17 Luglio 2024
Economia Rallo

Il debito pubblico e la trappola della “stabilità”

I1 debito pubblico italiano ‒ abbia­mo appreso in questi ultimi giorni dalla stampa ‒ ha toccato a luglio un nuovo massimo storico: 2.186 mi­liardi di euro. Oramai si parla di “massimo storico” ad ogni scadenza annuale, addirittura ad ogni scadenza mensile. Con una ipocrisia tutta ita­liana: fingendo, cioè, di credere che il prossimo anno o il prossimo mese potremmo non trovarci di fronte ad un nuovo record. Ricordo ‒ tanto per non restare nel vago ‒ la successione degli ultimi “massimi storici” del no­stro debito: 2.090 miliardi a gennaio, 2.107 miliardi a febbraio, 2.120 miliardi a marzo, 2.146 miliardi ad apri­le, 2.165 miliardi a maggio, 2.168 mi­liardi a giugno. A luglio ‒ come detto ‒ siamo a quota 2.186. E ad agosto ‒ apprenderemo dai candidi commentatori fra qualche settimana ‒ il nostro debito sarà cresciuto di un’altra man­ciata di miliardi.

Non potrà che essere così. E non sarà per colpa del Don Chisciotte della Tuscia, e nemmeno ‒ tutto som­mato ‒ dei suoi più o meno arcigni predecessori. Sarà colpa principal­mente della matematica.

Immaginate un imprenditore che abbia un debito verso le banche ‒ poniamo ‒ di 100 milioni; e che ogni mese, invece di decurtare il debito, si faccia prestare altri soldi per pagare gli interessi: come fa lo Stato Italiano, ogni mese, facendosi prestare del de­naro a fronte del rilascio di cambiali,quali sostanzialmente sono i BOT, i BTP, i CCT e gli altri titoli del debito pubblico.

Cosa succederebbe a quel­l’imprenditore? Semplice: che, in ca­po ad un anno, non soltanto non avrebbe ridotto di un centesimo la “sorte capitale” del proprio debito, non soltanto continuerebbe ad essere debitore anche degli interessi, ma si troverebbe indebitato anche per i de­nari presi in prestito per pagare gli in­teressi (e per non avere revocata la linea di credito). Esattamente come lo Stato Italiano: che, pur riducendo all’osso le proprie spese, vede ogni anno crescere il debito accumulato: dal miliardo e mezzo circa di dieci anni fa, ai quasi due miliardi e due di oggi, alle cifre ben più pesanti che ‒ con questi ritmi ‒ avremo da qui a po­co.

La differenza tra l’ipotetico imprenditore insolvente e lo Stato ita­liano è una soltanto: l’imprenditore sarebbe fallito nel giro di pochi anni; mentre lo Stato italiano (ma non sol­tanto l’italiano) continua ad indebi­tarsi ogni giorno di più, senza che la finanza usuraia ne determini ancora il fallimento o ‒ come si dice in omaggio ai nostri padroni ‒ il default. E più avanti vedremo perché gli sia consentito farlo.

Ma, andiamo avanti: gli organismi che sovrintendono al nostro sistema economico-finanziario (il Fondo Monetario Internazionale, l’Unione Europea, la Banca Centrale Europea ed altre troike del genere) ci impongono la “stabilità”; ci impon­gono cioè ‒ traduco per i benpensanti ‒ di ridurre il nostro debito ad una ve­locità folle: di circa 45 miliardi di eu­ro all’anno e per venti anni di fila. Il diktat ‒ ricordo agli immemori ‒ è stato sottoscritto da Monti nel luglio 2012 e disciplinatamente ratificato in Parlamento dai partiti di cosiddetta destra e cosiddetta sinistra (vedasi il mio articolo “La Legge di Stabilità stabilizzerà solo la miseria” su Social del 19 ottobre 2012). Ora ‒ come nel caso dell’ipotetico imprenditore in difficoltà ‒ lo Stato italiano non ha questi ulteriori 45 miliardi annui da gettare sul piatto della bilancia, e de­ve quindi farseli prestare (attraverso BOT, CCT, eccetera). Con il risultato ‒ sempre in analogia all’ipotetico imprenditore ‒ che il nostro debito pubblico non potrà che aumentare e, come ben sa chiunque abbia fami­liarità con gli “interessi composti”, a ritmi sempre più veloci.

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Dove, ogni anno, lo Stato italiano potrebbe trovare una parte (solamente una parte) di questi 45 mi­liardi? In due campi soltanto: in una del tutto improbabile crescita del­l’economia nazionale, e nel drenaggio di fondi da reperire attraverso la fi­scalità e/o la riduzione della spesa pubblica. Anche qui procediamo con ordine: l’economia nazionale potreb­be mai crescere in un sistema globa­lizzato, con merci cinesi o magrebbi­ne o sudasiatiche che vengono pro­dotte a costi irrisori e immesse sul mercato mondiale a prezzi stracciati? Quali investimenti internazionali si potrebbero attrarre, quando anche i nostri industriali chiudono le fabbri­che in Italia e “delocalizzano” in Ro­mania o in Marocco?

Allora, non potendosi reali­sticamente prevedere alcuna “cresci­ta”, i 45 miliardi annui da immolare sull’altare della “stabilità” possono essere cercati solamente nelle nostre tasche. O aumentando le tasse; ma siamo già al primo posto nella stati­stica mondiale dell’imposizione fi­scale complessiva. Oppure riducendo la “spesa pubblica”; ma siamo già ol­tre ogni limite di tollerabilità, con la chiusura di scuole e ospedali, con le volanti della polizia senza benzina, con le regioni sull’orlo dello sciopero fiscale.

E allora, cosa succederà? Semplice: che pur effettuando una svendita degli ultimi gioielli di fami­glia (le “privatizzazioni”) e pur ac­centuando la macelleria sociale (le “riforme strutturali”), i soldi per la “stabilità” dovremo farceli prestare dagli usurai (pardon: dai mercati) e, quindi, il nostro debito pubblico continuerà a crescere.

E continuerà a crescere più del necessario (si fa per dire), perché dovremo trovare altri 45 miliardi ogni anno per adempiere alla promessa montiana della “stabilità”. È un para­dosso: il nostro debito pubblico au­menterà sempre di più e sempre più velocemente proprio perché ci siamo impegnati a ridurlo. La qualcosa ‒ e rispondo così alla domanda che avevo posto più sopra ‒ è quello che voglio­no i “mercati”.

Il piccolo scrivano fiorenti­no, intanto, saltella giulivo e promette miracoli a destra e a manca. Ha biso­gno soltanto di mille giorni perché gli effetti benefici delle sue genialate possano dare i primi frutti. Intanto, un primo miracolo si è già compiuto: fino a qualche settimana fa diceva di aver bisogno di cento giorni per sal­vare l’Italia; e adesso, in men che non si dica, i giorni sono diventati mille. In attesa di moltiplicare i pani e i pe­sci, il Mattacchione nazionale ha mol­tiplicato i giorni.

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