I1 debito pubblico italiano ‒ abbiamo appreso in questi ultimi giorni dalla stampa ‒ ha toccato a luglio un nuovo massimo storico: 2.186 miliardi di euro. Oramai si parla di “massimo storico” ad ogni scadenza annuale, addirittura ad ogni scadenza mensile. Con una ipocrisia tutta italiana: fingendo, cioè, di credere che il prossimo anno o il prossimo mese potremmo non trovarci di fronte ad un nuovo record. Ricordo ‒ tanto per non restare nel vago ‒ la successione degli ultimi “massimi storici” del nostro debito: 2.090 miliardi a gennaio, 2.107 miliardi a febbraio, 2.120 miliardi a marzo, 2.146 miliardi ad aprile, 2.165 miliardi a maggio, 2.168 miliardi a giugno. A luglio ‒ come detto ‒ siamo a quota 2.186. E ad agosto ‒ apprenderemo dai candidi commentatori fra qualche settimana ‒ il nostro debito sarà cresciuto di un’altra manciata di miliardi.
Non potrà che essere così. E non sarà per colpa del Don Chisciotte della Tuscia, e nemmeno ‒ tutto sommato ‒ dei suoi più o meno arcigni predecessori. Sarà colpa principalmente della matematica.
Immaginate un imprenditore che abbia un debito verso le banche ‒ poniamo ‒ di 100 milioni; e che ogni mese, invece di decurtare il debito, si faccia prestare altri soldi per pagare gli interessi: come fa lo Stato Italiano, ogni mese, facendosi prestare del denaro a fronte del rilascio di cambiali,quali sostanzialmente sono i BOT, i BTP, i CCT e gli altri titoli del debito pubblico.
Cosa succederebbe a quell’imprenditore? Semplice: che, in capo ad un anno, non soltanto non avrebbe ridotto di un centesimo la “sorte capitale” del proprio debito, non soltanto continuerebbe ad essere debitore anche degli interessi, ma si troverebbe indebitato anche per i denari presi in prestito per pagare gli interessi (e per non avere revocata la linea di credito). Esattamente come lo Stato Italiano: che, pur riducendo all’osso le proprie spese, vede ogni anno crescere il debito accumulato: dal miliardo e mezzo circa di dieci anni fa, ai quasi due miliardi e due di oggi, alle cifre ben più pesanti che ‒ con questi ritmi ‒ avremo da qui a poco.
La differenza tra l’ipotetico imprenditore insolvente e lo Stato italiano è una soltanto: l’imprenditore sarebbe fallito nel giro di pochi anni; mentre lo Stato italiano (ma non soltanto l’italiano) continua ad indebitarsi ogni giorno di più, senza che la finanza usuraia ne determini ancora il fallimento o ‒ come si dice in omaggio ai nostri padroni ‒ il default. E più avanti vedremo perché gli sia consentito farlo.
Ma, andiamo avanti: gli organismi che sovrintendono al nostro sistema economico-finanziario (il Fondo Monetario Internazionale, l’Unione Europea, la Banca Centrale Europea ed altre troike del genere) ci impongono la “stabilità”; ci impongono cioè ‒ traduco per i benpensanti ‒ di ridurre il nostro debito ad una velocità folle: di circa 45 miliardi di euro all’anno e per venti anni di fila. Il diktat ‒ ricordo agli immemori ‒ è stato sottoscritto da Monti nel luglio 2012 e disciplinatamente ratificato in Parlamento dai partiti di cosiddetta destra e cosiddetta sinistra (vedasi il mio articolo “La Legge di Stabilità stabilizzerà solo la miseria” su Social del 19 ottobre 2012). Ora ‒ come nel caso dell’ipotetico imprenditore in difficoltà ‒ lo Stato italiano non ha questi ulteriori 45 miliardi annui da gettare sul piatto della bilancia, e deve quindi farseli prestare (attraverso BOT, CCT, eccetera). Con il risultato ‒ sempre in analogia all’ipotetico imprenditore ‒ che il nostro debito pubblico non potrà che aumentare e, come ben sa chiunque abbia familiarità con gli “interessi composti”, a ritmi sempre più veloci.
Dove, ogni anno, lo Stato italiano potrebbe trovare una parte (solamente una parte) di questi 45 miliardi? In due campi soltanto: in una del tutto improbabile crescita dell’economia nazionale, e nel drenaggio di fondi da reperire attraverso la fiscalità e/o la riduzione della spesa pubblica. Anche qui procediamo con ordine: l’economia nazionale potrebbe mai crescere in un sistema globalizzato, con merci cinesi o magrebbine o sudasiatiche che vengono prodotte a costi irrisori e immesse sul mercato mondiale a prezzi stracciati? Quali investimenti internazionali si potrebbero attrarre, quando anche i nostri industriali chiudono le fabbriche in Italia e “delocalizzano” in Romania o in Marocco?
Allora, non potendosi realisticamente prevedere alcuna “crescita”, i 45 miliardi annui da immolare sull’altare della “stabilità” possono essere cercati solamente nelle nostre tasche. O aumentando le tasse; ma siamo già al primo posto nella statistica mondiale dell’imposizione fiscale complessiva. Oppure riducendo la “spesa pubblica”; ma siamo già oltre ogni limite di tollerabilità, con la chiusura di scuole e ospedali, con le volanti della polizia senza benzina, con le regioni sull’orlo dello sciopero fiscale.
E allora, cosa succederà? Semplice: che pur effettuando una svendita degli ultimi gioielli di famiglia (le “privatizzazioni”) e pur accentuando la macelleria sociale (le “riforme strutturali”), i soldi per la “stabilità” dovremo farceli prestare dagli usurai (pardon: dai mercati) e, quindi, il nostro debito pubblico continuerà a crescere.
E continuerà a crescere più del necessario (si fa per dire), perché dovremo trovare altri 45 miliardi ogni anno per adempiere alla promessa montiana della “stabilità”. È un paradosso: il nostro debito pubblico aumenterà sempre di più e sempre più velocemente proprio perché ci siamo impegnati a ridurlo. La qualcosa ‒ e rispondo così alla domanda che avevo posto più sopra ‒ è quello che vogliono i “mercati”.
Il piccolo scrivano fiorentino, intanto, saltella giulivo e promette miracoli a destra e a manca. Ha bisogno soltanto di mille giorni perché gli effetti benefici delle sue genialate possano dare i primi frutti. Intanto, un primo miracolo si è già compiuto: fino a qualche settimana fa diceva di aver bisogno di cento giorni per salvare l’Italia; e adesso, in men che non si dica, i giorni sono diventati mille. In attesa di moltiplicare i pani e i pesci, il Mattacchione nazionale ha moltiplicato i giorni.