Esser boia pare professione poco onorevole. Eppure, scriveva Alfredo Panzini: «dopo il Re, il più onorato deve dirsi il boia, per ciò che poco gioverebbe al Re il suo comando, se non vi fosse chi l’eseguisse». Ma già il conte de Maistre affermava che “ogni grandezza, ogni potenza, ogni sudditanza, si fonda sul carnefice”. Quand’era prassi comune la tortura e il condannare a morte, la legge d’uno Stato sarebbe rimasta pura teoria senza il concorso di un individuo i cui atti e i cui sentimenti oltrepassano la misura umana.
L’applicazione della giustizia non poteva prescindere da quest’essere umanamente incomprensibile, capace di prendere “un parricida, un avvelenatore, un sacrilego”, spezzargli con lucida perizia le ossa a colpi di sbarra e arrotarlo, restando sordo ai suoi urli disperati. Forse, a opera compiuta, si compiaceva di sé pensando: “nessuno tortura meglio di me”. Intascato il guiderdone che qualche funzionario, non senza ripugnanza, gli allungava, tornava a casa, dove mangiava e dormiva senza traccia di rimorso o turbamento.
Il boia è un essere “enigmatico”, col quale nessuno vorrebbe intrattenere relazioni sociali, che sfugge al nostro metro di valutazione morale. Prodotto da “un decreto speciale, un fiat della potenza creatrice … egli è l’orrore e il cemento della società umana”. Togliete il boia e “l’ordine lascia il posto al caos, i troni si inabissano e la società scompare”. La nostra società, priva di boia ufficiali, dovrebbe dunque esser dissolta o precipitata nel caos già da molto tempo, e non escludo che questo sia successo a nostra insaputa.
Ma il boia coincide con una struttura archetipica della nostra civiltà e non può venir cancellato per legge. Di fatto, abrogata la pena di morte, è formalmente diventato inutile. Tuttavia, v’è qualcosa in noi che talvolta – per esempio di fronte a crimini efferati – si ribella alla clemenza delle pene e rimpiange il capestro o la ghigliottina. È come un istintivo desiderio d’uccidere. Chi allora segretamente non vagheggia il ritorno del boia?
E chi, vedendo politici e affaristi far scempio di Paesi interi, non ha mai sognato di consegnarli al carnefice? Non sono costoro mille volte peggio di quei briganti di strada che un tempo venivano squartati? In realtà sono anch’essi boia, macellai d’uomini. Strano paradosso, invocare un boia che ci liberi dai boia! Questa figura di giustiziere aleggia su di noi come un tenebroso ideale, una necessità fisica e spirituale, emissario di quell’istinto punitivo e feroce che dimora in noi (“ospitiamo in noi bestie selvagge” diceva S. Antonio abate).
Per lungo tempo abbiamo fornito giustificazioni teoriche, sociali, religiose ecc. a tale impulso o bisogno interiore. E se oggi le tesi a sostegno di un’umanizzazione delle pene appaiono più ragionevoli della tortura e della pena capitale, dobbiamo riconoscere che non sono ragioni conclusive. Solo, giustificano teoricamente un istinto opposto, di pietà, che esiste in ognuno. L’uomo è infatti una contraddizione vivente.
Deplorare le nostre tendenze barbare (talvolta eufemisticamente dette ‘aggressive’), discuterle e farne oggetto d’analisi non serve certo a sradicarle. Sarebbe un’utopia come voler estirpare ogni impulso sessuale. Così, la legge non proibisce che l’esteriorità del male. La religione ne vieta anche l’interiorità, ma senza effetto. È infatti possibile controllare i propri atti, ma è terribilmente arduo domare i sentimenti.
Il boia concentrava in sé la crudeltà della massa, soddisfaceva per procura quei moti di odio, di vendetta, che da sempre l’uomo antepone ai sentimenti d’amore o di perdono. E se la Legge tornasse ad autorizzare tormenti, roghi o decapitazioni, la gente si accalcherebbe oggi come un tempo sulla pubblica piazza per godersi lo spettacolo. Nella contemplazione dell’orrore v’è sempre una certa voluttà. La nostra educazione cerca di rimuoverla, ma lei rimane impigliata in qualche angolo della coscienza.
E se i mutati costumi negano quello sfogo naturale, la gente ripiega su surrogati virtuali, letterari o cinematografici. Cerca appagamenti sublimati nei resoconti di crimini, guerre, massacri, fatti atroci, che le procurano un trasalimento dei sensi e rapimenti passionali. È un godimento intimo, subliminale, scrupolosamente tenuto al riparo dagli sguardi indiscreti della propria coscienza morale, che certo lo disapproverebbe.
V’è chi scarica i suoi impulsi sadici su persone vicine, familiari, coniuge, figli, adducendo ragioni morali o educative. Chi tortura e massacra animali e chi, non potendo adire vie di fatto, tracima in feroci invettive, insulti e turpiloqui. Quali che ne siano le manifestazioni, un carnefice sonnecchia in noi, pronto a svegliarsi e a reclamare l’esercizio delle sue funzioni ogni volta ve ne sia l’occasione, l’opportunità, o le circostanze lo richiedano. Chi maneggia l’informazione sa bene quanto la gente ami lo spettacolo della sofferenza. Perciò, si tratti di pandemie, di guerre, di cataclismi o di ogni altra tragedia, ne trae una libidine febbrile, voluttà di orrori che dice ‘indicibili’ ma che sa riportare con dovizia di parole.
“La sofferenza è il cavallo più rapido per raggiungere la perfezione”, è stato detto. Dunque, in quanto comporta un dolore, la punizione diventa virtù, strumento di perfezionamento dell’umano. Ne sembra venire una purificazione metafisica, una riparazione simbolica o una magica compensazione. Viviamo così scontando pene, sospesi tra espiazione e redenzione. C’è chi, per purificarsi, si auto-punisce e si fa “tormentatore di sé stesso” e chi, col dichiarato intento di una purificazione sociale, impone ad altri castighi e sacrifici.
Si può punire in mille modi – a spese del corpo, dell’anima, dei beni materiali, della libertà ecc. – e per mille motivi. Chi non ha una nobile ragione per punire? La violenza trova sempre una sua giustificazione nell’etica, nella natura, nella legge. Si straziano i corpi per salvare le anime – ma oggi più sovente il contrario – si colpisce l’individuo per difendere la società, si fa soffrire qualcuno per il suo stesso bene ecc. Quale missione divina è il punire!
Il realista dirà che la durezza della pena è necessaria per mettere un argine alla malvagità umana e mantenere l’ordine. Ma il realismo è spesso lontano dalla realtà. Per l’idealista la pena avrà valore formativo, o purgativo, ma anche di questo è lecito dubitare. I più saranno d’accordo nel dire che non l’uomo ma la natura stessa è dura, spietata, rigorosa nell’applicare le sue leggi ecc., con quella stucchevole retorica del “così è la vita!”, come se non potesse essere altrimenti.
Certo, noi esseri civili abbiamo un’etica. Il fatto è che le nostre sovrastrutture morali possono venir smontate e rimontate con meravigliosa facilità. Basta una campagna giornalistica o della propaganda politica per oliare le ruote della nostra crudeltà e rimettere in moto il nostro apparato ferino. Allora, solo dopo aver trovato colpe da punire e colpevoli da tormentare, il carnefice, sazio di dolore, si concede il giusto riposo, stanco come dopo un faticoso amplesso.
È una storia che sempre si ripete. Anche recentemente, è bastata un’emergenza sanitaria – più teatrale che reale – corroborata da qualche fandonia di giornale, perché la gente ritrovasse in sé la nobile disposizione del boia, ancora così essenziale, pare, al buon ordine e al retto funzionamento dello Stato. Come ridestata dalle trombe del giudizio, una moltitudine di carnefici è uscita dalle tombe del perbenismo, smaniosa di torturare il prossimo.
E l’idea di togliere libertà, lavoro e pane a chi si ostina a restar umano, e non vuol entrare in questa nuova umanità redenta dal Vaccino, non è forse idea degna di un boia? Par che dica: “noi siamo la Giustizia evoluta, sciolta dai costumi barbari d’un tempo. Non uccidiamo nessuno, solo impediamo di vivere”. Ma i riluttanti, gli irredenti, sono milioni, come castigarli tutti?
Così, la scelleratezza del boia, un tempo grandiosa escrescenza morale di un unico essere, si è dovuta frammentare in tanti boia piccoli e meschini. Prendete lo sconosciuto dirigente scolastico o il solerte funzionario che firma un provvedimento di sospensione a carico del dipendente senza salvacondotto, cioè privo del marchio di purezza. Egli, da buon carnefice, non si cura dell’angoscia di chi resta senza mezzi per sostenere sé stesso e la famiglia, è refrattario a ogni compassione e solidarietà umana.
Le conseguenze del suo gesto, fossero pure tragiche, non lo toccano. Non discute la brutalità della legge – non deve avere una coscienza! Ubbidisce, infligge una pena, punisce una colpa. Forse si compiace della sua meticolosità, si preoccupa di apporre la sua firma nel minuto esatto, secondo le normative vigenti, e pensa tra sé “nessuno sospende meglio di me”. Si sente “cemento della società” e non immagina di esserne anche l’orrore. Come il boia, dormirà senza incubi né dubbi, convinto d’aver fatto il suo dovere.
E quelli che ti fissano con odio muto e terribile, quasi tu fossi “un parricida, un avvelenatore, un sacrilego”, e potendo ti darebbero al boia perché ti purifichi. A loro non importa se la tua sofferenza è inutile o irragionevole: la punizione trascende l’utilità e la ragione, è Giusta, è una necessità morale. Partendo dalle alte dimore del potere e scendendo attraverso gli strati della società, senza esclusione di categoria, un rivolo di disumanità cola così nelle coscienze e le trasfigura.
Anche nell’attuale retorica contro la guerra, in questi discorsi che quanto più son vuoti tanto più rimbombano, nell’esecrazione, nelle invettive, negli appelli umanitari, si sente pulsare il cuore nero del boia. Si vogliono dei capri espiatori, colpevoli cui infliggere pene esemplari. L’essere indignati, trovare il Male e punirlo ci fa sentire così virtuosi!
La punizione è la base del nostro edificio sociale, più del lavoro e della cultura, certo molto più della fratellanza e dell’amore. Essa pare trascinare con sé decreti celesti, rispettare un ordine cosmico. In realtà, io credo, ognuno punisce sé stesso e provvede da sé alla propria pena. Siamo giudici e boia di noi stessi, ma non lo sappiamo. Crediamo in un Grande Carnefice, che tiene sospesa la spada dei suoi castighi sul capo dei viventi. Il mondo sembra opera d’una divinità ignota, che atterrisce più di quanto non consoli e perdoni.
Un Dio vendicativo – quest’idolo che noi immaginiamo – fornisce l’avallo alla nostra crudeltà. Perciò si educa, si insegna, si disciplina il mondo intero attraverso la punizione. La nostra stessa coscienza morale si forma emergendo da un fondo melmoso di paura. “Dio corregge chi ama”. Temibile è dunque il Dio che ci ama, lo Stato che ci ama ecc. Perché da Dio il diritto di punire passa ai Re, ai governanti, al giudice, al boia, al padre e al padrone ecc., per finire nelle mani di grigi impiegati. L’amore scompare, la pena rimane.
Solo la forma del punire varia nel tempo. Al moderno carnefice, seduto in un ufficio, scialbo burocrate, non servono il coraggio e il vigore dell’antico. Non serve che sappia mazzolare, spiccare teste, manovrar corde e carrucole. Basta una delazione, che scriva due righe, che metta una firma. Benché ministro di supplizi, non suscita ripugnanza, né orrore. La gente comune vi si può rispecchiare. È un essere debole e ordinario, che teme a sua volta d’esser punito da un altro boia, più in alto di lui in questa aristofanesca gerarchia del potere che ancora chiamiamo ‘democrazia’. Per calcolo, oltre che per sentimento, preferisce l’essere carnefice all’essere vittima. Tortura gli altri per opportunismo e per viltà. Non l’onesto boia, dunque, ma il boia vigliacco sta oggi a fondamento e garanzia dell’ordine sociale.
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