Un paese può prosperare, non solo in termini economici, a condizione che nei suoi abitanti sia viva e tangibile la memoria storica, che essi si sentono apparentati da un passato condiviso. Non è questo il caso italiano. Da tempo viviamo le atmosfere e i sentori di una guerra civile strisciante, a volte sopita, ma che in date circostanze torna a mostrarsi in modo virulento, intorbidendo i rapporti nella comunità nazionale. Tale situazione è il frutto di una cultura civile costruita sulla memoria “manipolata”, tendenza consolidatasi nel corso del secolo XX. Stante ciò, auspichiamo che la storiografia non partigiana, alla luce di documenti e di riletture critiche, possa finalmente svolgere un ruolo conciliativo. Qualcosa sembra muoversi, nel mondo delle patrie lettere, in tale direzione. Lo prova un recente volume di Enrico Tiozzo, allievo di Rosario Romeo e docente all’Università svedese di Goteborg, Matteotti senza aureola. Il delitto, edito da BastogiLibri, per il Centro europeo Giovanni Giolitti (euro 30,00). Si tratta del secondo volume di un’opera monumentale e organica, dedicata al leader socialista. Il primo volume è stato pubblicato da Aracne con il titolo, Matteotti senza aureola. Il politico.
Il libro è impreziosito da un interessante apparato fotografico, che consente al lettore di avere utile accesso alle “segrete cose” che connotarono le indagini successive all’assassinio di Matteotti e attorno alle quali si svolse il dibattito processuale. Aldo A. Mola, nella Prefazione, presenta al lettore le coordinate generali di cui è necessario tener conto per districare la matassa del racconto storico, piuttosto complesso. Entriamo nel vivo delle questioni che ci interessano. Tiozzo è certamente uno storico “revisionista”, nel senso che, come dovrebbe fare ogni studioso degno di questo nome, va alla ricerca di documenti e nuove prove sul caso. Si badi, egli non parte da una tesi preconcetta riguardo al delitto, da dimostrare con argomentazioni plausibili, ma “riordina pazientemente le tessere del mosaico, pone domande ed offre al lettore degli elementi affinché possa rispondere da sé o sospendere il giudizio” (p. 16). Definisce gli autori del crimine, senza infingimenti,“un pugno di picchiatori fascisti”, pertanto non può essere accusato di “depoliticizzare” il triste evento. Inoltre, la “banda” assassina è presentata realisticamente: raccogliticcia, impreparata, i cui membri non erano professionisti del crimine. Questi uomini si incontrarono e radunarono, sotto la guida di Amerigo Dùmini, in una camera dell’Hotel Dragoni di Roma. Loro intenzione, secondo le indicazioni del mandante Giovanni Marinelli, era quella di “sottoporre Matteotti all’umiliazione che avevano inflitto ad altri antifascisti” (p. 17). Il deputato avrebbe dovuto essere picchiato, magari sottoposto alla “terapia” dell’olio di ricino, al fine di intimorirlo.
Tiozzo individua tutte le lacune dell’indagine condotta da Mauro Del Giudice e da Guglielmo Tancredi e, dopo aver vagliato le diverse testimonianza rese, perviene alla conclusione che “il delitto fu un omicidio volontario[…] ma non fu un omicidio premeditato”, in cui giocarono un ruolo non secondario figure trascurate dall’inchiesta ufficiale, tra esse quella dello sbandato di origini austriache, Otto Thierschädl. Il processo, mal condotto, ebbe un clamore mediatico enorme e produsse la svolta politica che Mussolini mise in atto con il discorso del 3 gennaio del 1925, con il quale sancì il realizzarsi della dittatura in Italia. In questa fase, molti ex-fiduciari del Duce, la cosa è davvero interessante, fecero pervenire memoriali sul delitto ad alti dignitari massonici che “li usarono per denunciare le responsabilità indirette e dirette del presidente del Consiglio” (p. 21). Tra questi si distinse Cesarino Rossi, vicino a diversi ambienti di Loggia. Mussolini, da socialista aveva combattuto il potere della Massoneria nella vita dello Stato. Ora, conscio dell’affiliazione di molti “camerati” alle Logge, tra i quali Giacomo Acerbo, Italo Balbo e, forse, Dino Grandi (solo per fare qualche nome tra i tanti) assunse la decisione di sfidare l’opposizione interna e quella esterna, espressioni degli stessi ambienti, con il discorso del 3 gennaio.
E’ bene ricordare, con Tiozzo, che lo stesso Dùmini e Augusto Malacria, altro membro del gruppo del delitto Matteotti, erano affiliati alle Logge. Lo stesso dicasi per l’indagato Giovanni Marinelli. Pertanto, la “banda Dùmini” non può più essere presentata come la “ceka” del Viminale, ma come drappello armato di una certa Massoneria. Aveva, pertanto, ragioni da vendere l’antifascista Salvemini, nell’attribuire a Mussolini la responsabilità morale dell’assassinio, non quella penale o propriamente politica. Il Duce avrebbe dovuto essere, al contrario, il bersaglio politico del delitto. L’uso strumentale del delitto Matteotti ebbe, invece, l’esito opposto a quello sperato da chi lo ordì. Il rafforzamento politico di Mussolini e la conseguente normalizzazione del paese, accolta positivamente dal notabilato dei “costituzionali”, guidati da Giolitti e Soleri. Il Duce, il 12 febbraio del 1925 si affrettò a presentare alla Camera il disegno di legge che vietava l’appartenenza dei pubblici impiegati alle associazioni segrete, ritenuta incompatibile con la sovranità dello Stato. La Chiesa apprezzò, fornendo al fascismo il proprio appoggio, che Mussolini fu abile ad utilizzare per ottenere ulteriore consenso.
Chi avrebbe voluto colpire Mussolini, fu costretto dagli eventi a tornare nell’ombra per circa un ventennio, per riemergere teatralmente sulla scena politica solo il 25 luglio del 1943, al fine di perseguire l’obiettivo mancato nel’25: sbarazzarsi del Duce e della monarchia. Allo scopo, Matteotti fu presentato quale “martire” indiscusso della causa democratico-repubblicana. Questa volta, com’è noto, il progetto andò in porto. Prima di trarre conclusioni affrettate o di formulare giudizi poco affidabili sul ruolo della Massoneria, è bene tener presente la complessità della situazione. Infatti, dopo il 3 gennaio, alcune fratellanze massoniche, si affrettarono a “piazzare” loro uomini al fianco di Mussolini.Quando questi assunse l’interim del Ministero della Guerra, ebbe come sottosegretario Ugo Cavallero, affiliato alle due Comunità liberomuratòrie italiane. Il 10 luglio, il massone Giuseppe Belluzzo sostituì Giuseppe Nava all’Economia. Già nel corso del 1924, Balbino Giuliano, iniziato alla loggia “Valle del Chienti”, sostituì il “fratello” Dario Lupi quale sottosegretario alla Pubblica Istruzione. Ci fu, quindi, un articolato e diversificato posizionarsi degli esponenti delle Logge, nel confronto politico di quegli anni. Nella storia prevalgono, in genere, i toni grigi e intermedi, le scelte ambigue, piuttosto che la chiarezza ideale.
Il libro di Tiozzo segna una tappa significativa nel cammino ancora lungo verso la creazione di una memoria nazionale non manipolata e, ci auguriamo, finalmente condivisa.
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