15 Ottobre 2024
Attualità Banche Finanza Rallo

Il debito pubblico: una truffa che non avrà mai fine

di Michele Rallo

Il debito pubblico italiano — nei disegni degli usurai internazionali — è destinato a permanere in eterno. Esattamente come il debito pubblico tedesco o americano o quello di qualsiasi altro Paese. Gli unici che potranno forse ripianarlo — e con fatica — sono gli Stati ancora proprietari delle proprie banche d’emissione: cioè addire la Cina e pochissimi altri. Come mai? Semplice: perché oggi — a conclusione di un lunga stagione di riforme “neoliberiste” del sistema bancario internazionale — le banche “centrali” che stampano il danaro (dalla FED americana alla Banca d’Italia ieri ed alla BCE oggi) non appartengono più agli Stati, ma alle banche private azioniste, spesso a loro volta possedute o partecipate dagli stessi soggetti che sono i manovratori degli hedge funds, delle agenzie di rating e di tutti gli altri dannatissimi apparati della speculazione finanziaria internazionale. Per sopperire alle proprie esigenze, oggi, le Nazioni non possono più battere moneta tramite una banca statale “d’emissione”, ma devono farsela prestare: o dalla banca “centrale” (cioè privata) di riferimento, o — sempre più spesso e più massicciamente — dai “mercati”, cioè dalle banche “d’investimento” straniere e dai fondi speculativi internazionali. Dietro corrispettivo — beninteso — di corposi interessi.
È questo il meccanismo per cui il debito pubblico non potrà mai essere eliminato, ma — ad andar bene — solamente ridotto. Siccome il denaro agli Stati lo prestano le banche e siccome gli Stati non possono crearne in proprio, questi potranno teoricamente restituire il denaro che hanno ricevuto in prestito (cioè il capitale iniziale), ma mai e poi mai una somma maggiore (capitale più interessi), perché tale somma semplicemente non esiste, non è stata mai messa in circolazione. Come — sia detto per inciso — ha brillantemente dimostrato il professor Cesare Padovani.

Perché, allora, il sistema finanziario internazionale (quello che impropriamente chiamiamo “le banche”) continua a prestare soldi ad un soggetto (nella fattispecie lo Stato italiano) che non potrà restituirli? Perché abilissimi finanzieri agiscono come non si sognerebbe di agire neanche il più sprovveduto tra i preposti bancari di periferia? Semplice: perché quei signori non mirano ai nostri soldi (semplici pezzi di carta a corso legale) ma alla nostra proprietà, ai nostri beni reali, alle nostre industrie pubbliche, alla nostra agricoltura, al nostro patrimonio culturale.

Il ruolino di marcia prevede che, ad un certo punto, i creditori “si accorgano” che il nostro debito continua a crescere, e ci chiedano di ridurlo. Come? Con i “sacrifici”, cioè con i licenziamenti, con le tasse, con i tagli alla spesa pubblica. Quando poi i sacrifici non dovessero essere più materialmente possibili (e siamo ormai a questo punto), allora ci si imporrà una sorta di commissariamento per spremerci anche le ultime gocce di sangue, come è già stato fatto ai danni della Grecia. Infine, ci si chiederà di pagare in natura: con i resti della nostra un tempo fiorente industria di Stato, con la nostra riserva aurea o, chessò, con il Colosseo o con l’isola di Capri. Sarebbe una seconda (e più crudele) stagione di “privatizzazioni”, dopo quella che i nostri governanti hanno allegramente attuato negli anni ’90 e che è servita soltanto a pagare qualche rata del nostro debito pubblico.

Già, perché un altro passaggio essenziale della truffa del debito pubblico è proprio questo: i proventi di dismissioni e privatizzazioni devono servire soltanto a pagare una fetta di interessi. Ma il debito — e non potrebbe essere diversamente — deve restare. Questo perché, come insegnano i fatti della cronaca nera, la vittima deve continuare ad avere quel filo d’aria che le consenta di sopravvivere e di rimanere sempre soggetta al ricatto degli usurai.

Fonte: settimanale Social (Trapani)

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