«Sic volvere parcas» (“Così filavano le Parche”)
(Virgilio)
Una questione fondamentale
«Non sono mai riuscito a trovare in nessun libro o in nessun discorso del mio prossimo qualcosa che fosse abbastanza convincente da poterlo contrapporre anche per un solo istante al mio radicato senso della fatalità che governa questo mondo abitato dall’uomo». Queste parole di Conrad han sempre suscitato in me risonanze profonde. Spesso mi son ripetetuto quel che la Sibilla dice a Enea, «desine fata deum flecti sperare precando», smetti di sperare che, pregando Dio, cambi il destino.
Credo che tutti abbiano in sé l’idea di qualcosa che deve fatalmente accadere. L’avvenire appare a volte come qualcosa che nasce cammin facendo, tendenza latente e volubile, a volte come già interamente scritto. A tutti è capitato di passare, con una rivoluzione copernicana dello sguardo, da una visione egocentrica della propria vita a una fatocentrica e pensare “era scritto”. Prospettiva che, male afferrata, può gettarci in una condizione di totale impotenza o di filosofico nichilismo.
Il problema metafisico per eccellenza, a mio parere, non è infatti l’essere o la verità, ma la libertà. Destino e libertà sono compatibili? I Magi che indovinano dalla posizione degli astri la nascita del Salvatore, vi vedono anche una inamovibile croce, o Cristo è libero di seguire altre strade? Quando le streghe gli predicono l’imminente trono, v’è per Macbeth un’alternativa all’uccidere Duncan? Che la Terra sia rotonda, che sia il Sole a girarle intorno o viceversa, mi appare questione di poco conto rispetto al chiedersi: sono io a creare il mio destino o è il contrario? Perché crediamo che i nostri moti interiori e le nostre vicende sfuggano al rigore delle leggi che guidano il corso dei corpi celesti e governano i fenomeni naturali?
Considerazioni preliminari
Di fatto, nessuno sceglie liberamente di nascere, quando e dove, da quali genitori, d’esser maschio o femmina, uomo o scarafaggio. Succede però che, giunto a una certa età, dotato d’un corpo e d’un cervello di cui non sa quasi nulla, l’uomo si convinca d’essere l’artefice e il pilota della propria esistenza. Solo quando pensa ad eventi cruciali, agli incontri che gli hanno cambiato la vita, al morire, gli sale forse alle labbra la parola destino.
Il nostro senso comune poggia su un esistenzialismo – che potremmo dire tolemaico – così organizzato: a) io sono il perno intorno a cui ruota il destino, b) la vita è una piatta superficie di linee che vanno dal passato al futuro c) queste linee indicano una correlazione di cause che posso in certa misura controllare. Il fatalismo produce un ribaltamento di prospettive: a) è il destino il centro intorno a cui io giro in orbite invariabili, b) il futuro scorre verso il passato, rendendo manifesto qualcosa che è già scritto e che non posso mutare, c) la vita non è un piano lineare ma una sfera che contiene insieme passato, presente e futuro, e al cui interno tutto è già avvenuto.
C’è anche un fatalismo intermedio, che non contraddice la nostra abituale visione tolemaica dell’esistenza. Solo la depura della libertà umana, costringendola in uno schema meccanicistico per cui, una volta formata la linea del tempo e innescata la serie delle cause, tutto avviene in modo automatico e irreversibile. Teoricamente, disponendo di dati sufficienti, potremmo dunque prevedere il nostro futuro come si prevede un’eclissi o l’istante esatto in cui il Sole tramonterà.
Se la guardiamo pragmaticamente, si può dire che la questione è irrilevante, dato che, così come l’uomo è vissuto per millenni pensando che la Terra fosse piatta e che il Sole le girasse intorno, allo stesso modo non gli cambierebbe sostanzialmente nulla credere al Fato. Continuerebbe a fare le cose che ha sempre fatto, a cercar di soddisfare i propri desideri e di non soffrire. Per altro, potrebbe obiettare che, se si sente un essere libero, questo è il suo destino, e non gli serve indagare al riguardo. E avrebbe ragione. Tuttavia, è privilegio dell’uomo porsi domande inutili.
Il gioco fatale
Nel mio caso, il primo dubbio fatalista mi venne che ero ancora ragazzino, mentre giocavo a restà ‘n camisa. Così è detto dalle mie parti un gioco talmente elementare che un bimbo di tre anni potrebbe battere un genio della matematica. Si tratta di mescolare il mazzo di 40 carte, dividerlo esattamente a metà tra i due giocatori e poi, a turno, calare la carta che sta in cima al proprio mazzetto. Se è un asso, il nostro avversario ci dovrà cedere una delle sue carte, se è un 2, dovrà darcene due, se è un 3, tre. E lo stesso faremo noi se la carta dell’altro giocatore sarà un asso, un 2 o un 3. Si va avanti a giocare finché uno dei due non ha più carte, ovvero “resta in camicia”.
Un giorno, imberbe fanciullo, notai l’inflessibile e irrevocabile determinismo di quel gioco. Infatti i due giocatori non hanno alcuna possibilità di influenzare il corso della partita. L’esito è deciso a priori dalla combinazione casuale in cui le carte si trovano disposte all’inizio. Nessuna importanza hanno, come in altri giochi, l’intelligenza o la memoria, l’audacia, l’intuito, la capacità di bluffare. Tutto ciò che si deve fare è calare la prima carta, il resto è destino.
Giocavo con una vecchia prozia dall’animo candido. Si chiamava Eva. Aveva perso il marito in guerra. Costui era solito dire: “la pallottola che mi ucciderà non l’hanno ancora fabbricata”. Invece cadde in un’imboscata, in Albania. Era scritto che restasse vedova. Poi un giorno una telefonata le comunicò che il primo dei suoi tre figli, un ragazzo di 27 anni, era annegato. Destino. Ma quando giocava a camicia con me la zia sorrideva. Sembrava contenta di perdere, o rallegrarsi del fatto che fossi io a vincere.
Educare alla responsabilità
Il restà ‘n camisa mi rivelò l’occulta presenza del Fato. Mi chiesi se anche nella vita tutto fosse deciso in anticipo da un indifferente rimescolamento di atomi, da una meccanica successione di eventi rigidamente predeterminati, inevitabili. Solo un’aleatoria combinazione di semi, che non ha nessun nesso con la nostra volontà. Quel dilemma, che cupamente minacciava di abbattere dalle fondamenta il mio pensiero etico e religioso, non mi abbandonò più. Si mise a navigare, finendo con l’arenarsi nelle secche della metafisica.
In seguito imparai giochi in cui un residuo di elementi fortuiti – l’avere carte buone o cattive – era compensato dall’applicazione di virtù intellettuali, di facoltà mnemoniche e intuitive, giochi che educano alla logica e alla fiducia in sé stessi, dove l’esito della partita è una nostra responsabilità. Mi appassionai agli scacchi, dove la fortuna non ha importanza. Ma lo sconcertante enigma del restà ‘n camisa mi aveva ormai profondamente e irreparabilmente segnato. Quelle 40 carte, allegoria di un destino inesorabile, mi seguivano come ombre. Ora sembravano le leggi di un rigoroso determinismo cosmico, ora simboli dell’ineluttabile “volontà di Dio”.
Cominciai a pensare che se il destino è scritto, debba esistere un modo di leggerlo. Di fatto, la mente umana ha natura divinatoria. Ancor oggi, nonostante due secoli di positivismo, ci scorre nel sangue un passato di profezie, vaticini, oracoli, voli d’uccelli, viscere di animali, gusci di tartaruga, steli di achillea, fondi di caffè, sfere di cristallo, oroscopi, tarocchi, linee della mano, vaghi presagi, misteriosi presentimenti, e tutto ciò che può nascere dall’idea di un futuro prestabilito. Ufficialmente l’uomo moderno chiede alla scienza di scrutare il domani, ma la scienza è miope, mentre la fede e l’immaginazione vedono lontano.
Il fatalismo nel cristianesimo
Anche la nostra inveterata educazione religiosa giustifica questa propensione alla preveggenza. Nell’Antico Testamento troviamo centinaia di profezie, visioni del futuro, sogni premonitori. La venuta del Messia è predetta con secoli di anticipo, e Cristo è persuaso che lo attenda il martirio appunto perché così è scritto. Solo per un attimo cede a un dubbio umano: «Padre, se vuoi, allontana da me questo calice».Se vuoi. Dunque, neppure lui sa con certezza quale sia la volontà di Dio.
Un’ombra di scetticismo scivola forse sulle profezie cui ha sempre creduto. Forse spera in un destino condizionale, che ancora possa mutare. Eppure, lui stesso afferma che i capelli del nostro capo sono contati, predice il tradimento di Giuda, prevede che Pietro lo rinnegherà tre volte prima dell’alba, lasciando intendere che ogni cosa è prefissata. Così noi dovremmo credere che l’Apocalisse contenga una rivelazione di ciò che ineluttabilmente accadrà negli ultimi tempi. Ma se gli ultimi tempi sono già scritti, perché non i penultimi?
Si dirà che la preveggenza non avalla di per sé teorie predeterministiche. Infatti, posso prevedere in anticipo che se mangerai un piatto di Amanita falloide morirai, ma questo non ti priva della libertà di decidere. In effetti certe profezie sembrano condizionali, aver cioè valore di monito, di esortazione a una conversione della volontà e dei comportamenti. Tuttavia, nemmeno la nostra interiorità pare sottrarsi alla predestinazione. “Infatti, è Dio che produce in voi il volere e l’agire” scrive l’apostolo Paolo ai Filippesi. Esito coerente e radicale di questo pensiero è l’idea calvinista secondo cui è Dio a decidere con eterno decreto quale sarà la sorte dell’uomo, se sarà santo o reprobo, salvo o dannato.
Fatalismi classici
Il fatalismo non è però prerogativa di una tradizione giudeo-cristiana, è “quod ubique, semper, ab omnibus creditum est”, fenomeno ubiquitario e proteiforme. Per Omero, gli eventi “siedono sulle ginocchia degli Dei”. Tanto gli preme questo concetto che, tra Iliade e Odissea, lo ripete quattro volte. La tragedia greca crea il paradigma dell’uomo che sa d’esser sottomesso al destino, e che per questo emana un’aura di tragicità. Edipo conosce il suo fato, e invano cercherà di sfuggirgli. Dovrà uccidere il padre e giacere con la madre, perché l’oracolo l’ha predetto.
Le tre Moire (μοῖρα è “destino”) hanno l’ufficio di tessere, filare e troncare la vita dei mortali, ossia di deciderne l’inizio, il procedere e la fine. Il mondo latino ereditò quella figlie della Notte, chiamandole Parche. Gli antichi romani son fatalisti, ma credono, come i Greci, di potersi propiziare gli Dei – e quindi il destino – con rituali e sacrifici. Seneca, più severamente, cita lo stoico Cleante: il destino conduce chi lo asseconda, trascina chi gli si oppone (“ducunt volentem fata, nolentem trahunt”). Lo stesso concetto ritroviamo in Tacito: “quae fato manent non vitantur” (non si può sfuggire al destino) e più tardi, con più vivace forma, in Dante: “che giova ne le fata dar di cozzo?”.
Abhinavagupta, uno dei massimi filosofi indiani, vissuto nel Kashmir medievale, dice che accade solo ciò che Shiva, nella sua suprema libertà, ha deciso. A chi gli obietta: “allora, perché non starsene seduti senza far nulla?”, risponde: “se è questo che Shiva vuole, resterai seduto a far nulla. Ma se vuole che tu sollevi delle pietre, le solleverai”. Per Ibn ‘Atā’ Allāh, mistico egiziano del tredicesimo secolo, “non v’è respiro senza che Dio attui in noi un Suo decreto”. Perciò “è al culmine dell’ignoranza chi vuole che, nel tempo, accada altro da ciò che Dio vi manifesta”. Per chi crede nella Provvidenza, questo fatalismo è antidoto alla paura, balsamo per l’ansietà.
Anche il cosmo, col suo transito di astri e corpi celesti, par fissare in noi un destino. Quando nasciamo – ma secondo alcuni nell’istante del concepimento – l’universo imprimerebbe nelle nostre cellule una sorta di pellicola cinematografica. La nostra vita comincia così a srotolarsi, a proiettare le immagini registrate in lei. Qualcuno cerca di ammorbidire questo intransigente fatalismo dicendo che astra inclinant, non necessitant, o che il nostro Sé è spettatore distaccato. Ma di fatto restiamo attori che inconsapevolmente, scambiandolo per la realtà, recitano in un film dove dialoghi, scene, trama, i più insignificanti dettagli, tutto è già puntualmente prestabilito.
Fatalismi moderni
Senza approdare a prospettive metafisiche, anche la scienza moderna aderisce tuttavia a un fatalismo materialista, convinta di poter predire qualcosa che deve necessariamente accadere. A volte trova impossibile far previsioni certe solo per una pratica difficoltà, per il numero troppo elevato delle combinazioni possibili, delle variabili da prendere in considerazione. Come diceva l’abate Galiani, «il destino è una legge, il cui significato ci sfugge perché ci manca un’immensa quantità di dati». Disponessimo di un’illimitata capacità di calcolo, potremmo forse vedere che tutto è già lì, ordinatamente disposto lungo una linea prestabilita di cause ed effetti, come nel restà ‘n camisa.
Va ricordato anche quel fatalismo relativo, avvocatesco, che ammette la libertà della persona e tuttavia ne erode la responsabilità, attribuendo i suoi atti a cause esterne e indipendenti dalla volontà: l’educazione, l’ambiente, la società, la genetica, il sistema endocrino, gli accecamenti passionali, gli impulsi incontrollabili, denunciando un complesso di circostanze attenuanti che concorrono a rendere l’individuo vittima della fatalità, e quindi non colpevole, non punibile.
Comune ai nostri tempi è anche un certo fatalismo sociale, che si inventa “uomini del destino”, trascinatori di popoli, o che sostituisce l’antico “volere degli Dei” con le decisioni di occulti gruppi di potere. Pare così che nuove Moire tirino i fili delle nostre vite. Ed è forse questo il fatalismo peggiore, questa schiavitù cui siamo rassegnati, destino di cui impotenti ascoltiamo gli oracoli, cui speriamo di poter sfuggire perché non troviamo la forza e la dignità sufficienti per opporvi una ribellione doverosa.
Predestinazione vs. pro-destinazione
È possibile che il fatalismo, in ogni sua forma, sia una mera superstizione. Che prove abbiamo che un irresistibile potere ci sovrasti, oscuro manovratore delle vicende umane? Vi sono certo ipotesi più razionali per spiegare il corso degli eventi. Perché allora vidi l’ombra del destino in quel semplice gioco, giocato con una zia paziente, rassegnata al dolore? Era come l’eco, il ricordo di una verità dimenticata. Forse davvero la vita trascorre come un avvicendarsi di carte prestabilito e immodificabile, e noi oscuramente lo sappiamo.
Sarebbe allora la libertà la nostra vera superstizione, illusione necessaria per non cadere in un fatalismo morboso e annichilente. Per non ridurre la vita a qualcosa che esce dal nulla, momento dopo momento, senza il nostro consenso. Come il coniglio che uno sconosciuto illusionista tira fuori dal cilindro per le orecchie, o la colomba costretta magicamente a prendere il volo.
Perciò, quando il pensiero del fato mi assale, lascio che il senso comune mi venga in aiuto, nego d’esser predestinato. Semmai pro-destinato. Immagino cioè d’avere uno scopo da realizzare nella vita, una destinazione da raggiungere con le mie forze. Non si tratta di seguire una strada già fatta ma di crearla, di aprirsi un varco tra le cose. È forse ingenuo, ma perché una visione fatalista dovrebbe prevalere sul libero arbitrio? Perché dovrei sentirmi una marionetta legata ai fili del destino invece che un essere libero? Mi rifugio nel mio moralismo tolemaico, fatto di giusto e ingiusto, di galantuomini e malfattori che son tali per scelta.
Fatalità e karma
Con ciò, lo ammetto, non ho trovato una refutazione convincente alle parole di Conrad, al “radicato senso della fatalità che governa questo mondo”. In realtà, se lo osservo in modo logico, non vedo una soluzione. Il passato è immutabile, perché non è più. E credere di poter intervenire sul futuro è assurdo. Come potrei cambiare qualcosa che ancora non esiste? Non resta che il presente. Ma il presente è sfuggente, inafferrabile, si trasforma immediatamente in passato. L’unica confutazione possibile del fatalismo è dunque un eterno presente, immediatezza totale e senza causa, dove son raccolte tutte le potenzialità e tutte le attualità, tutti i semi e tutte le fioriture, dove tutto è sempre presente.
Comprendo allora che il problema del destino è il frutto di una coscienza divisa, che sente il tempo come ‘altro da sé’. È la perenne crux di un ‘io’ che percepisce come forze estranee persino le proprie strutture ontologiche, i propri processi fisici e psichici. Necessità e libertà si conciliano solo nella profonda coesione del sé, dove essere e tempo, spirito e natura, si fondono in una sostanziale e sincronica unità, in un’identità che rende l’idea di destino inutile duplicazione dell’idea di sé stessi.
Seguendo tale intuizione, posso vedere nell’idea del karma l’affermazione paradossale di un fatalismo responsabile. Da un lato devo necessariamente raccogliere i frutti delle mie azioni passate. Questa è la predestinazione cui nessuno può sottrarsi. Dall’altro mi è dato però di seminare il mio domani, e questa è libertà. Il mio ieri mi condiziona, forma in me coazioni a ripetere, tendenze – vāsanā, direbbe un indù – che rendono il mio avvenire in parte prevedibile. E quanto più vivo un presente meccanico, ripetitivo, inconsapevole, tanto più il mio futuro è già scritto. Ma questo non contraddice la mia libertà, perché “non ci accade nulla che già non ci appartenga intimamente”.
Queste parole di von Keyserling mi suggeriscono la soluzione del problema. O forse non esistono soluzioni, solo volontà in movimento, non catene deterministiche ma autonome determinazioni. Perciò prendo il libro della mia vita e cerco di correggerne i refusi, cancellare le parole inappropriate, cambiare stile. Tutto è scritto, ma io e il mio fato siamo un’unica cosa, ci co-implicitiamo. Allora il mondo diviene per me come l’Abbazia di Thélème, dove non si ha altra legge che la propria, e posso dire a me stesso: fa’ ciò che vuoi. Ciò non toglie che dovrò saldare i miei debiti con la vita, “e non ne uscirò finché non avrò pagato fino all’ultimo spicciolo”. Alla fine, temo, resterò in camicia. E andandomene porterò con me solo quell’inconsutile, rattoppata veste che è il mio destino.
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