9 Ottobre 2024
Società

Il cerchio della comunicazione – Lorenzo Merlo

Prendendo spunto da un momento formativo delle Guide alpine risalente a diversi anni addietro, si arriva a considerare un aspetto nodale della realtà attraverso l’architettura dinamica della comunicazione. Ne segue un percorso evolutivo su sé stessi, sull’altro, sulla realtà stessa. Non più un teatro nel quale ci muoviamo, ma una scena che la nostra stessa presenza modula e crea. Non più una realtà oggettiva sulla quale possiamo imporre il nostro giudizio convinto, ma una realtà-nella-relazione, ovvero che dipende profondamente, totalmente da noi, dal nostro intimo sentimento.

Passo chiave
Il master di Rovereto dedicato alla didattica delle attività motorie dell’alpinismo segna un momento storico per la professione delle Guide alpine italiane. Senza nulla togliere a quanti si erano impegnati fino ad allora nel settore della didattica, il corso di Rovereto è stato epocale. Ma con una precisazione. Non tanto perché quanto realizzato in aula abbia risolto il problema dell’insegnamento, quanto piuttosto perché le guide hanno decisamente -è una volta di più- impugnato la volontà precisa di affermare la propria ignoranza in merito alla didattica, e ammesso -una volta ancora- che insegnare fa rima con accompagnare; che essere guida non necessariamente implica essere anche maestro. Infatti è opportuno non dimenticare alcune rappresentative formulette che tutti noi fino a poco tempo fa abbiamo pronunciato e/o ascoltato. A sentirle oggi fa ancora il suo effetto.
«Non è possibile insegnare a scalare»;
«O uno lo sa fare o è inutile»;
«Meglio non insegnare ai clienti se no non vengono più».

Man mano che questa mentalità svaniva — purtroppo non è ancora morta — la consapevolezza della dimensione a tutto tondo implicata nelle questioni didattiche, e non solo in ambito motorio, le prendeva il posto. In pratica, si stava andando nella direzione opportuna per prendere coscienza che essere buoni esecutori, dimostratori, non comportava per nulla essere anche buoni maestri. Una concezione su tutte può rappresentare lo stadio di consapevolezza che disponevamo in merito alla didattica. Tecnica e didattica, infatti, erano sempre pronunciate insieme, come non fosse possibile diversamente, come sinonimi. Chi pronunciava la parola binomio intendeva alludere che nella descrizione, cognitiva o empirica di una certa tecnica, se ne esauriva, nel contempo la sua didattica. La ripetizione della descrizione e/o della dimostrazione ne erano il solo rinforzo. Contemporaneamente, nei confronti degli iniziandi a quella tecnica, si richiedeva la ripetizione della nuova prassia, finché l’iniziato non la riteneva eseguita sufficientemente. Quanti docenti (corsi istruttori, corsi aspiranti, corsi clienti, corsi figli, eccetera) avrebbero saputo fino a tempi recentissimi dare significato, fisionomia e identità a quei due termini?

Seppur con progressione adeguata alla nostra storia, abbiamo da tempo dimostrato attenzione verso l’insegnamento quale momento della professione da studiare a parte. Rovereto 2002 ne è stata perciò una conseguenza, forse un’accelerazione. Ma non solo. Per qualcuno ha rappresentato anche la presa di coscienza che la stessa gestione di un accompagnamento può essere migliorata se si fosse scesi dal piedistallo dove abbiamo autoreferenzialmente creduto di meritare di stare. 7a a vista, 1000 m di dislivello allora, io sono alla guida, leggi, io non ho niente da imparare da te. La domanda se fare la guida fosse anche altro oltre a conoscere il territorio, avere resistenza, essere bravi a scalare e a sciare, promettere sicurezza e altre legittime tradizionali, convinzioni, aveva ragione d’essere e stava trovando le sue risposte. Tuttavia, tutto ciò si non si riferisce per nulla alle singole guide/maestri, ma alla mentalità, qui generalizzata, delle nostre istituzioni.

Via nuova
I tre moduli del maggio-giugno di quell’anno, tenuti presso l’Università di Rovereto, soddisfecero la maggior parte degli istruttori che avevano voluto aderire. Non solo, la stessa stragrande maggioranza di loro auspicava di estendere l’esperienza/esperimento a tutti i loro colleghi. Se ciò era positivo, se dimostrava la bontà e la riuscita della prima edizione (successo da non dare per scontato, come ogni nuova via), personalmente speravo non comportasse necessariamente lo stadio finale al quale puntare.

L’uomo cestino
Il nodo emerso durante l’esperimento è consistito nella difficoltà -tanto da parte degli istruttori quanto da parte dei docenti- di integrare quanto stavano ascoltando/proponendo entro la specifica situazione/esigenza professionale della guida. “Sì, certo, interessante”; “Ma come la uso?”; “Come impiego tutto ciò?”, si domandavano e domandavano gli istruttori. Una specifica presa di coscienza, avrebbe permesse di superare l’impasse. Riguarda la struttura della comunicazione che, per essere compiutamente riconosciuta, richiede l’assoluto coinvolgimento della persona alla quale la comunicazione si rivolge. Richiede che questa, da semplice cestino al quale abbiamo lanciato la pallottola della nostra affermazione, divenga invece elemento centrale-primario della comunicazione stessa.

Grafica della comunicazione
Per quanto la seguente sintesi lasci necessariamente fuori molti aspetti, tra cui la motivazione, l’interesse, i rapporti di forza, il tipo di relazione, eccetera, provo a rappresentare graficamente la comunicazione. Mettiamo specularmente, una di fronte all’altra, due barrette parallele. Segnamole identicamente entrambe, tipo scala graduata. Le barre rappresentano due interlocutori. Apparentemente simili, a volte superficialmente considerati uguali. In realtà costituiti dai mondi creati dalle loro idiosincrasie, dai loro dogmi, convenzioni, paure, speranze, maschere, bugie, concezioni, stress e tanto altro ancora. Ovvero da tutte quelle entità sottili e volitive che abitano l’impalpabile strato limbiotico dove risiede una dimensione dell’essere capace di nascondersi agli occhi dell’io. Una specie di pre-pensiero, pre-sentimento. Una specie di cancello spirituale dal quale scaturiscono e prendono forma sensibile pensieri, sentimenti, poi a loro volta, prodromi di azioni e scelte.

Permettendo alle due barre di muoversi e ruotare nello spazio in tutti i sensi e direzioni, rappresentiamo i cosmi individuali. Entrambe le persone, le esistenze occupano un punto del loro mondo personalizzato, cioè si trovano ad una certa altezza della barra graduata e in una certa relazione spazio-temporale con l’altra barra. La difficoltà della comunicazione cresce se si considera che la barra è così lunga da nascondere la sua curvatura, la sua circolarità; così profonda da celare la sua sfericità, così complessa da essere invulnerabile da qualunque intervento d’ordine le si voglia applicare. Credere che il nostro interlocutore sia idoneo a quanto vogliamo esprimere, come se entrambi avessero la loro barra opportunamente orientata e la loro quota fosse giusta, complica le cose. Effettivamente quando ciò avviene la comunicazione è di successo. Graficamente, un segmento rigido collega le due barre. Una sorta di H. In contesto didattico, detto segmento ha un verso. È una freccia che scocca dal docente e raggiunge il discente. Ordinariamente non si tiene conto della complessità della comunicazione, delle sue esigenze. Si ritiene basti disporre dell’autorità e dell’autorevolezza, per credere che l’esperienza possa essere trasmessa, per ritenere quanto espresso sufficiente alla comprensione dell’altro. Diversamente, quando i due interlocutori si trovano a quote differenti, ovvero in contesti lontani tra loro, per attenzione contingente, cultura o per esperienza appunto, la freccia a vuoto. Crea equivoco. E relativo rischio di peggioramento della relazione, dell’equilibrio reciproco. A volte l’arciere se ne avvede, altre no. Il fatto che entrambi dispongano della stessa lingua, della stessa erudizione, cioè che abbiano la stessa quota sulla specifica barra cognitiva, non basta assolutamente a sfamare le fauci della comunicazione.

E perciò?
La domanda è la seguente: abbiamo piena consapevolezza che per realizzare comunicazione -in contesti didattici in particolare- che l’impegno sta nel cercare il punto d’esistenza del nostro interlocutore e che una volta trovatolo, ne segue uno altrettanto consistente, quello di modificare il nostro? Ovvero, solo riconoscendo la dimensione contingente e generale del nostro interlocutore possiamo modularci, o imparare a farlo, per trovare da che porta entrare in quel mondo. Non sempre l’accesso è dato, tuttavia, solo superato quell’uscio, il rischio di equivoco si riduce e si alza quello della comunicazione. E quello bellissimo dell’empatia, della complicità, della compassione, della comunione.

Banalità da trasferire
Se questa rappresentazione della comunicazione risulta banale a molti, è solo un bene. Quello che può essere utile ora è fare presente che quella rappresentazione è valida indipendentemente dall’oggetto della comunicazione stessa. Alpinismo, matematica, consigli, raccomandazioni, esortazioni, costrizioni, comandi, concetti, riferimenti, eccetera, di fronte alla figura delle due barrette, giocano la stessa partita, corrono il medesimo rischio (alto) di fallimento (frequente), o successo (raro). Diversamente da quanto si tenda a credere, nell’azione della comunicazione è l’equivoco ad essere ordinario. Queste eventuali banalità sono necessaria premessa per affermare che finché abbiamo il nostro io come priorità, finché non ne abbiamo riconosciuto i bisogni psicofisici, finché non abbiamo colto il punto di esistenza che ci obbliga a occupare, il rischio d’insuccesso tende ad essere alto. Se poi, insieme all’io, mettiamo al centro della comunicazione il nostro sapere, che per saccenza crediamo di averlo espresso in forma opportuna, addio. Il disastro è completo. Ovvero, è sempre lui a non capire niente.

Il climax
Il problema sta proprio al centro. Se ci mettiamo noi o quanto vogliamo comunicare, che poi corrispondono alla medesima origine, non potrà starci la persona alla quale vorremmo dire o trasmettere qualcosa. L’attenzione deve quindi spostarsi. Se ora è su quanto si deve comunicare, per esempio la scalata su ghiaccio, deve passare alla persona che vuole iniziarsi alla scalata su ghiaccio. Soltanto così si può rischiare di arrivare a escogitare 1000 didattiche; 1000 progressioni didattiche; 1000 trucchi; una comunicazione di successo per tutte le 1000 persone. Soltanto così ci si può liberare bella pedestre riproduzione di quanto dice il Metodo, il Manuale, l’Istruttore, tutti dogmi culturali e tutti consacrati e osannati. Con tanto di vanità orgasmicamente soddisfatta. Ma anche di assuefazione ad essa, il cui lato tetro riguarda il circolo vizioso che comporta, riguarda l’impedimento di un’evoluzione personale. Aggiornare la propria consapevolezza su questo aspetto, è il passaggio chiave del prossimo tiro. Necessario agli aspiranti didatti e a chiunque abbia intenti di comunicazione. Ciò comporta molto: una rivisitazione di tutto un modo di fare e vedere fare, di una cultura. Non è poco, forse è il massimo, anche se si è partiti dalla semplice comunicazione, da un suo parziale contesto, quello didattico. Se andare a rivedere tutto l’ordine che avevamo ereditato non ci interessa, continuiamo pure a parlare senza dedicarci all’altro, a credere che per comunicare sia sufficiente rispettare alcuni parametri tecnici; restiamo pure a guardare la realtà come se non ne fossimo gli autori; continuiamo a soggiornare comodi sul nostro divano meccanicistico, «prima o poi capirà cosa deve fare; cosa gli ho detto di fare; come gli ho detto di fare». Ovvero, possiamo perseverare a credere che parlare/dimostrare esaurisca la comunicazione, possa bastare a insegnare.

Valutazioni
Vi sono altri due aspetti implicati nella problematica in questione: la valutazione e la nostra responsabilità del comportamento del discente o dell’interlocutore. L’attuale convinzione di affermare il verbo definitivo e dogmatico al quale far aderire a forza il nostro allievo, dovrebbe essere sostituita da quella che afferma l’ascolto del nostro destinatario. È un passo necessario. Il solo che ci permette di non cadere, di mantenere l’equilibrio, di ridurre il rischio di incomprensione. Solo ascoltando possiamo evolvere nella comunicazione, quindi nella didattica. Ascoltando possiamo, come maestri alchemici, trasformare il piombo in oro, far divenire circolare quella freccia, spesso chiamata feed-back. Fare tesoro delle reazioni alla nostra azione alfine di rimodularla in modo sempre più opportuno. La freccia, che scoccava unilateralmente, divenuta circolare, forma e rappresenta un’unità, in cui nucleo vitale è la sostanziale parità tra le due parti.

Il sentimento che sottintende a questa nuova condizione non è più il solito, quello vanesio e narcisistico. Piuttosto quello che ci arriva al cuore per avere imparato qualcosa dalle e delle persone, di noi. Comporta l’assunzione di responsabilità della reazione del nostro interlocutore. Se il suo dire o il suo fare è fuori luogo rispetto a quanto gli abbiamo proposto, la colpa sarà nostra. Ne consegue che il nostro giudizio sul prossimo cambierà registro. Una volta (?) ci permetteva di arrivare a punire, anche corporalmente. Se prima lo esprimevamo sulla base di un confronto, tra l’esecuzione o la comprensione dell’iniziando, con un modello ideale — autoreferenzialmente presente solo nella nostra immaginazione — o peggio, con la nostra dimostrazione o spiegazione, ora, dopo avere messo la persona al centro, siamo in grado di comprendere e valorizzare il suo fare o dire. Siamo in grado, ascoltando, dando importanza a quel fare e a quel dire — qualunque esso sia, qualunque qualità esprima — di raccogliere molti spunti e informazioni, concezioni e contingenze che abitano il nostro accolito. Una messe di opzioni tutte utili per capire come riformulare la nostra proposizione al fine del suo apprendimento, della sua comprensione. La valutazione correrà allora sul filo doppio, nostro e loro. Essa in un solo colpo dichiarerà il livello della nostra maestria e quello della suari-creazione. In un solo colpo saremo bocciati o promossi. Sempre insieme.

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Lorenzo Merlo

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