10 Ottobre 2024
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Il cosmo magico – Cosmologia ed alchimia in Eliade – Giovanni Sessa

Il libro che stiamo per presentare fu pubblicato da Mircea Eliade nel 1937 in romeno, una lingua   marginale nell’ambito dell’assirologia. Il paese transilvano non vantava alcun serio precedente di studi in tale settore della storia delle religioni. Inoltre, il volume erano latore, a detta dell’autore, di un metodo esegetico e di una visione del mondo “rivoluzionarie”. Da allora, il libro ha avuto una nuova edizione francese nel 1991, cui seguì, di lì a qualche mese, una prima traduzione italiana.   E’davvero meritoria, quindi, l’iniziativa della casa editrice Lindau di dare nuovamente alle stampe questo volume. Ci riferiamo a Cosmologia e alchimia babilonesi (euro 16,00), nelle librerie per la preziosa cura di Horia Corneliu Cicortaş, che ha, negli ultimi anni, presentato a beneficio dei lettori italiani, altri lavori dell’eminente storico delle religioni.

    A cosa va ascritto il tratto “rivoluzionario” delle tesi espresse da Eliade? Lo spiega nella postfazione Pietro Mander: nell’adesione al metodo tradizionale che, sei anni prima, René Guénon aveva presentato ne Il simbolismo della croce e che avrà in Julius Evola un sostenitore di vaglia.   Tale metodo si fonda sulla ipotesi che nella natura si manifesti la sovranatura, nella storia la sovrastoria. Eliade prende così a paradigma interpretativo, l’alchimia e la cosmologia babilonesi e le pone in relazione con quanto emerso presso altre antiche civiltà dalla collocazione geografica disparata, al fine di dimostrare che l’approccio moderno a tali ambiti è errato. Nella cosmologia e nell’alchimia, infatti, non sono rilevanti tanto le “anticipazioni”, in esse presenti, della scienza moderna (tesi tipicamente positivista), ma gli elementi che consentono di comprendere come esistono differenti

“scienze della natura”. Oltre alla moderna, vi è, infatti, una “scienza” tradizionale: “Quando si smarrisce il senso tradizionale di una scienza […] l’uomo utilizza diversamente il materiale a sua disposizione e gli attribuisce un altro valore” (p. 21). Lo organizza attraverso parametri meramente quantitativi, materialistici ed utilitaristici. Non così nel mondo tradizionale.

     L’intera civiltà mesopotamica ruotava attorno alla omologia di Cielo e Mondo “a ogni cosa presente in terra ne corrisponde una identica in Cielo” (p. 24), chiosa Eliade. La geografia tradizionale è sacra e pertanto la carta geografica del mondo è la trascrizione del mondo celeste. Ogni Città è l’immagine della Città celeste e, in quanto tale, Centro del mondo. L’omologia Cielo-Mondo è evidente in tutte le costruzioni babilonesi e, più in generale, tradizionali. La ziggurat ne è esempio chiarificatore “I suoi piani simboleggiavano le divisioni dell’universo: il mondo sotterraneo, la terra, il firmamento” (p. 28), una montagna artificiale rinviante alla Montagna Sacra. Del resto, Trono, Tempio e Montagna sono altri simboli del Centro. Spazi consacrati e davvero reali, avvicinandosi ai quali si entra in prossimità del divino.  L’autore sostiene che “Quando sale i piani di una ziggurat, il re giunge al centro dell’Universo identificandosi così con il dio che abita il Polo” (p. 30). Non è casuale che, anche per il Cristianesimo, la redenzione del mondo si sia realizzata sulla sommità del Golgota, inglobante l’intero pianeta. La Montagna è axis mundi, Albero Cosmico e della Vita.

     Tale Cosmo, diviso in regioni governate dagli dei e regolate dai pianeti, è animato dalla legge magica della simpatia, proprio perché il microcosmo non è che rappresentazione del macrocosmo. Tutto ciò che accade in una zona celeste finirà per influenzare la corrispondente zona del Mondo. Numerosi, nelle civiltà tradizionali, erano i livelli di influsso del Cielo sulla terra. Un certo metallo, un dato colore, corrispondevano ad un determinato pianeta “Ciascuna forza magica, il cui centro è posto in una regione siderale diretta da un pianeta o governata da un dio, pervade tutti i livelli della realtà” (p. 43) . Naturalmente, anche il corpo umano era considerato uno specchio del Cosmo, le cui armonie potevano, a seconda dei casi, essere turbate o ristabilite, in funzione di contatti con pietre, erbe, cristalli, dagli influssi disparati. Grazie ai riti l’individuo non era mai solo. Essi lo rendevano solidale con la comunità, con la vita politica e con il Cosmo stesso. L’omologia suprema è pienamente simbolizzata nel lapislazzuli, pietra blu rinviante al Cielo stellato, alla notte attraversata dai ritmi lunari, alla fertilità originaria “solo il fatto di essere in contatto con gli dei del Cielo stellato o delle Acque permetteva agli uomini di creare in senso cosmologico” (p. 52).

     Da ciò la venerazione dei meteoriti, impregnati di valenze magiche superne. Da essi i popoli tradizionali ricavarono il ferro. Provenienti dal cielo o ricavati dal grembo materno della Terra, i metalli erano impregnati di forze magiche. Per lavorarli era necessario essere iniziati. I fabbri, infatti, a Babilonia come in altre civiltà, erano venerati o temuti: esseri umani in contatto con potenze superiori o oscure. I metalli, per tradizione, mutano la natura dell’uomo o ne modificano l’esistenza.

    Il cosmo antico era vivo, sintetizza lo storico romeno: tutto conosceva nascita, sessualità, morte. Ogni aspetto della natura aveva sesso: metalli, pietre, piante. Alcune pietre “femminili” erano in grado di portare la pioggia, altre di agevolare il parto. Il segreto della Grande Arte, l’Alchimia, sta nella combinazione di Maschile e Femminile. La prassi alchemica babilonese, presa ad oggetto di studio da Eliade, era centrata sulla proiezione da parte dell’alchimista della condizione umana sui metalli, al di fuori di sé, al fine di creare, in tal modo, un corpo mistico impuro. Successivamente  l’operatore agiva sul corpo metallico per purificarlo/si, seguendo una prassi iniziatica consolidatasi nel tempo. Con la liberazione dell’Oro “interiore” si raggiungeva l’apice del cammino di perfezionamento. In tale stato si dava Unità al reale, lacerato dalla Creazione. Questo il lascito più significativo delle pagine eliadiane.

Giovanni Sessa

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