10 Ottobre 2024
Attualità Società

Il caso Alfie: quale etica? – Flavia Corso

Il caso del piccolo Alfie, il bambino di quasi due anni ricoverato all’Alder Hey Hospital di Liverpool per una malattia neuro-degenerativa non ancora ben diagnosticata, sta assumendo sempre più rilevanza internazionale. La lotta della famiglia Evans per tentare di dare una disperata chance al proprio figlio ha commosso molte persone di tutto il mondo, e ha evidenziato – ancora una volta – l’urgenza della riflessione bioetica nell’ambito delle questioni di inizio e fine vita.

La Corte d’Appello di Londra e i medici dell’ospedale si oppongono fermamente alla possibilità del trasferimento in Italia, presso l’ospedale Bambino Gesù di Roma. Inspiegabilmente, si è dunque deciso di negare la speranza ai genitori di prolungare la vita del proprio figlio, sebbene il piccolo inglese non stia provando alcun dolore e stia resistendo al distacco del respiratore.
Ma perché? Quali motivazioni di ordine morale vengono fornite a tale proposito?

Di norma, si individuano in bioetica due paradigmi inconciliabili: l’etica della sacralità della vita e l’etica della qualità della vita. Il primo paradigma, detto anche paradigma ippocratico, considera il medico il sacerdote della vita, l’assistente del finalismo vitale, colui che conosce il miglior interesse del malato e fa di tutto per non nuocere e promuovere la vita, in virtù dell’esistenza di doveri e divieti assoluti.

Oggi questa visione del rapporto medico-paziente sta perdendo sempre più terreno in favore dell’etica della qualità della vita che, al contrario dell’altra, non contempla la necessità di fare riferimento a doveri e divieti assoluti, ma si propone di scardinare l’antica etica medica per garantire al malato la possibilità di autodeterminarsi sia in salute che in malattia, anche attraverso l’utilizzo delle cosiddette “direttive anticipate”. Contrariamente al paternalismo medico di stampo ippocratico – che giustifica anche pratiche decisamente discutibili come l’accanimento terapeutico su pazienti sofferenti in fase terminale – il rapporto tra medico e paziente, in quest’ottica, costituisce un’alleanza terapeutica.

Ora, mi chiedo: in virtù di quale delle due etiche sono state prese decisioni così importanti nei riguardi del piccolo Alfie?
La risposta è semplice: nessuna delle due.

Oltre all’abbandono di una visione sacrale della vita, in cui il medico dovrebbe sempre e comunque farsi promotore della vita e mai della morte, si assiste anche all’allontanamento dal paradigma della qualità della vita. Alfie, infatti, non sta soffrendo e non ha la possibilità di dare direttive di trattamento al personale medico. In questa situazione, le uniche persone autorizzate a decidere per lui sono – o comunque dovrebbero esserlo – i suoi genitori. Negare questa possibilità alla famiglia Evans significa di fatto negare il principio di autodeterminazione a cui si rifà l’etica della qualità della vita. Non si può accettare questo principio e farne un baluardo di civiltà solamente nel caso in cui si scelga autonomamente di interrompere il trattamento o di ricorrere all’eutanasia. La possibilità di autodeterminarsi dev’essere garantita anche nel caso in cui si decida di proseguire il trattamento e continuare a vivere il tempo che rimane a disposizione, e di tentare magari l’impossibile pur di allungare almeno di un po’ la durata della propria vita.

Questa possibilità, tuttavia, sta diventando sempre più un miraggio, come nel caso di Alfie. Si rinnegano contemporaneamente due etiche ugualmente percorribili e giustificabili, per alimentare quello che può essere considerato il terzo paradigma della nostra epoca: l’etica della qualità della morte. E’ molto meno costoso focalizzarsi sulla buona morte, piuttosto che sulla buona vita. E’ molto più facile ed immediato “staccare la spina” in una società di stampo utilitaristico che non vuole farsi carico di individui “difettosi”, piuttosto che rispettare la famiglia quale nucleo avente la propria autonomia decisionale.

In situazioni limite come questa, ogni famiglia dovrebbe avere il diritto di mettere in pratica la propria etica, senza subire alcuna interferenza dello Stato. Nessuna persona dovrebbe essere costretta ad alienarsi dall’intimità della propria morte, o da quella dei propri cari.Mi sembrano di buon senso, a questo proposito, le parole di Beppino Englaro:

Chi deve decidere quando e come mettere fine alle sofferenze di chi non può esprimersi? Sapevo cosa voleva Eluana e mi sono battuto perché potesse morire secondo la sua volontà. Il desiderio dei genitori di Alfie va rispettato, anche se la loro scelta potesse rivelarsi sbagliata. I medici dicono che la vita di Alfie è destinata ad essere breve e dolorosa, ma i genitori preferiscono un percorso palliativo in Italia. Perché ostacolare così la loro pazienza?

Flavia Corso

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