fiscali”. Tutto ciò, si sosteneva, era necessario per “ripristinare la fiducia degli investitori”.
Evidentemente, però, Draghi deve aver ritenuto insufficienti gli sforzi del Governo italiano e pochi mesi dopo (come ammesso dallo stesso Mario Monti qualche tempo fa) decise di cessare gli acquisti dei titoli di Stato italiani da parte della BCE, per far schizzare in alto lo spread e costringere Berlusconi alle dimissioni, spianando così la strada all’ascesa del Governo “tecnico” di Monti. È difficile immaginare uno scenario più inquietante di quello di una Banca centrale, teoricamente indipendente e apolitica, che ricorre al ricatto monetario per estromettere dalla carica un Governo eletto e imporre la propria agenda politica. Tuttavia, questo è quanto ha fatto Draghi nel 2011 nei confronti dell’Italia;
Non contento, Draghi lanciò l’idea di un “patto fiscale”, cioè “una revisione fondamentale delle regole a cui le politiche di bilancio nazionali dovrebbero essere soggette in modo da risultare credibili”. Ciò comportò, nel marzo del 2012, l’adozione di una versione ancora più rigorosa del Patto di stabilità e crescita istituito dal trattato di Maastricht: il cosiddetto Fiscal Compact, che è un’invenzione di Draghi, per garantire che “Non c’è alternativa al consolidamento fiscale, il modello sociale europeo appartiene già al passato”.
Fu sempre Draghi a coniare il concetto di “pilota automatico” in riferimento alle politiche economiche dell’eurozona, grazie al nuovo regime di governance economica che egli stesso aveva contribuito a costruire, i risultati delle elezioni non avrebbero contato più nulla. Come avrebbe detto qualche anno più tardi il Ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble: “Le elezioni non cambiano nulla. Ci sono delle regole”.
È precisamente questo processo di spoliticizzazione delle politiche economiche che ha permesso a Draghi di pronunciare il suo famoso discorso che “ha salvato l’euro” nell’estate del 2012. In quell’occasione, Draghi annunciò l’istituzione del programma OMT (Outright Monetary Transactions), con il quale la BCE si impegnava, se necessario, a effettuare acquisti illimitati di titoli di Stato, l’ormai mitico “whatever it takes”, sui mercati obbligazionari secondari “per preservare l’euro”. L’annuncio di Draghi fu sufficiente a far scendere immediatamente i tassi di interesse nei paesi interessati dalla crisi, a conferma del fatto che gli interessi sui titoli di Stato sono determinati dalla politica monetaria della banca centrale, non dalla “fiducia dei mercati”, come lo stesso Draghi aveva ripetutamente affermato fino a quel momento.
Tuttavia, se da un lato questo ha aiutato i paesi in crisi (come l’Italia) a evitare l’insolvenza, ha fatto ben poco per sostenerli in termini di rilancio delle loro economie: questo avrebbe richiesto politiche di stimolo fiscale (cioè deficit più elevati), che era esattamente ciò che il nuovo quadro di governance fiscale inaugurato da Draghi proibiva.
L’accesso a un programma OMT, infatti, comporta l’adesione da parte del Paese in questione a un rigido programma di austerità fiscale e alle famigerate “condizionalità” della troika (liberalizzazione del mercato del lavoro, privatizzazione degli asset statali, compressione dei salari ecc.), all’interno della cornice del Meccanismo europeo di stabilità (MES).
In sostanza, proprio le varie innovazioni istituzionali introdotte da Mario Draghi nel corso degli anni, che gli sono valse così tanti elogi, non hanno trasformato la BCE in un prestatore di ultima istanza, su cui i governi nazionali possano fare affidamento sempre e comunque, ma le hanno conferito il potere di sfruttare le difficoltà economiche dei paesi per ricattarli, costringerli a cessioni di sovranità e a implementare politiche di matrice neoliberista.
Questo è diventato evidente nell’estate del 2015, quando, nel bel mezzo del negoziato tra le autorità greche e la troika, la BCE ha deliberatamente destabilizzato l’economia greca, interrompendo il supporto di liquidità alle banche, per costringere il Governo greco ad accettare le dure misure di austerità contenute nel suo memorandum, un fatto pressoché senza precedenti nella storia. Tutti questi episodi dimostrano che è soprattutto merito di Draghi se oggi l’eurozona è l’area economica al mondo in cui non è la banca centrale a essere dipendente dai governi, ma sono i governi a essere dipendenti dalla banca centrale.
Alla luce del suo “curriculum”, ci sarebbe da esprimere riserve alla prospettiva di un governo (tecnico?) guidato da Draghi. Invece, il fatto che oggi non ci sia in pratica nessun politico in Italia, esclusa Giorgia Meloni, che non invochi questa soluzione dà il senso della caratura della nostra classe politica.
E appare quantomeno stravagante che a salvare l’Italia sia designato, dal presidente della Repubblica, Mattarella, proprio chi a suo tempo l’ha condannata.
Certo, Draghi è una persona di grande spessore, una figura prestigiosa e autorevole.
Ma è sempre e solo un nemico di grande spessore, prestigioso e autorevole.
In questa prima fase non adotterà misure impopolari come fece Monti, anche perché la situazione è differente e bisogna arrivare al semestre bianco per eleggere un nuovo presidente europeista (lui stesso?) o replicare un Mattarella bis.
Il bello verrà dopo, a più lunga scadenza, dopo l’oscena convivenza tra centrodestra e PD, Leu e M5S.
Draghi adotterà la strategia da manuale del buon liberista: privatizzare i profitti in tempo di “pace”, con politiche di austerità a vantaggio del grande capitale ecc. e socializzare le perdite in tempo di “guerra”, con un’espansione della spesa pubblica – ovviamente a debito – per tenere a galla il grande capitale (istituti finanziari in primis). Passata la bufera del covid-19 si potrà poi tornare allegramente a privatizzare i profitti con ancora più veemenza di prima, adducendo proprio l’aumento del debito come scusa per implementare politiche di austerità ancora più severe.
Con alcuni provvedimenti, momentaneamente e apparentemente condivisibili, Draghi darà un po’ di ossigeno all’economia, per prosciugare il bacino del dissenso e depotenziare i sovranisti, così il progetto globalista avrà tempo per chiudere definitivamente la gabbia e scongiurare qualunque reazione popolare.
Per questo, parafrasando Brecht, possiamo affermare “beato quel popolo che non ha bisogno di Draghi”.
Enrico Marino