Critiche? Molte se ne possono fare e se ne dovranno fare, oltre a quelle che, in genere, sono rivolte alla politica generale dei Fasci. E si critichi pure; ma si tratta di giovani, di anime generose, di gente che non è abituata alle sottili alchimie dei gabinetti prefettizi, ai patteggiamenti con la Loggia e l’Arcivescovado; che ignora il “calcolo”; è gente che lavora, rischiando quotidianamente la vita e che lavora gridando: «Viva l’Italia!». Bisogna prenderli come sono. Corrono per la campagna a brandire il loro verbo, con una fede e con un ardore che stupiscono gli stessi avversari. Promettono poco, ma i leghisti continuano a passare al Fascio perché quel poco che essi promettono si chiama: Libertà.
I.E. Torsello, Il tramonto delle baronie rosse (1921)
QUANDO LE LEGHE ROSSE PASSARONO AL FASCISMO
Tra il Dicembre del 1920 e il Gennaio 1921 fece il suo debutto un fenomeno nuovo nella politica italiana: lo squadrismo fascista. Dopo due anni di violenze di marca sovversiva, la voglia di reazione dell’opinione pubblica si concretizzò paurosamente in atti e fatti che non avevano precedenti nella storia d’Italia. In pochi giorni, per emulazione, in molti paesi dell’Emilia e della Romagna, ma anche della Toscana, presero a formarsi delle squadre d’azione, composte da fascisti, con il compito di porre un argine all’avanzata socialista. Piccole, ma determinate formazioni, mobili e spregiudicate, riuscirono incredibilmente ad imporsi contro le masse socialiste, sbaragliandole.
La novità dell’impiego “alla militare” – si trattava di giovani e giovanissimi, in gran parte guidati da Ufficiali della Grande Guerra, Volontari di Guerra, membri dei Reparti d’Assalto, decorati al Valor Militare – rappresentò la chiave del successo dello squadrismo. Le formazioni paramilitari avversarie, le Guardie Rosse, scarsamente addestrate, senza una strategia e senza una vera e propria funzione che non fosse quella dell’imporre il nuovo “ordine rivoluzionario” nelle campagne contro il padronato e i “nemici di classe”, non seppero assolutamente far fronte a questa novità. Novità, oltretutto, non compresa dai massimi dirigenti socialisti – da Turati a Gramsci, tanto per essere chiari – che davanti alla reazione fascista in atto parlavano esclusivamente di “guardia bianca” del sistema, semplici “ausiliari” dei Carabinieri che, durante il Biennio Rosso, si erano resi protagonisti di ben altri interventi repressivi il movimento, condendo tutto il 1919-1920 di vere e proprie “stragi di Stato”.
La novità venne, invece, subito compresa dal padronato. Nei due anni precedenti avevano armato dei vigilanti privati per far fronte alle violenze sovversive in atto, con scarsi successi, visti i rapporti di forza in campo. Ora lo squadrismo si poneva come un cuneo disgregante del potere massimalista, con risultati che lasciavano tutti esterrefatti.
Una precisazione, in questo caso, deve essere fatta. È assodato che tra gli agrari si annidassero veri e propri egoisti senza scrupoli, sfruttatori dei lavoratori, che nulla volevano cedere sul piano della dignità a chi chiedeva semplicemente patti più equi. È ovvio che questi personaggi difendevano in primis i propri interessi. Ma la problematica in atto nelle campagne non può assolutamente esaurirsi in questa visione classista e materialista della storia. Infatti, nelle campagne italiane si difendevano anche idee politiche – legittime in democrazia – che nulla volevano concedere alla rivoluzione bolscevica sbandierata dai massimalisti e, soprattutto, un sistema di valori spirituali, posti ben al di sopra della politica: quelli della religione e della Patria, costantemente vilipesi dai sovversivi in tristi e barbare “feste di piazza”. Senza contare che, insieme a tutto ciò, si difendevano anche le proprie aziende, oggetto di distruzione da parte delle masse in rivolta, e le proprie famiglie, entrate nel mirino delle Guardie Rosse con pestaggi, aggressioni, boicottaggi, se non direttamente con assassinii. È in questo scenario che si deve studiare la “saldatura” che si ebbe tra il cosiddetto “padronato” – in realtà semplici proprietari di terra, piccoli o grandi che fossero – e il sorgente squadrismo, portatore anche di istanze di rinnovamento sociale. Ovviamente, il fatto che gli squadristi scesero in campo tumultuosamente cavalcando la reazione in violente azioni repressive il movimento socialista, ha fatto passare in secondo piano la proposta politica che il fascismo avanzava nelle campagne, che pure c’era: il progetto della “terra ai contadini”, ad esempio, fece breccia nelle coscienze dei lavoratori molto di più che l’utopica e bolscevica “collettivizzazione delle terre” cui davvero in pochi erano interessati.
La saldatura tra agrari e squadrismo ha fatto nascere la famosa dizione di “fascismo agrario”, con cui si è bollato l’intero movimento squadrista, vedendo nei fascisti solo la “guardia bianca” del sistema, dei reazionari profumatamente pagati – “al soldo” – dell’Agraria. In realtà, come abbiamo accennato, la questione era tutt’altra, e dovette ammetterlo amaramente anni dopo anche Gramsci, quando arrivò a definire lo squadrismo un “movimento sociale”. Infatti, i fascisti che in quelle prime settimane del Gennaio 1921 intrapresero una vera e propria campagna di guerra contro il massimalismo, accettando la “sfida” lanciata dai sovversivi durante il Biennio Rosso, erano portatori anche di una visione spirituale della vita, che faceva di loro dei “missionari per la Patria”, disposti anche a morire coscientemente per questa missione da compiere. E ciò fece la differenza sul “campo di battaglia”. Nessun sovversivo era disposto a morire per uno sciopero, per un’occupazione della terra, per un rinnovo contrattuale, ma neanche – questo sia chiaro – per la rivoluzione che da due anni i capipopolo socialisti promettevano e mai si concretizzava. Gli squadristi partivano per ogni spedizione punitiva come se fosse l’ultima. E la guerra civile – teorizzata e scatenata dai massimalisti tra il 1919-1920 – scoppiò in tutta la sua drammaticità. L’elefantiaco “esercito rosso”, che fino ad allora aveva trionfalmente marciato senza trovare ostali – se non nell’occasionale intervento dei Carabinieri che non avevano esitato a sparare sulla folla in tumulto commettendo vere e proprie stragi -, trovò allora un altro esercito sulla sua strada. Un esercito determinato e pronto a tutto. E fu guerra. Senza quartiere. Dalla “crociata” per imporre il tricolore sui Comuni conquistati dal PSI e imprigionati in una visione di sovietismo, dalle spedizioni per smurare le lapidi che offendevano i caduti della Grande Guerra, si giunse alla guerra senza quartiere contro tutto e tutti, avendo come primo obiettivo la distruzione dei circoli politici ed economici del socialismo.
Questa descritta è una situazione che merita, però, un approfondimento, soprattutto per la proposta politica del fascismo di provincia che allora si imponeva in molte zone dell’Emilia e della Romagna. Già nell’Estate 1920, il fascismo di confine, quello giuliano, aveva fatto scuola. Dopo la distruzione del Balkan di Trieste, aveva aperto un Ufficio Italiano del Lavoro, per competere sul piano sindacale contro i socialisti. Del resto, la colonna portante del fascismo sansepolcrista, cosa che si dimentica spesso, era costituita da sindacalisti rivoluzionari che non avevano di certo dismesso il loro bagaglio ideologico, anzi. Passati ben presto al sindacalismo nazionale, infervorati dalla rivoluzione ideale e poetica lanciata a Fiume da d’Annunzio, nel 1921 si “incunearono” nello squadrismo, si “fecero” squadrismo, lanciando parole d’ordine, proposte politiche, una visione del mondo alternativa a quella delle Leghe rosse che dominavano nelle campagne.
Proprio in quelle prime settimane del Gennaio 1921, tornavano a casa i reduci di Fiume, portando con essi la voglia di rivincita e la visione di una rivoluzione sociale e nazionale da compiere. Per loro fu naturale “intrupparsi” nel fascismo e, quando questo ancora non avesse attecchito nei loro paesi, farsi essi stessi promotori della fondazione di Fasci e, soprattutto, di squadre d’azione.
È in questo clima che si registrò un fenomeno incredibile: il passaggio di molte Leghe rosse al sindacalismo fascista. Il primo clamoroso caso si verificò a S. Bartolomeo in Bosco, una una frazione del comune di Ferrara (distante dal centro urbano 14 km) di nemmeno 2.500 abitanti, famoso per i suoi frutteti. Qui viveva un reduce della Grande Guerra, l’unico del paese che non si era allineato al corso rivoluzionario intrapreso dalle masse, tale Alfredo Giovanni Volta, già boicottato dalla Lega per il suo “reazionarismo”. Era l’Agosto 1919.
Il Partito Socialista Italiano aveva trionfato alle elezioni del Novembre 1919. Su 617 elettori (affluenza alle urne pari al 68,4%), il PSI aveva conquistato il 80,5% dei voti, il PPI il 13,5% e il Blocco un deludente 6%.
Volta, inquadrando i reduci di sentimenti nazionali, tra cui l’Avv. Alberto Verdi, l’Avv. Giulio Righini e il Presidente della Sezione Mutilati, riuscì a costituire una Sezione dell’Associazione Nazionale Combattenti, con la quale rintuzzare le provocazioni sovversive, ricevendo un secondo boicottaggio, ossia la morte civile. Da qui, il passaggio alla lotta politica con la fondazione di un circolo monarchico-cattolico chiamato “Libertà e Patria”, il passo sarà breve. Il circolo fu fondato su iniziativa del Parroco Don Lorenzo Paparelli, anche lui reduce di guerra come Aiutante di Sanità negli Ospedali militari, per reagire all’azione dei sovversivi di S. Bartolomeo in Bosco[1].
Risultati pratici, però, nessuno. In premio un terzo boicottaggio per Volta. Il circolo si sciolse immediatamente a causa del boicottaggio che aveva duramente colpito tutte le famiglie degli aderenti.
I Volta denunciarono i sovversivi locali per i danni subiti dal boicottaggio, che gli avevano impedito di vendere il raccolto dei cocomeri, andato distrutto perché nessuno si trovò per la raccolta; e di concludere i lavori di costruzione di una fabbrica per mancanza di muratori. La Procura spiccò quindi un primo mandato di cattura per associazione a delinquere per i leghisti.
Volta non si fece intimidire e capì quale fosse la strada per contrastare il potere dei “rossi”: la creazione di un sindacato monarchico, svincolando così i lavoratori dall’obbligatorio rapporto con la Lega. Era il 20 Gennaio 1920. A lui si unirono in questa utopica battaglia altri del luogo come Lino Scaramagli, Virgilio Zabini, Ugo Volta, Daniele Zaramella, Ettore Benassi, Alfredo Zaramella e Gaetano Ascanelli. Altro premio: minacce di distruzione della sede del “circolo del Cristone” – chiamato così dai sovversivi perché sulla porta della sede del sindacato monarchico era affissa una effige di Gesù Cristo – e nuovo boicottaggio per il “pazzo irresponsabile” Alfredo Giovanni Volta:
[…] Decretiamo il boicottaggio contro il Volta e la sua famiglia, per quattro generazioni di seguito, ma che sia applicato in tutto il suo rigore, in modo di costringerli di morire di fame. Con questo intendiamo allontanare il Volta non solo dal paese e dalla provincia, ma dalla stessa Italia, affinché non abbia più a nuocerci. Riteniamo che egli non costituisca più pericolo alcuno per noi solo quando avrà varcato l’oceano per stabilirsi in America.
Decretiamo inoltre di stendere il boicottaggio alle famiglie di tutti gli altri componenti del club “Patria e Libertà” a meno che i capi famiglia non impongano e non riescano ad ottenere dai rispettivi congiunti le dimissioni dal circolo stesso.
[…] Nessuno può e deve soccorrere il Volta nemmeno in caso estremo[2].
Volta rimase da solo, circondato dall’odio dei sovversivi. Ma non mollò, fin quando, segretamente, nel Settembre 1920, venne costituito il Fascio.
Alle elezioni amministrative di quell’Autunno, Volta si fece alfiere del Blocco Nazionale che, in pochi giorni, cominciò a macinare consensi tra la popolazione di S. Bartolomeo in Bosco, stanca dei soprusi dei sovversivi. Fu così che la lista bloccarda riuscì a rimontare il terreno e, alla fine, addirittura a “pareggiare” nella sfida con il PSI: i dieci voti del 1919 erano diventati 250!
L’attivismo del Volta non passò ancora una volta inosservato, tanto che il 7 Novembre 1920 fu aggredito nella piazza del paese dai sovversivi e malmenato. Questa volta le Autorità non rimasero con le mani in mano ed intervennero contro i leghisti che, per non essere arrestati, si diedero alla latitanza, lasciando così S. Bartolomeo in Bosco.
Volta comprese che si era improvvisamente aperta una breccia nel potere dittatoriale dei “rossi”. I lavoratori non dovevano pagare per le violenze e le prepotenze dei capipopolo massimalisti. Quindi, pensò che la Lega non dovesse essere distrutta, ma lasciata in mano agli stessi lavoratori, liberi però dalla demagogia sovversiva e, magari, inquadrati e difesi dai fascisti. Fuori alla sede rossa fece quindi scrivere “Sindacato fascista”, ottenendo un corale apprezzamento. Il primo sindacato fascista in Italia!
Dapprima si ebbero dei colloqui con i lavoratori, poi con i dirigenti. Furono portate alcune copie de “Il Popolo d’Italia” per spiegare la vera azione del fascismo in Italia ai leghisti. Questi, convinti dal Volta, accettarono di partecipare all’inaugurazione del gagliardetto del Fascio di S. Bartolomeo in Bosco del 27 Febbraio 1921:
Ieri sono stati inaugurati qui due gagliardetti donati a questo nucleo fascista: uno (gagliardetto dai colori nazionali) dagli amici – un altro (gagliardetto nero con la scritta: me ne frego) dalle donne. I festeggiamenti assunsero fin dalle prime ore del mattino un senso di maestosità mai vista. In una mattina di Primavera e di sole centinaia di bandiere garrivano al vento da dare l’impressione che si salutassero a vicenda dopo tanti anni di forzata prigionia in soffitti e cassettoni. […] Ogni persona, ogni famiglia, ricca o pevera, borghese agraria, socialista risponde all’appello. Tutti siamo Italiani, tutti vogliamo sì il bene nostro, ma il bene supremo della Patria nostra che è bene nostro. È l’inaudito per i nostri tempi ma è la verità. Il paese è tutta una festa, tutta un’armonia, tutta una gioia. Tutti verranno ad udire la parola pacificatrice, tutti verranno a professarsi Italiani. E così è.
Le rappresentanze dei Fasci arrivati dai paesi limitrofi e da lontani rimangono stupefatti: entrano in un paese imbandierato, pavesato, festante in maniera incredibile: la gioia, lo stupore è sul viso di tutti.
[…]. Il Rag. Gaggioli debella i dirigenti socialisti con argomenti vibrati ed eleva alla Patria un inno che sgorga dal cuore del valoroso combattente con commozione profonda e tutti ci prende e ci fa urlare di gioia. Pilo Ruggeri è poderoso sfronda l’internazionalismo, abbatte la chimera russa, tocca punto per punto il problema economico e sociale italiano, dimostra con logica stringente la necessità del concetto di Patria davanti all’invasione commerciale straniera, dimostra evidente la necessità dell’accordo fra datori d’opera ed operai, si ferma sul concetto della terra a chi lavora e sul frazionamento dei terreni, dipinge le principali figure del Fascio, debella completamente il dubbio che il fascismo sia una trappola tesa dai padroni. Una ovazione interminabile lo saluta. La vittoria del programma del Fascio è completa. Gli agrari sono presto entusiasti di trattare direttamente con i lavoratori per affitti e compartecipazione, gli operai acclamano e si presentano a dichiararsi pronti ad abdicare all’avventiziato.
Poco rimane da dire a Marinoni che ha trovato nel Ruggeri un degno sostituto felice e fortunato: egli porge i saluti per la sua prossima partenza da Ferrara. Abbandonando il paese in festa i convenuti, si allineano, si intrappellano (sic) cantando gli inni fascisti. Sono migliaia di persone, sono centinaia di donne di tutti i ceti e di tutte le età, sono i socialisti della Lega rossa che portano, chi lo può credere?, la bandiera nazionale e sfilano tra due fitte ali di popolo acclamante, festoso […][3].
Il 28 Febbraio 1921, mentre a Firenze cadeva Giovanni Berta, si ufficializzava il passaggio della Lega rossa al sindacalismo fascista con un solenne discorso di Barbato Gattelli.
Al Fascio di S. Bartolomeo in Bosco – primo Segretario Alfredo Giovanni Volta – aderirono anche l’operaio Massimiliano Alberti, l’ex-Capolega e delegato comunale socialista Angelo Morelli, l’ex-Capolega Pasquino Pedriali, l’ex-Consigliere della Lega Antonio Vechiattini, l’ex-Consigliere della Lega Mario Giovanni Tartarini e l’ex-organizzatore delle Avanguardie Rosse Giuseppe Casarini.
Il 1° Marzo 1921, si convenne a un nuovo concordato tra lavoratori della terra e datori di lavoro, sotto la tutela fascista, che garantisse il lavoro a tutte le famiglie disoccupate della zona. Il Fascio inviò in paese Olao Gaggioli e Barbato Gattelli. Per prima cosa venne simbolicamente bruciata la bandiera rossa, innalzando al suo posto il vessillo nazionale.
Mercoledì sera [2 Marzo 1921], dopo gli imponenti funerali del fascista Edmo Squarzanti [di 15 anni, della Squadra “Celibano”, caduto in un assalto contro una sede sovversiva a Pincara (Rovigo), il 25 Febbraio precedente], il Consiglio della Federazione Agraria Interprovinciale si riuniva in plenaria seduta, presenti i fiduciari del Fascio e i rappresentanti del nuovo Sindacato operaio di San Bartolomeo in Bosco, e sanzionava in pieno accordo fra la maggiore cordialità, il patto agrario. I componenti la vecchia Lega, ora morta e seppellita, aderenti al programma fascista, sono fra uomini e donne, oltre 600. Ci viene raccontato un episodio nella riunione di Martedì a San Bartolomeo in Bosco che merita di essere conosciuto. Un operario chiese: «Se qualche proprietario terriero, a differenza della grande maggioranza aderente, come noi, pur essa al programma agrario del Fascio, dovesse “scantinare”, cosa dobbiamo fare?». «Mettete in azione un santo randello del Fascio!», risponde rudemente un fiduciario fascista. E l’operaio: «Oddio, un argomento non adatto per molti di noi…». E il fascista di rimando: «E chi ve lo dice che lo adoperiate voi? Datecene e al resto, in vostra legittima difesa, pensiamo noi». Stupefazione del lavoratore: «Toh! I nostri ex dirigenti – esclamò – ci mandavano avanti noi ed essi scappavano, questi del Fascio fanno alla rovescia: vanno avanti loro per tutelare il nostro diritto. Ma sapete che finora… gli altri ci avevano intrappolati bene?»[4].
Il fatto provocò non solo un enorme clamore ma, nei giorni seguenti, un fenomeno di emulazione che atterrì i dirigenti socialisti, impietriti dall’abbandono delle loro organizzazioni da parte dei lavoratori[5]. Tra questi, esterrefatto, l’On. Giacomo Matteotti, proiettato a Ferrara dopo l’eccidio di Castello Estense (20 Dicembre 1920) e messo a capo della Camera del Lavoro nella speranza di “parare il colpo” e preparare il terreno alla prossima… “rivoluzione”.
Il 12 Giugno, a Ferrara, si tenne il Congresso dei Sindacati Economici della provincia, organizzati dai Fasci. Si presentarono 400 delegati in rappresentanza di 50.000 organizzati. Possiamo solo immaginare lo stato d’animo di Matteotti…
Nel Marzo 1921, nel mentre si concretizzava il crollo delle Leghe rosse matteottiane e il loro passaggio ai Sindacati fascisti, scriveva il Senatore del PPI Giovanni Grosoli:
Il fascismo ferrarese per me è la risultanza, quasi direi automatica, della collaborazione di tutti gli elementi, i quali, senza distinzione di partito, dal 20 Dicembre ad oggi hanno iniziato e condotto questa crociata per la libertà. Chi vedesse in questo movimento soltanto una lotta contro il socialismo inteso semplicemente come partito politico, od una delle tante lotte economiche, non vedrebbe la realtà, la quale invece consiste in uno sforzo che ha lo scopo non di sopprimere il socialismo o la competizione di classe, ma di impedire la violenza del socialismo stesso, di distruggere la tirannia svincolandone tutti quelli che la subivano. Con questo, essenzialmente con questo, si spiega il favore incontrato dal fascismo soprattutto nelle nostre campagne, ove intere Leghe, affrancatesi dalla tirannia dei Capilega, sono passate in massa ai liberatori, cercando presso di essi un punto di appoggio per la riconquista della sospirata indipendenza. Ed è naturale, in siffatta condizione di cose e in tale atteggiamento degli spiriti, che questo concetto della liberazione abbia potuto raggruppare degli elementi così disparati e disseminati in tanto diversi campi politici. Una vera e propria crociata per la libertà[6].
Durante il Regime, sull’edificio che ospitò il primo Sindacato fascista venne affissa una lapide, distrutta nel dopoguerra per odio politico, meta di annuali celebrazioni:
Gli spiriti della guerra e della Vittoria
sgombrarono alle avanguardie del fascismo
il varco
a questa vecchia sede della Lega rossa.
Non fu distrutta.
Si dischiusero le sue porte all’aure della Patria
ove ebbe vita
il primo Sindacato fascista.
Costituito in S. Bartolomeo in Bosco il 28 Febbraio 1921
ad opera di Alfredo Giovanni Volta
Alfredo Giovanni Volta – Segretario del Fascio, Consigliere federale, Capo Zona, Seniore della Milizia – si sposò con Maria Calura nel 1937. Essendo in disagiate condizioni economiche chiese ed ottenne di essere inviato in Libia in qualità di Ufficiale di Cavalleria. Nel 1939, raggiunse la sede di Suq el Giuma, sulla costa, a cinque chilometri da Tripoli, dove portò anche la moglie e la primogenita Maria Luisa, di nove mesi. Conosceva bene il Governatore della Libia Italo Balbo, ma ben presto i rapporti tra i due si fecero difficili, in quanto Volta lo considerava un accentratore.
Nel 1940, arrivata l’età della pensione, si congedò e tornò a S. Bartolomeo in Bosco. Si ritirò a vita privata. Non aderì alla Repubblica Sociale Italiana nonostante fosse stato contattato da alcuni fascisti repubblicani di Ferrara.
Nel dopoguerra riuscì a salvarsi (anche grazie all’aiuto del Parroco di Don Lorenzo Paparelli) da vendette e aggressioni. Subì comunque le vessazioni dovute ai suoi trascorsi fascisti.
In buona sostanza dal 1940, lasciò la divisa e non partecipò più alla politica attiva, pur restando di fede fascista.
Il Tenente Colonnello Alfredo Giovanni Volta, Cavaliere di Vittorio Veneto, si spense nella sua San Bartolomeo in Bosco il 5 Maggio 1980.
Pietro Cappellari
Note
[1] Cfr. C. Pocaterra (a cura di), “Primo libro parrocchiale 1919-1948”, in AA.VV., Deo gratias! Mezzo secolo della nuova chiesa di San Bartolomeo in Bosco, Liberty House, Ferrara 2009, pagg. 7-8.
[2] Memorie inedite di Alfredo Giovanni Volta, 1928-VI. Cfr. anche G.A. Chiurco, Storia della Rivoluzione fascista. Anno 1921, Vallecchi, Firenze 1929-VII, vol. III, pag. 88.
[3] “Gazzetta Ferrarese”, 2 Marzo 1921, cit. in AA.VV., Deo gratias!, cit.
[4] “Gazzetta Ferrarese”, 4 Marzo 1921, cit. in AA.VV., Deo gratias!, cit.
[5] Cfr. P. Cappellari, Fiume trincea d’Italia. Il diciannovismo e la questione adriatica: dalla protesta nazionale all’insurrezione fascista 1918-1922, Herald Editore, Roma 2019, pagg. 502-506.
[6] Cit. in V. Caputo, L’insorgenza fascista ferrarese 1920-1921. L’eccidio del Castello Estense, Settimo Sigillo, Roma 2007, pag. 129.
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