“Il deserto cresce; guai a chi in sé cela deserti.”, Così inizia Zarathustra il suo dialogo con le figlie del deserto Duda e Suleika, seduto in una piccola oasi ombrosa. A quella frase pensavamo vedendo le immagini dell’insegnante siciliana scatenata davanti ai poliziotti con la birra in mano durante gli incidenti “antifascisti” di Torino. Quell’augurare la morte a voce spiegata gesticolando come una Erinni, quelle parole confermate a mente fredda davanti all’intervistatore ci sono parse oscene. Non troviamo un termine diverso. La categoria dell’oscenità ci sembra l’unica in grado di dare conto dell’odio incontenibile che sgomenta e fa crescere il deserto. L ’insegnante elementare di sostegno Lavinia Flavia – due bei nomi latini, degni dell’antica città siciliana di Piazza Armerina di cui è originaria, sede della villa romana del Casale – vive in un deserto spirituale che lascia sbigottiti. Non sappiamo se continuerà a educare dei bambini, raramente il verbo ci è sembrato meno appropriato. Speriamo di no, ovviamente, ma è il caso di ragionare intorno all’ondata di odio che si è abbattuta sull’Italia negli ultimi mesi. Non si tratta soltanto della diatriba allucinata su fascismo e antifascismo, la quale, per quanto amplificata dai media e alimentata dalle pessime prestazioni dei rappresentanti istituzionali, riguarda una piccola minoranza. Il fatto è che la campagna elettorale ha scatenato il peggio, spalancando le sentine di una nazione malata.
Mancava il detonatore, ed è stato come se qualcuno avesse aperto i tombini delle fogne e il lezzo avesse invaso all’improvviso le narici dei passanti. Troppi umori cattivi erano stati trattenuti a forza nella menzogna e nell’ipocrisia. I segnali erano molti e convergenti, poi sono capitati i fatti di Macerata, l’orrendo assassinio, con metodologie tribali e spaventose mutilazioni della giovane Pamela da parte di un branco di nigeriani spacciatori clandestini. Il Male Assoluto commesso dall’Altro Assoluto. Subito dopo, il raid di un disturbato mentale avvolto nel tricolore contro chiunque non fosse di pelle bianca per le strade della città marchigiana, ex isola felice della dolce provincia italiana. In un attimo sono saltati gli equilibri, tutte le contraddizioni della nostra società sono venute a galla. Un vulcano rabbioso sputa umori maligni, avanza e sparge odio, lascia senza fiato come la paura improvvisa per il primitivo rivelato, e la rabbiosa violenza di minoranze impunite e nichiliste rappresentate dallo sguardo torvo, dalle parole impazzite e dalla condotta ripugnante della maestra di Torino. Mezzo secolo fa cominciava tutto. A Valle Giulia, Roma, la violenza di un’altra generazione, adesso giunta all’autunno della vita, dava il segnale d’inizio del 68, della contestazione, del rovesciamento di valori che ha generato il deserto contemporaneo.
All’epoca, lo capì solo Pier Paolo Pasolini, l’intellettuale dannato che intuì il carattere decadente e profondamente borghese di quei tumulti. Figli ben nutriti in conflitto con padri ipocriti giocavano alla rivoluzione attaccando veri proletari, i ragazzi in divisa mandati dallo Stato a ristabilire un ordine precario, anzi a nascondere sotto il tappeto la polvere di un mondo in declino. Dopo cinquant’anni, il lavoro è compiuto, il deserto si è impadronito del territorio, Attila è passato e non cresce più erba. I nipoti concludono l’opera, ma non hanno in mente nessuna rivoluzione, nessun modello alternativo. Gli ultrà che chiamiamo centri sociali non sono altro che un grumo di ostilità invidiosa, illegalità diffusa, disadattamento, vite borderline nutrite di disvalori elevati a vita quotidiana; non hanno in mente un modello politico, non si muovono all’interno di un progetto preciso, neppure si dicono comunisti. In effetti non lo sono, poiché non lavorano per costruire una nuova società, ribaltare le enormi ingiustizie del presente. Immaginiamoli alle prese con l’undicesima tesi di Karl Marx su Feuerbach: i filosofi hanno finora interpretato il mondo in modi diversi; si tratta ora di trasformarlo. Immaginiamo le vertigini, gli sguardi smarriti, l’emicrania severa curata con canne e pasticche proibite.
Trasformare il mondo, già. A distruggerlo ci sono riusciti in gran parte, ma è ironico immaginarli a costruire qualcosa. Non ne hanno la tempra o la forza morale, e nemmeno la rigorosa preparazione ideologica, mossi come sono da un nichilismo di fondo che è sempre e solo “anti”. Anti– fascisti, No- Tav, anti-razzisti, anti-omofobi, anti tutto. Si definiscono esclusivamente in negativo, viandanti di un deserto senza oasi che abita soprattutto dentro di loro. Zarathustra vedeva lontano: guai a chi cela deserti entro di sé, poiché potrà soltanto generare altri deserti. Che Guevara, un mito per alcuni di loro, sarebbe inorridito vedendoli all’opera. Nel famoso La guerra di guerriglie, scritto all’Avana nel fatidico 1959 della vittoria castrista, il Che definisce il guerrigliero come avanguardia della lotta di liberazione, sottolineando quali tratti distintivi la disciplina interiore, contrapposta a quella formale ed esteriore, l’impegno socialrivoluzionario e le radici popolari. Nulla di tutto questo traspare nella condotta di Flavia Lavinia e dei suoi amici. Solo una rabbiosa estraneità a tutto, la spinta a distruggere, a gridare, sguardo febbrile, volto sfigurato dal rancore, vuoto morale, cupa disponibilità ad ogni esperienza. Inferni artificiali sostituiscono i paradisi dell’ennui, la noia metropolitana colta da un Baudelaire, l’estetica del brutto come condivisione mimetica del degrado.
Figli prediletti di pessimi maestri come Toni Negri e Michael Hardt, minuscoli granelli di sabbia di una pretesa Moltitudineintenzionata a ereditare, non a sovvertire l’Impero, mancano anche della tragicità di figure antiche come quelle luddiste. Guidati dal mitico NedLudd, distruttore di telai meccanici, i miseri operai inglesi cercavano di contrastarele macchine del primo capitalismo, già violento e predatorio, difendendo il magro salario conquistato tra fatiche immense nelle fabbriche le cui ciminiere William Blake definiva“dark satanicmills”, oscuri mulini diabolici.
I nostri eroi vogliono soltanto sedersi alla mensa del capitalismo terminale senza pagare il conto e, purtroppo, senza capire. Non dissimile è l’attitudine di alcuni nemici loro, fascistelli dell’Illinois con testa rasata, tatuaggi, aria trucida e vuoto pneumatico: sono come tu mi vuoi, cantava Mina e più recentemente Irene Grandi. Loro capetti, ingrigiti “camerati” prigionieri onirici degli anni settanta del secolo scorso. Anche in loro avanza il deserto. Ci sono, naturalmente, anche gli imprenditori del deserto: forze politiche, economiche e sociali che campano sulle contrapposizioni indotte, ed esibiscono finto perbenismo al popolo perplesso. Loro sono peggio di noi, suggeriscono dietro sguardi corrivi di riprovazione, scuotendo la testa e fregandosi le mani in segreto per aver vinto la partita dividendo il fronte avversario, mentendo spudoratamente, con l’arbitro venduto. Per loro, disgraziatamente, è sempre domenica, e poco importa se tanti anziani languono in dignitose povertà che diventano inedia, i giovani sono servi della gig economy, l’economia dei lavoretti, e a milioni vivono insicuri nelle proprie case, mentre farabutti dei cinque continenti scorrazzano per le strade da Bolzano a Siracusa.
E’ il risultato di una siccità morale che compie cinquant’anni. Dove esisteva una comunità con pregi e difetti, luci ed ombre, si è insediata una torva periferia esistenziale fatta di pietre sparse, rovi, rovine di edifici abbandonati, rari lacerti di civiltà ricoperti dai calcinacci del progresso impermeabilizzato. Dove sussisteva una forma, si è installato l’informe, il rizoma che tracima incontrollato. Mezzo secolo dopo il mitico Sessantotto, gli anni formidabili di Mario Capanna, Gino Strada, Emma Bonino e i suoi aborti con le pompe di bicicletta, eruditi alfieri del Nulla e pomposi maestri del Nuovo come Umberto Eco ieri e oggiil giovane Saviano, la missione è compiuta. Il deserto è qui e la maggioranza non se ne accorge neppure. Gonfia della retorica dei “diritti” individuali, ha smarrito il filo di quelli sociali e scambia la civiltà per assenza di giudizio critico. Tollera ogni cosa in quanto non crede in alcun principio. Un viaggio sui social media, turandosi il naso, fa comprendere più cose di mille trattati di sociologia. In occasione degli assalti “anti” di questi giorni, un commento ci ha colpito più degli altri. Nessun insulto, nessun odio esibito. Un professorino del pensiero debole giustifica la violenza citando Karl Popper: chi è contro la tolleranza, va spazzato via in quanto intollerante e nemico della “società aperta”. Aveva ragione Carl Schmitt: un uomo, un gruppo armato di “valori” è un potenziale assassino. Specialmente quando grande è la confusione sotto il cielo. Quindi la situazione è favorevole, parola di Mao TseTung, mito sanguinario della generazione i cui figli e nipoti sono la maggioranza di questo tempo bastardo. Bastardo perché confuso, miraggi nel deserto che tra una birra e un rutto citano Popper, liberale e liberista, ma brandiscono una bandiera rossa nell’indifferenza del popolo.
Una sola cosa hanno preso sul serio, vietato vietare. La conseguenza è la perdita di ogni ritegno, di qualsiasi residua umanità di fronte a chi impedisce loro qualcosa, come i poliziotti il cui dovere è difendere un minimo di convivenza ordinata. Signorini viziati li definì Ortega y Gasset all’alba della ribellione delle masse, gente che considera un affronto ogni limite o proibizione. Il loro nemico è il semaforo rosso che impone lo stop, riconoscono solo il deserto, odiano le oasi e la foresta che cresce silenziosa. Per questo avvelenano i pozzi e segano i rami dell’albero ai piedi del quale vivono, senza avvedersi del guinzaglio del padrone che li aizza. La rivoluzione, sosteneva Mao, non è un pranzo di gala, ma non ditelo a Lavinia e ai suoi compagni.
Roberto PECCHIOLI
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