Anche da morto Silvio Berlusconi è riuscito a mobilitare politica, media e opinione pubblica. Infatti, la decisione del governo di proclamare il Lutto Nazionale per la scomparsa del leader di Forza Italia ha immediatamente suscitato le aspre e livorose reazioni dell’universo antiberlusconiano che per decenni è stato concentrato ad accanirsi sull’uomo di Arcore.
Dalla Stampa a Repubblica al Fatto Quotidiano, fino agli esponenti delle sinistre PD e grillina, tutti hanno commentato la morte di Berlusconi rievocandone le vicissitudini giudiziarie, le vicende personali, i contrasti internazionali e le scelte politiche, solo per fornirne un’immagine negativa e rinnovare la loro astiosa condanna politica e morale del defunto.
Il circolo ARCI di Arcore ha organizzato una festa nel giorno della sua morte, lo squallido rettore dell’Università di Pisa s’è dichiarato contrario a esporre la bandiera a mezz’asta sull’ateneo e persino Rosy Bindi, ormai da tempo uscita dalla scena politica nazionale, è riapparsa con tutta la sua acida sicumera per giudicare inopportuna la scelta del Lutto nazionale proclamato in omaggio a un presidente del Consiglio considerato “divisivo” e, pertanto, non idoneo a suscitare in tutti il dovuto ossequio istituzionale.
Sinceramente, a prescindere da certe volgarità, giudico naturale la posizione della Bindi e di altri.
Per chi da sempre ha militato in un’area politica che si considerava erede dell’esperienza fascista e ritiene ancora oggi di poter riproporre tematiche politiche ortodosse a quell’ideale, seppure aggiornate, modificate e aderenti all’attuale contesto, senza dover rinnegare nulla né pensare di restaurare un regime definitivamente superato, la figura politica di Berlusconi ha rappresentato una innovazione carica di alcuni elementi positivi ma anche di tantissime ombre. Se l’uomo fu indubbiamente eccezionale e poliedrico, il politico introdusse nelle istituzioni e nella società elementi di disgregazione tali che non possono essere accettati da chiunque si ricolleghi a una visione comunitaria e a ideali social nazionali. Per questo, il dovuto omaggio all’uomo non è necessariamente per tutti estendibile al politico, sebbene i distinguo e le distanze possano essere prese ed espressi da ciascuno con modalità e sensibilità differenti.
E’ evidente che le sinistre, più che certe nel lontano 1994 di conquistare il potere, allorché subirono invece una bruciante sconfitta elettorale, iniziarono a coltivare un odio viscerale e un rancido rancore nei confronti di Berlusconi e, pertanto, la loro inimicizia e il loro astio non sono paragonabili né associabili alla nostra opposizione che è di natura puramente politica.
Ma se è naturale che loro non vivano il lutto in comune, è assolutamente ipocrita la loro giustificazione circa la figura “divisiva” del presidente del Consiglio.
In realtà Berlusconi non fu di per sé divisivo, ma scese in campo in un agone già diviso, in un Paese attraversato da profonde fratture, in un contesto nel quale le contrapposizioni feroci erano state alimentate per anni proprio dalle sinistre. Un Paese che aveva conosciuto decenni di violenze e terrorismo comunista sfociati nell’assassinio di un presidente del Consiglio; un Paese in cui solo tre anni prima s’era celebrato l’ultimo Congresso del PCI, che in quella occasione aveva cambiato nome trasformandosi in PDS, perché il crollo del muro di Berlino aveva spinto parte della classe dirigente comunista a intraprendere la strada di un cambiamento che consentisse di aprire una fase costituente per un partito nuovo, nel solco dell’Internazionale Socialista, ma senza che fosse avvenuto alcun processo di condanna né di revisione critica del passato perché, come scrisse D’Alema, “Quella che prospettiamo non è la prospettiva della rinuncia o dell’abiura”.
In quel contesto, Silvio Berlusconi ebbe l’intuizione e il coraggio di individuare nella sinistra ex comunista il nemico e di chiamarlo col suo nome, contrapponendogli un fronte articolato che andava dai federalisti della Lega agli statalisti del MSI. Lo “sdoganamento” della destra missina, peraltro già sancito dagli elettori, fu la sua prima innovazione politica e anche la colpa che la sinistra non cessò mai di addossargli. La sinistra che oggi accusa il defunto leader d’essere stato divisivo è infatti la stessa sinistra che per decenni aveva tenuto inchiodato il Paese alle divisioni della guerra col ricatto dell’antifascismo e dell’arco costituzionale, che aveva insanguinato le strade d’Italia con le violenze dei gruppi extraparlamentari, le complicità della Magistratura e i ricatti sindacali. L’arrivo di Berlusconi concentrò sulla sua figura gli attacchi feroci e persecutori di quel fronte articolato e virulento e solo la potenza economica e la tenacia del Cavaliere gli consentirono di non cedere, di resistere alle sconfitte, ma di non crollare sotto i colpi del nemico. Ma la rabbia e la contrapposizione politica degli antiberlusconiani sono rimaste inalterate fino ai nostri giorni e hanno travalicato la scomparsa del politico.
Per questo, sentirlo accusare d’essere divisivo da coloro che hanno costruito sulla contrapposizione tra italiani le proprie strategie e le proprie fortune politiche suscita disgusto. Il sorriso che suscita il bue che dà del cornuto all’asino non si può confondere con l’avversione che provoca l’ipocrisia dei mestatori e degli impostori. Chi ha costruito una consorteria di interessi e di ricatti politici per detenere il potere a oltranza, aggirando ogni consultazione popolare, ovvero chi continua dopo oltre 78 anni ad agitare strumentalmente il fantasma del fascismo e pretenderebbe di sottoporre ad esame gli avversari, non ha alcuna legittimità né credibilità politica. Chi su ogni questione, sociale o politica, ha sempre rappresentato la scelta più abietta o più antinazionale è inconciliabile con ogni visione tradizionale del mondo e della vita.
Verso costoro è giusto e doveroso essere non solo divisivi, ma contrapposti in modo assoluto, fanatico e categorico. La loro concezione del mondo è inumana e irriducibilmente alternativa alla nostra e non merita alcun tentativo di mediazione né di compromesso.
Enrico Marino