Apro il giornale – a quel tempo mio padre leggeva Il Messaggero ed io, prigioniero di un hegelismo fatto di facili citazioni (‘Leggere i giornali all’inizio della giornata è una sorta di realistica benedizione mattutina’), lo sfogliavo ingannato dall’idea sciocca e peregrina di poter così conoscere e interpretare le cose del mondo. Come se le cose del mondo potessero appartenere alle parole oppure, al contrario, sono proprio esse che, indicandole, ne danno senso e concretezza? L’incontro tra Romeo e Giulietta… Oh, Romeo, mi saresti caro per ciò che sei nonostante il nome che porti (sublime disvelamento del linguaggio del corpo). Apro, dunque, il giornale in una mattina come tante, credo, poco tempo dopo essere stato scarcerato. Non ricordo e mi duole non aver preservato la data esatta come se la memoria avesse stabilito collocarla là dove, simile al nulla, regna la dimenticanza.
Questo in una scarna notizia di cronaca non era detto. Va bene, però… Forse il braciere era ancora acceso al centro della tua stanza, che aveva proiettato ombre fluttuanti sulle pareti, nessuna delle quali a conforto né a risposta di quelle lunghe notti insonni e nella reiterata ossessiva inutile attesa della visione evocatrice e disvelante. Un’altra mattina, no, questa luce che mi nega ancora il volto di un dio di un capo, no, non posso tollerare il rumore della strada il riverbero della luce sui vetri mia madre che, angosciata e timorosa, bussa alla porta con la tazzina del caffè il sorriso stampato sul volto. No, è ora di prendere congedo, spiccare il folle volo. Oh dei, accoglietemi nella serenità del vostro sguardo e pietose braccia! Illuso di poter vincere il principio di gravità, il peso che pesa e tende verso il basso, spiccasti il salto dal davanzale della finestra, sesto o settimo piano di un caseggiato, quartiere africano, a ridosso dell’Aniene.
Inganno? Lo spirito, mai domo ed eterno sognatore, non possiede robuste solide ali per portare con sé la carne e le ossa e il sangue – nonostante ne abbia fatto sovente dispregio, il loro linguaggio, il corpo, sono la presenza che urge e s’impone… Così Mimmo se n’è andato poca cosa, mucchietto scomposto sull’asfalto, raccapriccio e disgusto dei passanti, presto sottratto alla vista ed al ricordo perché la morte va esorcizzata in un mondo schiavo di luminarie e caleidoscopi.
‘Verrà la morte e avrà i tuoi occhi./ Sarà come smettere un vizio,/ come vedere nello specchio/ riemergere un viso morto,/ come ascoltare un labbro chiuso…’.
Fabrizio de Andrè ne trasse una ballata, di quella morte che raccontava, pizza e birra nei pressi di via delle Botteghe Oscure, tanto l’atterriva. Così Mimmo se n’è andato poca cosa, ammucchiata tra fastidio e indifferenza, in attesa dell’auto-ambulanza con la sirena spiegata, solitaria e sconfitta protesta contro le canzonette a tutto volume e i clacson, disimpegno ed isteria. Così Mimmo se n’è andato, forse anzitempo – ma chi di noi ha la misura del proprio tempo per stabilirne confine ed esito? –, forse troppo in fretta, smanioso di accedere a ciò che è supremo ed ultimo, di cui si discettava tu già oltre io ancora esitante e insofferente…
Ho memoria delle opere di due giovani pensatori, Otto Weininger e Carlo Michelstaedter, entrambi suicidi a ventitrè anni con un colpo di pistola. Il primo puntando l’arma al cuore nella notte tra il 3 e il 4 ottobre del 1903, a Vienna, nella stessa abitazione ove era morto Beethoven. Il secondo alla tempia il 17 ottobre 1910, a Gorizia, in piazza Grande, dalla finestra la visione della fontana del Nettuno, divenuta piazza della Vittoria dopo il 1918. Aveva annotato il primo: ‘Il suicidio non è segno di coraggio, ma di viltà, sebbene esso sia di tutte le viltà la più piccola’. Del secondo rimando a Il dialogo della salute in quel passo dove Nino chiede la morte ‘Meglio allora vale levarsi per tempo e per propria volontà da un tale banchetto’ e Rino lo dissuade in nome di quell’uomo persuaso che ‘nel punto della salute consistendo ha vissuto la bella morte’.
Otto Weininger e Carlo Michelstaedter, entrambi ebrei e, come spesso accade, in conflitto con la propria origine – si pensi qui al caso famoso del filosofo Benedetto Spinosa –, tra preservare la propria identità e negarsi ad ogni suggestione altra ed esterna oppure immergersi nell’altro e nel diverso e rischiare di essere nulla, si legano alla mia vicenda personale e non soltanto di studi. Entrambi carcere di Regina Coeli, inizio anni ’70. Del filosofo goriziano ho scritto sovente, ricordando come Julius Evola lo citasse, nella sua fase speculativa, quale motivo di riflessione e con lui Nietzsche. E che fu da ciò la mia decisione di preparare la tesi di laurea dopo aver terminato gli esami e negatami dalla direzione penitenziaria l’autorizzazione di sostenerla su Max Stirner in quanto i testi in lingua straniera…
Chiedo di accedere alla biblioteca centrale, sita in uno dei torrioni, di cui si dice essere ricchissima di volumi, alcuni dei quali rari. Il tutto tramite obbligatorio prestampato, la ‘domandina’, che va compilato per ogni forma di richiesta e che cala, indiscussa e indiscutibile, con il suo sì o il suo no. Passano i giorni, forse una o due settimane, quando una guardia mi chiama mentre sono in cortile nell’ora d’aria. Mi comunica che mi è fatto divieto recarmici direttamente in quanto classificato GS (come la catena dei supermercati, ma qui sta per ‘grande sorveglianza’, segnalato con tanto di cartellino rosso e impossibilitato attraversare rotonde e cortili e bracci). Se lo desidero, però, ne posso avere qualcuno in prestito. Scelta da affidarsi al caso perché a mia richiesta, seccata, la guardia mi risponde che manca uno schedario. ‘Allora, me ne porti cinque chili!’, è la battuta (in)felice che mi viene spontanea e, sospetto, incompresa e non apprezzata. Riuscirò, dopo varie perorazioni, ad accedervi (privilegiati i bibliotecari fra cui conoscerò l’attore Walter Chiari, arrestato per una storia di droga). Troverò Ueber die letzen Dinge appunto di Weininger, pubblicato postumo e tradotto in Italia con il titolo Intorno alle cose supreme (ed. Bocca, 1923). Una successiva ristampa avverrà nel 1985, ed. Studio Tesi, e con titolo letterale Delle cose ultime.
Il più celebre Sesso e Carattere, in edizione del 1956, sempre per i Fratelli Bocca, l’avevo comprato nella libreria A. Rotondi, specializzata in questo genere di pubblicazioni (anche Rivolta contro il mondo moderno appartiene a quella libreria, inizio anni ’60). Ritrovo su un quadernetto, ormai ridotto a pochi fogli, questa citazione:
‘Se l’uomo non si fosse perduto nascendo, non dovrebbe cercarsi e ritrovarsi’. In che modo? Solo, come vuole l’intelletto, mediante se medesimo?
Ulteriore, estremo limite della sua presunzione… e, forse, Mimmo spiccò il volo perché, resosi stanco di un troppo pensare onnivoro e totalitario, volle confrontarsi con il Sé nella intierezza della carne. Produrre il vuoto interiore, raggiungere una tale diffusa leggerezza da trasmetterla al corpo e questi essere simile ad ali… (da una lettera di Enrico Mreule, amico e fra i pochissimi del Michelstaedter, datata 2 settembre 1909: ‘Solo una reazione mi resta ora: d’andarmene, di distruggere questo corpo che vuol vivere. (…) così sono ora freddo ora ardente, sempre sdoppiato, mentre una parte osserva scetticamente le incostanze dell’altra, ed ha sempre ed innanzi tutto chiaro il senso della propria umiliazione, della nausea’.
Il corpo e l’anima, per gli gnostici quest’ultima straniera e prigioniera di questa pesantezza che le impedisce di dimorare nel luogo suo originario. Come scrive Plotino:
‘Fuggiamo, dunque, verso la cara patria (…) Ma qual è. Dunque, questa fuga? Per quale sentiero risaliremo?’.
La conoscenza fu il prepotente richiamo a cui Mimmo non fu capace, non volle sottrarsi, dimentico di quel qui e di quell’ora che è, in definitiva, l’unica e apparente certezza. Il contingente, il fragile, il personale starci. Parole per rispondere a domande irrisolte. Albert Camus riconosceva quale unica libertà rimastaci il suicidio… Il senza-parole del non-senso. Oppure, come si conclude il processo a Socrate, ‘è giunta ormai l’ora di andare, io a morire, voi a vivere. Chi di noi vada a miglior sorte, nessuno lo sa, tranne il dio’ (poi Platone, nell’età matura, scrive il Fedone dando la risposta, quel gallo da offrire al dio Asclepiade e inaugurando la filosofia delle certezze contro quella del dubbio, dell’interrogare, del mistero irrisolto e che tale deve rimanere).
Ho pagato il debito a sì lunga dimenticanza? Ancora dalla memoria: l’acume e il coraggio. Sempre fra i primi ad intendere i tempi a venire; sempre fra i primi quando si andava allo scontro. E sempre, però, fra i primi a scoprirsi scontento e deluso. Cosa preservare? Mi rimangono le immagini della nostra amicizia e una copia del Gilles di Drieu la Rochelle. Mattina del 28 aprile 1967, esile piccolo nella statura naso aquilino occhiali. Salimmo la scalinata di Lettere, facendo a due a due i gradini, in gruppo a cuneo. A mani nude, decisa breve la rissa. In altra occasione ci picchiammo nei vialetti di Villa Borghese. Mimmo s’afferrò con un avversario più alto e più grosso, azzannandolo letteralmente ad una guancia. Le chiacchiere, poi, i tanti libri letti e che si commentava seduti sulle gradinate del Rettorato. E i pomeriggi, le serate al Piper Club, inaugurato allora da poco con Patty Pravo e i Giganti… Ti ho incontrato, da poco scarcerato, per caso, vicino piazza San Silvestro. Bevemmo qualcosa, fugace e rapido il colloquio. Ti trovai strano nel gesto e nella parola, ma non mi resi conto che ormai eri estraneo. Caro Mimmo, amico e camerata, eppure rimango fedele alla terra, rifiuto d’ogni idea pensiero forma tesa ad essere giustificante e consolatoria. Come Mishima mi dico che ‘la vita è troppo breve ed io vorrei vivere a lungo’ o in eterno? Quell’eterno che tu hai cercato guardando il cielo l’Aniene il davanzale della finestra…
Mario Michele Merlino