PAGANI, CRISTIANI, EBREI…
LE ORIGINI DELL’INTOLLERANZA E DELL’ANTISEMITISMO
La storia dovrebbe essere quasi una scienza esatta. Nel senso che gli storici dovrebbero limitarsi a riportare i fatti; quelli veri e accertati, naturalmente. Ad altri (politici, commentatori, moralisti più o meno in buona fede) potrà essere lasciata una eventuale opera (aggiuntiva e non sostitutiva) di interpretazione. Va da sé che i fatti devono essere riportati tutti, perché una scelta – a monte – degli eventi da ricordare e di quelli da non ricordare è, di per sé, azione da falsario.
Prendiamo l’antisemitismo, per esempio. Se si cela la storia millenaria del fenomeno e se ne evidenzia – magari nel clima enfatizzato di celebrazioni politiche – solamente una singola fase, si fa opera di sostanziale falsificazione storica. Lo storico – ripeto – ha il dovere di riportare tutti i fatti. Spetterà poi agli “utenti finali” il trarre da essi i possibili insegnamenti per l’attualità o per il futuro, come anche il “pesare” eventuali crimini collettivi ed attribuirne la responsabilità a una parte o all’altra, o magari a più parti contemporaneamente.
Questo – naturalmente – in teoria. Perché, all’atto pratico, è sommamente difficile per lo storico accantonare del tutto le sue legittime opinioni, i suoi – talora giustificati – pregiudizi, la sua personale visione del contesto in cui sono maturati singoli eventi. Non si può dunque pretendere che lo storico, anche in perfetta buona fede, possa essere completamente imparziale, sterile, amorfo. Anch’egli è pur sempre un uomo in carne ed ossa, con le sue idee e le sue passioni, con le sue predilezioni e le sue contrapposizioni.
È però logico – almeno – esigere, pretendere che lo storico si sforzi di essere il meno parziale possibile. E quando dico “parziale”, mi riferisco sia alla “parte” politico-ideologica in cui milita; sia alla “parte”, alla porzione di fatti che egli propone al pubblico.
Ma ritorniamo all’antisemitismo. Anche se non tutto, certo una consistente parte di quanto ci viene proposto nelle varie “giornate della memoria” risponde a verità. Tuttavia, è molto più ciò che ci viene taciuto. Non negato – si badi bene – ma semplicemente “dimenticato”. Quasi che un invisibile “grande fratello” voglia convincerci che la storia dell’umanità sia stata un ininterrotto susseguirsi di rose e fiori fino all’arrivo di un certo Adolf Hitler, che prese a fabbricare lager e a sterminare ebrei. Finita la seconda guerra mondiale con il trionfo dei “buoni” – è il sottinteso di siffatte rievocazioni – il mondo è tornato libero e felice, e l’umanità si è riscoperta buona, tollerante e pacifica (come peraltro i fatti di questi ultimi anni dimostrano).
LA DISTRUZIONE DI GERUSALEMME
E, allora, ecco qualcuno di quei fatti che gli storici della domenica hanno provvidenzialmente dimenticato. Cominciando proprio dall’antisemitismo, forse il più intoccabile fra i tabù della società post seconda guerra mondiale.
Orbene, l’antisemitismo, anche nei suoi aspetti più violenti e crudeli, non è nato in Germania nel XX secolo, ma a Gerusalemme nell’anno 70 dopo Cristo; quando – al tempo della prima “guerra giudaica” – la Città e il Tempio vennero distrutti dai legionari romani, guidati dal futuro imperatore Tito. Non fu – quel conflitto – uno dei tanti fatti bellici dell’antichità, ma un’ecatombe: ben oltre un milione di morti, cifra enorme per l’epoca, di gran lunga l’episodio più sanguinoso di tutta la storia antica.
Da lì ebbe inizio la diaspora (cioè la “disseminazione”) degli Ebrei in tutto il mondo allora conosciuto; e quindi il loro riunirsi in “comunità” chiuse, che ne preservavano l’identità culturale e religiosa, ma anche quella etnica, razziale, l’orgogliosa rivendicazione di essere il “popolo eletto”, adoratore dell’unico vero Dio. Era l’intolleranza insita nel concetto stesso di monoteismo (e quindi comune al cristianesimo e più tardi all’islamismo) che cozzava con la tolleranza del politeismo pagano. Roma era pronta ad accogliere il Dio dei Giudei (come anche il Dio dei Cristiani) nel Pantheon di tutte le divinità; come già era stato fatto con gli Dei degli Egizi e degli altri popoli dell’Impero. Ma il rifiuto degli Ebrei, la loro pretesa che esistesse un solo Dio – il loro – e che gli Dei del mondo greco-romano fossero soltanto una finzione, li poneva in rotta di collisione con la società pagana e con la politica imperiale. Peraltro, gli Ebrei – contrariamente ai Cristiani – non volevano “esportare” la propria religione, perché non intendevano condividere con altre genti il privilegio di essere il “popolo eletto da Dio”. Le comunità della diaspora, quindi, erano società ermeticamente chiuse al mondo esterno e, quindi, anche al potere costituito dell’Impero Romano. Era questo rifiuto dell’integrazione, questo raffinato razzismo, questa avversione ai popoli gojim (cioè non ebrei) che faceva percepire le comunità israelitiche come estranee e nemiche da parte delle autorità romane; mentre gli Ebrei che ancòra restavano nella Giudea erano visti come una “nazione” che non accettava la potestà dell’Impero.
Tra alti e bassi, comunque, l’ebraica era dapprincipio riconosciuta come religio licita nell’Impero, arrivandosi all’ostilità dichiarata soltanto in un secondo tempo, quando a comandare a Roma saranno i Cristiani. Ciò non toglie, tuttavia, che la chiusura degli Ebrei alla società pagana generasse, fin dall’inizio della diaspora, una forte diffidenza da parte delle autorità imperiali. Diffidenza che talora sfociava in persecuzioni cruente; del tutto simili a quelle riservate ai Cristiani, meno chiusi, meno isolazionisti – diciamo così – ma parimenti monoteisti e perciò anch’essi considerati nemici dell’ordine costituito.
Le persecuzioni romane contro i Cristiani sono note a tutti, fanno parte della storia “ufficiale”, e non occorre quindi dilungarvisi. Assai meno nota è la persecuzione parallela contro gli Ebrei, accompagnata da altre due guerre giudaiche. L’ultimo di tali conflitti – fra il 132 e il 135 d.C. – spazzava via definitivamente quasi tutti i superstiti che non avevano abbandonato le terre israelite dopo la distruzione del Tempio. Da quel momento finiva la Giudea e nasceva la Palestina (Syria Palaestina); il popolo ebraico non disponeva più di una patria, ma soltanto dell’esilio babilonese e degli altri rifugi della diaspora. Fino a quando, quasi duemila anni dopo, il ministro degli esteri di Sua Maestà Britannica prometterà loro un “focolare” in Palestina. Da quel momento inizierà un’altra tragedia, che dura ancòra ai giorni nostri. Ma questa è un’altra storia.
L’ACCUSA DI DEICIDIO
Torniamo all’antichità. L’ostilità del mondo romano era ben poca cosa al confronto di quella che agli Ebrei giungeva
dal mondo cristiano. Non sùbito (a parte qualche episodio di crudele fanatismo) ma soprattutto dopo che i Cristiani erano riusciti, in un tempo relativamente breve, a prendere il sopravvento nell’Impero. Mentre i Pagani, infatti, avrebbero voluto costringere gli Ebrei ad integrarsi, i Cristiani semplicemente li detestavano e li odiavano, perché li consideravano responsabili come popolo dell’uccisione di Gesù Cristo; lo stesso loro peregrinare per il mondo, le stesse persecuzioni che talora l’accompagnavano, tutti i tormenti e le disgrazie che affliggevano quella gente sfortunata, erano visti dai Cristiani come una punizione collettiva inflitta da Dio per vendicare la crocefissione del suo Figlio.
Certo, ai Giudei era consentito di convertirsi, di diventare Cristiani, e di lavare così quella sorta di secondo peccato originale. Ma quanti non accettavano l’abiura erano sostanzialmente demonizzati: accusati di “deicidio” e condannati moralmente: in blocco e senza scampo. E non soltanto perché i loro padri avevano condannato a morte il Messia, ma anche perché avevano respinto la Salvezza e s’erano quindi vocati alla perdizione eterna. I Romani, invece, avevano accettato Cristo (editto di Costantino del 313 d.C.); e solo per questo – benché oggettivamente corresponsabili del deicidio – non erano accomunati agli Ebrei nella medesima inappellabile condanna.
Comunque, dopo che l’editto di Costantino il Grande aveva formalmente introdotto la libertà religiosa, questa iniziò rapidamente ad essere disattesa a pro di un cristianesimo totalizzante, da parte dello stesso Imperatore e, in misura crescente, dei suoi successori; e ciò mentre nelle contrade dell’Impero si moltiplicavano i disordini anti-pagani fomentati da bande di fanatici cristiani, spesso protagonisti di distruzioni di templi ed edifici legati agli altri culti (distruzioni del tutto simili a quelle che ai giorni nostri sono messe in atto dai seguaci dell’islamismo fondamentalista).
Poco più di mezzo secolo dopo l’editto di Costantino, nel 380 l’imperatore Teodosio I emanava l’editto cosiddetto di Tessalonica, che faceva del cristianesimo la religione ufficiale dell’Impero Romano. Da quel momento, la persecuzione anti-pagana compiva un salto di qualità: non più lasciata al fanatismo di gruppi più o meno numerosi di fondamentalisti, ma adesso oggetto di una regolare legislazione. Era lo stesso Teodosio, alcuni anni appresso, ad emanare una serie di decreti che sancivano ufficialmente il passaggio dalla relativa tolleranza costantiniana ad una totale intolleranza nei confronti dei culti non cristiani: non soltanto contro i Pagani, com’è noto; ma anche contro gli Ebrei (la “empia setta”) e contro gli Ariani e gli altri eretici cristiani. Agli Ebrei, comunque, era consentito di mantenere la loro fede (beninteso, senza avversare i Cristiani). Cosa che era invece negata ai Pagani, cui erano vietati i sacrifici alle divinità, l’omaggio ai simulacri, l’ingresso ai templi ed ogni altro atteggiamento devoto, anche nel chiuso della propria casa. Erano proibiti i matrimoni misti (specie nel caso di maschi infedeli con donne cristiane), mentre la conversione di Cristiani ad altre confessioni religiose era punita severamente; tuttavia, meno severamente di quanto (ormai solo teoricamente) prevedesse la legge rabbinica, che contemplava anche la pena di morte per gli Ebrei apostati. In analogia – aggiungo per inciso – con quanto, due millenni più tardi, sarà praticato dai sostenitori più estremi di un’altra religione monoteista.
Conseguenza diretta dei decreti teodosiani era un’altra ondata di stragi e distruzioni, spesso incoraggiata dalle autorità civili e religiose, che utilizzavano le bande di fanatici per portare a termine quello che oggi si definirebbe “il lavoro sporco”. Venivano distrutti – fra gli altri – il Tempio di Artemide ad Efeso, una delle sette meraviglie del mondo, ed il Serapeo di Alessandria, l’ultimo edificio della biblioteca che aveva riunito i “rotoli” che custodivano tutto il sapere del mondo antico. Peraltro, nei disordini di Alessandria trovava una morte orrenda la filosofa e scienziata ellenista Ipazia, fatta a pezzi dai monaci parabolani – sembra – con la benedizione del vescovo Cirillo, poi proclamato Santo. Non si attenuava – frattanto – la predicazione antigiudaica dei Padri della Chiesa: da San Giovanni Crisostomo (con le sue omelie “Contro i Giudei”) a Sant’Agostino (da molti ancor oggi considerato il massimo Dottore della Chiesa).
LA SANTA INQUISIZIONE
Alla fine del V secolo, comunque, il paganesimo era oramai debellato, mentre dalle ceneri dell’Impero Romano d’Occidente nasceva il Medio Evo. Impossibile – naturalmente – anche soltanto accennare alle dinamiche politiche della nuova epoca, ai nuovi contrasti (fra Occidente ed Oriente, fra Imperi e Papato, fra potere imperiale e nascenti Regni nazionali), ai nuovi equilibri e ai nuovi disequilibri che si affacciavano sul palcoscenico della storia.
Lo spazio tiranno consente solo alcune brevissime considerazioni: prima fra tutte, quella che la tolleranza degli
antichi culti politeisti fosse oramai definitivamente tramontata e che a dominare incontrastata fosse adesso l’intolleranza di chi riteneva di agire in nome dell’Unico Vero Dio. Agli “altri” erano riservati i rigori della persecuzione: agli Ebrei, in modo articolato; ai Musulmani, contro cui i Papi promuovevano ben nove diverse Crociate; agli eretici di ogni tipo, fatti oggetto talora di genocidi compiuti o tentati (dai Catari ai Valdesi, agli Hussiti); ai semplici dissenzienti, come i Templari.
A tutti costoro erano riservate le attenzioni di quell’abominio che fu la Santa Inquisizione, rimasta in vita praticamente per tutta la durata del potere temporale dei Papi. Dipendente direttamente da quello che poi si chiamerà il Santo Offizio (ma talora anche delegata ai sovrani di alcuni Regni “cattolicissimi”), l’Inquisizione aveva diritto di vita e di morte – ma anche di tortura – su tutti i fedeli: era infatti “sacra, romana e universale”. Ufficialmente, l’istituzione era diretta a “estirpare” gli eretici cristiani, ma ben presto estese la sua giurisdizione a chiunque fosse accusato di comportamenti anomali (famosa la “caccia alle streghe”) e pure ai fedeli di altri credi che offendessero la fede cattolica, anche soltanto con il possesso di un libro messo all’indice. E giacché ogni pio ebreo non si separava mai da una copia del “Talmud”, ecco che la Santa Inquisizione divenne assai presto strumento di persecuzione antigiudaica. In particolare, la crudelissima Inquisizione Spagnola – guidata dal tristemente noto Torquemada – fu utilizzata come mezzo per costringere gli Ebrei (ma anche i Musulmani) ad abbracciare la religione cattolica. Tutti gli ebrei non convertiti, infine, in numero di oltre 200.000 furono espulsi in blocco dalla Spagna nel 1492, l’anno della scoperta dell’America.
Né si creda che l’intolleranza antiebraica fosse minore nelle altre confessioni cristiane. Fin dal suo nascere, il protestantesimo era connotato dalla violenta invettiva di Martin Lutero (“Contro l’odioso e maledetto popolo dei giudei”). Quanto alla Chiesa Ortodossa, questa era meno permeata di giudeofobia rispetto alla Cattolica, ma certo non esente. Vero è che i più antichi focolai di antigiudaismo nell’Europa Orientale fossero nelle enclaves cattoliche, soprattutto in Polonia e in Lituania. Ma, più tardi, la Russia, l’Ukraina, la stessa Romania daranno vita ad alcuni tra gli episodi più odiosi e più crudeli dell’intera storia dell’antisemitismo: i pogrom, sanguinose rivolte popolari che si estrinsecavano nella devastazione dei quartieri ebraici di città e villaggi e nella strage degli abitanti.
CONCLUSIONE
Quella che precede non è certamente una storia delle origini dell’antisemitismo, ma soltanto il susseguirsi di qualche pennellata. Sufficiente, tuttavia, a mostrare come la Storia sia qualcosa di infinitamente più complesso e articolato rispetto alle veline che ispirano i libri di testo e i talk-show televisivi.
Certo, si stenta a credere che una parte ragguardevole del pregiudizio anti-ebraico derivi da quella medesima Chiesa Cattolica che è oggi – in persona soprattutto del suo ultimo Pontefice – protesa in un fraterno abbraccio verso la religione israelita.
Eppure, tutto quanto precede è non soltanto vero, ma anche noto a tutti gli storici. Semplicemente – come dicevo all’inizio – tanti fatti sono stati soltanto dimenticati, sacrificati sull’altare del “politicamente corretto”. Nel riportarli all’attenzione dei lettori sono stato abbastanza imparziale? O mi sono lasciato prendere la mano dal mio essere modernamente eretico? Non so, non giudico me stesso. Ma, laicamente, invito i lettori a farlo.
IL FASCISMO E GLI EBREI
Al di là della propaganda: alcune verità scomode
Forse alcuni fra i lettori ricorderanno un mio articolo di qualche tempo fa: «Pagani, cristiani, ebrei… le origini dell’intolleranza e dell’antisemitismo», pubblicato su “La Risacca” del maggio 1916.
Il pezzo trattava del contrasto generato dall’irrompere di cristianesimo ed ebraismo nella società romana e pagana dei primi secoli dopo Cristo e, successivamente, dalla marcata ostilità della Chiesa (fino alle persecuzioni e alle stragi) contro gli ebrei e l’ebraismo. In pratica – era la tesi di fondo – il pregiudizio antisemita non è stato una invenzione di Adolf Hitler, ma un fenomeno antichissimo, dovuto in primo luogo alla dichiarata inimicizia delle Chiese Cristiane – e della Cattolica in particolare – verso gli ebrei, considerati collettivamente, come popolo, responsabili della morte di Gesù Cristo.
Orbene, questo pre-giudizio (sbagliato come tutti i pre-giudizi) è stato la base di tutte le manifestazioni di antisemitismo nella storia europea, ivi comprese le più crudeli: dagli autodafé della Santa Inquisizione ai pogrom della Russia zarista, alla shoà della Germania nazista.
È certamente fuorviante, dunque, il tentativo di cancellare due millenni di antisemitismo dalla storia europea, riconducendo il fenomeno all’ascesa al potere di Hitler in Germania. Ed ancor più fuorviante – se possibile – è quella operazione di falsificazione storica che vorrebbe attribuire al regime fascista italiano delle corresponsabilità nella politica antisemita del regime nazionalsocialista tedesco.
* * *
Tutto ciò premesso, va detto che, in origine, il fascismo italiano non era assolutamente antisemita. Per un motivo semplicissimo: perché la società italiana del tempo, ancora intrisa dei valori laici del Risorgimento, non era antisemita. Nell’ambito fascista – vedremo più avanti – l’antisemitismo era esclusivo appannaggio di una esigua componente ultra-cattolica. E, questo, anche dopo il Concordato con la Chiesa (1929), fino alle leggi razziali (1938) e, in misura minore, anche dopo.
In Italia l’antisemitismo moderno – quello successivo alla Santa Inquisizione – risaliva allo Stato Pontificio ed al potere temporale dei Papi. In quel periodo erano state adottate odiose misure discriminatorie nei confronti degli ebrei: la quasi-carcerazione nei ghetti, il berretto giallo (precursore assai più vistoso della stella gialla nazista), la solenne cerimonia annuale nel corso della quale il rabbino-capo di Roma riceveva un umiliante calcio nel sedere, a simboleggiare l’ostilità della comunità romana. Le discriminazioni erano cessate definitivamente solo nel 1870, per volontà di quella vituperata dinastia Savoia che aveva creato lo Stato Nazionale (contro la volontà del Papato).
Il regime fascista, figlio di quella stessa Italia laica, liberale e nazionalista[1] che aveva fatto il Risorgimento, non scaturiva quindi da una cultura antisemita e non era antisemita. Fino al 1938, l’Italia di Mussolini non aveva mostrato nessuna ostilità nei confronti degli individui di religione ebraica, che erano parte integrante dell’apparato fascista.
Dopo aver contribuito alla rivoluzione delle Camicie Nere, sia con i “martiri fascisti” (Duilio Sinigaglia, Gino Bolaffi e Bruno Mondolfo) che con generosi finanziatori (Elio Jona e Giuseppe Toeplitz), gli ebrei italiani avevano successivamente concorso a costituire l’ossatura burocratica del regime: dal Governo centrale (con il ministro Guido Jung e con il sottosegretario Aldo Finzi) alle Colonie, dalle forze armate alla polizia, dal Gran Consiglio del Fascismo alla Milizia, dalla stampa di partito (con Margherita Sarfatti ai vertici di “Gerarchia”) a tutti gli ambiti della cultura politicamente impegnata (ivi comprese le istituzioni ufficiali della “cultura fascista”)[2]; per tacere dei rapporti che attenevano alla sfera privata di Benito Mussolini[3].
Peraltro, dal 1930 (all’indomani del Concordato con la Chiesa Cattolica) vigeva in Italia la cosiddetta Legge Falco, venuta a regolare – con reciproca soddisfazione – i rapporti fra lo Stato e la comunità israelita.
Le uniche asperità antisemite del regime erano ascrivibili alla piccola pattuglia reazionaria ispirata ad una vecchia “estrema destra” prefascista che attingeva a piene mani dall’unica tradizione anti-israelita italiana: quella di un cattolicesimo zelante e ultramontano che aveva avuto il suo momento di maggior fortuna all’epoca della Restaurazione e della Santa Alleanza.
Inoltre, dopo l’avvento di Hitler in Germania (1933), alcuni ristretti circoli del radicalismo fascista si erano
improvvisamente scoperti filotedeschi ed antisemiti; ma la disapprovazione di Mussolini (che non faceva mistero di una marcata diffidenza) ne aveva limitato il raggio d’azione.
Se si eccettuano, quindi, alcune posizioni nettamente minoritarie e circoscritte, il rapporto del fascismo con l’ebraismo italiano (ma anche con il sionismo internazionale) continuava ad essere buono; anzi, più che buono. Gli ebrei – tranne una percentuale fisiologica di oppositori[4] – continuavano a sostenere il regime, la sua politica, le sue idee ed anche le sue guerre, da quella d’Etiopia a quella di Spagna.[5] E il regime, dal canto suo, riconosceva ed onorava questo impegno: per esempio, concedendo la medaglia d’oro alla memoria al gerarca ebreo Alberto Liuzzi, caduto a Saragozza nel marzo 1937.[6]
Né l’atteggiamento positivo del regime era circoscritto all’àmbito italiano: vi furono contatti amichevoli (e talora anche incontri ufficiali) del Duce con esponenti del movimento sionista internazionale: quelli assai noti con Chaim Weizmann e con Nahum Goldmann, e quelli meno noti ma più significativi con Vladimir Jabotinsky, capofila di quel sionismo revisionista che avrebbe potuto essere una sorta di fascismo ebraico.[7]
Inoltre – come ricorda Maurizio Cabona – il regime italiano aveva dato ospitalità (e talora assicurato anche autorevoli tribune culturali) a numerosi ebrei in fuga dalla Germania hitleriana.[8]
Vi era, infine, il robusto movimento degli ebrei italiani antisionisti che si riconoscevano totalmente nel fascismo; questo movimento era guidato da Ettore Ovazza e si raccoglieva attorno al settimanale “La Nostra Bandiera”.
Per contro, altri settori dell’ebraismo straniero (e in primo luogo determinate centrali finanziarie, intellettuali e giornalistiche facenti capo ad ambienti israeliti anglo-americani) manifestavano una totale ostilità nei confronti del regime fascista italiano. E il regime ricambiava esplicitamente l’ostilità di quei circoli, da molti identificati – a torto o a ragione – come il vertice di un “ebraismo internazionale” (o di una “internazionale ebraica”) che si sovrapponeva ed egemonizzava il movimento sionista.
Questa situazione permaneva fino alla vigilia dell’Anschluss austriaco, se è vero com’è vero che, nel febbraio 1938, Mussolini dichiarava, ancora una volta[9], che in Italia non esisteva alcuna forma di antisemitismo.[10] E ciò – si badi – nonostante la marcata, preconcetta, astiosa ostilità del summenzionato “ebraismo internazionale” verso le guerre italiane in Africa e in Spagna.
In effetti, questo era un ulteriore elemento discriminatorio tra le politiche antisemite “di Stato” tedesca e italiana: i tedeschi consideravano nemici indifferentemente tutti gli ebrei di tutti i paesi del mondo; gli italiani, invece, riservavano la loro ostilità soltanto ai loro avversari reali, rifiutandosi di mettere sullo stesso piano i potentati economici della “internazionale ebraica” e la generalità degli incolpevoli (e spesso benemeriti) cittadini italiani di religione israelita.
N O T E
[1] I concetti di liberalismo e nazionalismo vanno intesi, naturalmente, nella loro accezione ottocentesca.
[2] Per rendere l’idea della fedeltà fascista di alcuni qualificati esponenti dell’ebraismo italiano, citiamo il caso di Giorgio Del Vecchio, già rettore dell’Università di Roma ed illustre filosofo del diritto (escluso dall’insegnamento universitario nel 1939 perché ebreo e nel 1944 perché fascista), che negli anni ’50 e ‘60 fu apprezzato collaboratore del MSI e delle iniziative culturali promosse da quel partito.
[3] Due donne fortemente amate dal Duce – Angelica Balabanov e Margherita Sarfatti – erano ebree.
[4] Negli anni ’30 il numero degli ebrei italiani contrari al fascismo iniziò gradualmente ad aumentare, man mano che in alcuni ambienti israeliti cresceva l’influenza del gruppo antifascista clandestino Giustizia e Libertà, facente capo agli ebrei Carlo e Nello Rosselli, più tardi vittime dei fascisti francesi della Cagoule.
[5] Per una parziale elencazione degli ebrei che rivestirono ruoli di rilievo nel regime fascista italiano, si veda: Il contributo degli ebrei ai successi dell’Italia fascista. www.rinascita.info/
[6] Alberto Liuzzi, console generale della Milizia, era comandante dell’XI Gruppo della Divisione “Penne Nere” del CTV italiano in Spagna.
[7] Vincenzo PINTO: – Stato e libertà. Il carteggio Jabotinsky-Sciaky, 1924-39. Rubbettino editore, Soveria Mannelli, 2002;
– Imparare a sparare. Vita di Vladimir Ze’ev Jabotinsky padre del sionismo di destra. UTET, Torino, 2007.
[8] Maurizio CABONA: Fascisti, neofascisti, postfascisti ed ebrei. www.settecolori.it/
[9] Mussolini aveva già dichiarato che «in Italia non esiste l’antisemitismo». Lo aveva fatto più volte, ed in particolare nel 1932, nel contesto di una lunghissima intervista al giornalista ebreo tedesco Emil Ludwig. Da quella intervista sarebbe derivato il libro “Colloqui con Mussolini”, un best-seller della politica internazionale, pubblicato col contagocce in Italia ma sùbito tradotto in tredici lingue e andato a ruba in tutto il mondo.
[10] Fascismo e questione ebraica. www.it.wikipedia.org/
PRELUDIO ALLE “LEGGI RAZZIALI”: L’EUROPA NEL 1938
L’antisemitismo europeo, il Reichskonkordat, l’Anschluss …
In Italia – si è visto[11] – non v’era stata traccia di antisemitismo fino al 1938. In quell’anno avveniva la svolta, concretizzatasi con le cosiddette “leggi razziali”.
Come mai avvenne ciò? A parere dei più, si trattò semplicemente di un prezzo pagato all’alleanza con la Germania, che oramai si profilava sempre più nettamente. Molti affermano anche che Mussolini non aveva sbagliato nulla fino a quel momento, e che invece proprio dal 1938 cominciò a legarsi più strettamente a Hitler, iniziando con le leggi razziali un percorso che lo avrebbe portato poi alla guerra e alla sconfitta. Sono tutte affermazioni che contengono una parte di verità, ma che non tengono conto del quadro internazionale in cui quegli eventi – le leggi razziali, l’alleanza con la Germania, la guerra – vennero a maturare.
Il perno su cui ruotava tutto era l’Austria, un tempo grande impero mitteleuropeo e adesso – privata del retroterra imperiale – piccola nazione di etnia tedesca che aspirava solamente a ricongiungersi alla madrepatria germanica. L’Italia aveva sempre sostenuto i nazionalisti austriaci (Dollfuss, Starhemberg, Schuschnigg) contro le mene dei pangermanisti, e aveva anche messo a punto un’alleanza tripartita che includeva pure l’Ungheria di Gömbös (Protocolli di Roma del marzo 1934).
L’obiettivo della nostra diplomazia, infatti, era quello di rafforzare l’influenza italiana sull’area danubiano-balcanica, fino a creare una vera e propria egemonia. Egemonia che – sia detto per inciso – avrebbe anche posto un argine alla spinta tedesca verso sud-est. Ma i nostri disegni facevano ombra alle aspirazioni della Francia, che aspirava anch’essa ad un ruolo egemone nell’Europa Orientale.
L’ANTISEMITISMO TEDESCO E LA CHIESA CATTOLICA
Ma, torniamo all’antisemitismo. Innanzitutto c’è da tenere presente che nell’Europa degli anni ’30 vi era una diffusa diffidenza, se non proprio una ostilità verso gli ebrei. Legislazioni speciali antisemite esistevano o erano in itinere in numerosi paesi europei. Si veda, al riguardo, un illuminante volume collettaneo – “Antisemitismo in Europa negli anni Trenta: legislazioni a confronto” – con capitoli dedicati a Polonia, Ungheria, Slovacchia, Bulgaria, Romania, Croazia, Francia di Vichy e, perfino, alla insospettabile Svizzera.[12]
Ma – si faccia attenzione – tutti questi antisemitismi “minori” avevano per oggetto i seguaci della religione israelita,
non gli appartenenti ad una “razza ebraica”. Si muovevano, quindi, nell’alveo di quella cultura cristiana che avversava i seguaci di una religione considerata nemica. Per quella cultura, quando un ebreo si allontanava dalla sua religione o, meglio, se si convertiva alla cristiana, non veniva più considerato ebreo.
Questa era stata – fino al 1933 – la connotazione dell’antisemitismo europeo. Ed era proprio per questo che regimi essenzialmente laici, come quello fascista italiano, ne erano rimasti immuni. Ma nel gennaio 1933 – per l’appunto – saliva al potere in Germania un partito politico, il nazionalsocialista, che era alfiere di un antisemitismo di tipo nuovo. Per i nazisti, infatti, gli ebrei non erano i seguaci di una religione, ma gli appartenenti ad una razza a parte. Si era ebrei, quindi, perché figli o discendenti di ebrei, anche se si era interrotto il legame religioso, culturale, d’ambiente con la comunità ebraica. Sul tronco di un antisemitismo religioso, spirituale (diciamo così, “di destra”) era dunque innestato un antisemitismo etnico, materialistico (diciamo così, “di sinistra”) che veniva a sovvertire gli antichi parametri della tradizione cristiana.
Tutto ciò non impediva che nel luglio 1933, sei mesi dopo l’ascesa di Hitler, la Santa Sede (Pio XI regnante, Eugenio Pacelli segretario di Stato) stipulasse con la Germania un Concordato che andava a regolare i rapporti fra lo Stato tedesco, il Vaticano e le locali gerarchie cattoliche. Evidentemente, il nuovo antisemitismo hitleriano non era stato considerato ostativo allo stabilimento di buoni rapporti diplomatici.
D’altro canto, l’andamento dei rapporti vaticano-tedeschi è stato certamente assai più complesso e articolato di quanto lasci intendere l’odierna vulgata, secondo la quale tra il nazionalsocialismo “pagano” ed il cattolicesimo v’era da sempre un’assoluta incompatibilità. Le cose, in realtà, non stavano in questi termini. Innanzitutto, il preteso neo-paganesimo che avrebbe caratterizzato la dottrina nazista era un fenomeno assolutamente marginale, limitato ad alcuni circoli intellettuali di scarsa rilevanza.
Al contrario, in materia confessionale il partito nazionalsocialista si rifaceva esplicitamente alla religione cristiana, come sancito dal punto 24 del programma del NSDAP: «Noi chiediamo la libertà di tutte le confessioni religiose nello Stato, ove non mettano in pericolo la sua esistenza o non urtino i sentimenti di moralità della razza germanica. Il partito come tale sostiene l’orientamento di un cristianesimo positivo, senza essere vincolato confessionalmente ad una determinata religione…»[13] Ove la dizione “cristianesimo positivo” – come più volte ribadito dallo stesso Hitler – stava ad indicare l’insieme delle due grandi confessioni cristiane praticate in Germania, e cioè la cattolica e la protestante-luterana.
Il contrasto sull’antisemitismo si inseriva, dunque, in un contesto certamente guardingo, critico, non amichevole, ma comunque non di contrapposizione frontale. Quando precipitavano (senza tuttavia interrompersi) i rapporti fra la Santa Sede e Berlino? Non quando i cattolici scoprivano che quello nazista era un antisemitismo particolarmente crudele, ma quando Hitler – diventato il padrone assoluto della Germania – intaccava l’articolo 31 del Reichskonkordat, quello che garantiva l’autonomia delle organizzazioni giovanili cattoliche. Era questo fattore, e non l’antisemitismo, a determinare prima la protesta dei vescovi cattolici e poi, nel marzo 1937, l’emanazione dell’Enciclica “Mit brennender Sorge”, che condannava esplicitamente l’ideologia nazista.
Ma – a sommesso parere del sottoscritto – la preoccupazione di fondo che aveva spinto Pio XI ad un passo così radicale, era un’altra, era la preoccupazione principale che attanagliava la Chiesa Cattolica dopo i grandi scismi ortodosso e protestante: quella, cioè, di altre scissioni, di altre rotture traumatiche all’interno dello stesso mondo cattolico. Ciò che il Vaticano temeva sopra ogni cosa era che, sull’onda dei successi della politica economica hitleriana, potesse nascere in Germania una Chiesa Cattolica “nazionale” [per intenderci: come quella che oggi c’è in Cina].
Era, quello, uno scenario che si faceva via via più incombente e che nel 1938 – alla vigilia delle leggi razziali italiane – riceveva un’ulteriore conferma dopo l’Anschluss austriaco. Nella cattolicissima Austria, infatti, l’episcopato si era schierato con entusiasmo sotto le bandiere del nazionalsocialismo, come veniva ribadito in una solenne dichiarazione dei Vescovi austriaci: «Riconosciamo con gioia quanto il movimento nazionalsocialista, nel campo del progresso civile ed economico, oltre che della politica sociale, ha fatto per il Reich tedesco e il suo popolo, e in particolare per le classi più povere. Siamo parimenti convinti che, grazie all’azione del movimento nazionalsocialista, il pericolo del bolscevismo ateo e distruttore sarà definitivamente debellato. I Vescovi [austriaci] sostengono questa azione con la loro benedizione ed esortano i credenti a perseverare in questo senso.»[14] Erano parole che, soltanto otto mesi dopo la “Mit brennender Sorge”, sembravano quasi una sconfessione dell’Enciclica di Pio XI. Parole che, in ogni caso, suonavano come un forte campanello d’allarme per il Vaticano: nel mondo germanico, anche nelle roccaforti cattoliche del mondo germanico, crescevano ulteriormente i consensi e gli entusiasmi per la causa nazionalsocialista, con implicazioni di carattere confessionale difficilmente valutabili.
L’ANSCHLUSS E L’ITALIA
E non solamente per la politica vaticana l’Anschluss aveva un ruolo fondamentale, ma anche per le scelte dell’Italia, ivi comprese quelle relative alla questione ebraica. Preliminarmente, però, bisogna almeno accennare al come e al perché si giunse all’Anschluss.
La politica estera di Mussolini, lungi dal perorare un “blocco ideologico” con la Germania, aveva sempre teso alla
creazione di un direttorio delle “grandi potenze europee” (Italia, Inghilterra, Francia e Germania) che assicurasse un ordinato procedere della politica continentale, oltre che un ruolo di riguardo per l’Italia. Aveva anche ottenuto un primo risultato, con la firma, nel giugno 1933, del “Patto a Quattro” da parte – appunto – delle quattro grandi potenze. Ma Londra e Parigi si erano poi tirate indietro. E non solo, ma avevano anche avversato energicamente ogni tentativo dell’Italia di estendere la sua influenza nell’Europa Orientale (la Francia), nel bacino del Mediterraneo (l’Inghilterra) e in Africa (Francia e Inghilterra).
Nonostante tutto, Mussolini aveva continuato a ricercare una politica di equilibrio. In particolare nell’area danubiana (per noi strategica), dove si era opposto – da solo – al progetto tedesco di annettere l’Austria. Nel marzo 1934 – si è già detto – era sorta l’alleanza italo-austro-magiara dei Protocolli di Roma. E quando a Vienna – quattro mesi più tardi – i nazisti austriaci avevano tentato un colpo-di-Stato e assassinato il cancelliere Dollfuss, il Duce aveva inviato quattro Divisioni al confine del Brennero, riuscendo per il momento ad evitare l’Anschluss.
Londra e Parigi non avevano mosso un dito in quella occasione. E così continueranno a fare negli anni seguenti, lasciando l’Italia a difendere da sola l’indipendenza dell’Austria. Non solo. Ma contro l’Italia avevano orchestrato una indegna gazzarra internazionale quando il governo fascista, volendo ottenere l’equivalente di una minima parte degli imperi coloniali di Inghilterra e Francia, aveva intrapreso la guerra d’Etiopia. Erano seguite le sanzioni, decretate contro di noi dalla Società delle Nazioni; sanzioni cui la Germania non si era associata.
Nonostante ciò, Mussolini aveva continuato testardamente a giocare la carta di una posizione terza fra Terzo Reich e occidentali, oltre che a difendere l’indipendenza dell’Austria. Ma la popolazione austriaca si mostrava ogni giorno di più propensa all’unione con la Germania (un’altra verità taciuta negli show storico-mondani), mentre Francia e Inghilterra continuavano a tenersi mille miglia lontane dalle vicende di Vienna. Londra e Parigi, chiaramente, speravano che Italia e Germania si facessero la guerra per l’Austria. Ma Mussolini non cadeva nella trappola. «Che cosa dovremmo fare? – annotava Ciano nel febbraio del ’38 – Una guerra alla Germania? Alla prima nostra fucilata tutti gli austriaci, tutti senza eccezione, si schiererebbero con i tedeschi contro di noi.»[15]
Nulla di nuovo sotto il sole: mezzo secolo prima i nostri cari amici “occidentali” avevano osteggiato l’Italia in tutti i modi, costringendoci a cercare l’alleanza delle potenze “centrali”: era nata così la Triplice Alleanza, stipulata da Italia, Germania e Austria nel 1882.[16]
La verità è che l’Italia (l’Italia liberale o l’Italia fascista, poco importa) era sempre stata osteggiata da Inghilterra e Francia. Ecco perché, alla fine, i governi di Roma – nel Novecento come nell’Ottocento – erano stati costretti a ricercare l’alleanza con la Germania.
Ritornando allo scenario del 1938: ecco come si giunse all’Anschluss. Ed ecco perché – contrariamente a quanto aveva fatto nel 1934 – questa volta l’Italia non si oppose: per evitare una guerra con la Germania; una guerra che ci avrebbe visto soccombenti, mentre Inghilterra e Francia sarebbero rimaste a guardare, compiaciute. Così come erano rimaste a guardare l’agonìa dell’indipendenza austriaca.
L’Anschluss, comunque, originava un mutamento epocale negli equilibri del Continente. Un po’ tutti i paesi europei, soprattutto quelli del Süd-Osten, saranno costretti a rimodulare la loro politica estera. Ma sarà l’Italia, soprattutto, a dovere cambiare radicalmente la propria linea diplomatica. Non c’era più spazio – infatti – per una posizione di terzietà, e tramontava definitivamente il progetto di una nostra egemonia nell’Europa Orientale.
L’Italia era sospinta – del tutto naturalmente – verso l’alleanza con la Germania, anche se Mussolini persevererà ancora nella sua diplomazia mediatoria (conferenza di Monaco, opposizione al patto Ribbentrop-Molotov e all’attacco alla Polonia, “non belligeranza” e progetto di un “blocco dei neutrali” all’inizio della seconda guerra mondiale).
* * *
Chiedo scusa ai lettori se mi sono lasciato prendere la mano: volevo parlare soltanto dei motivi che stavano a monte
della svolta antisemita italiana del 1938, ed ho invece allargato il discorso all’Anschluss austriaco ed ai motivi che spinsero l’Italia verso l’alleanza con la Germania.
Ma, in fondo, non è stato male. La storia è un susseguirsi di eventi tra loro concatenati, senza paratìe, senza compartimenti stagni. Conoscere i fatti dell’Anschluss (e quelli del Reichskonkordat e della “Mit brennender Sorge”) aiuterà di certo a meglio comprendere gli eventi successivi, ivi comprese le leggi razziali italiane.
N O T E
[11] Si veda: Il fascismo e gli ebrei // “La Risacca”, n. 70, febbraio 2018.
[12] AA.VV. Antisemitismo in Europa negli anni Trenta: legislazioni a confronto. A cura di Renata CAPELLI e Renata BROGGINI. Franco Angeli editore, Milano, 2001.
[13] Enzo COLLOTTI: Nazismo e società tedesca. 1933-1945. Loescher editore, Torino, 1982.
[14] Michele RALLO: L’epoca delle rivoluzioni nazionali in Europa. Vol.1: Austria, Cecoslovacchia, Ungheria. Edizioni Settimo Sigillo, Roma, 1987.
[15] Galeazzo CIANO: Diario. 1937-1943. A cura di Renzo DE FELICE. Rizzoli editore, Milano 1980.
[16] Si veda: Il salto della quaglia: dalla Triplice Alleanza alla Triplice Intesa // “La Risacca”, n. 57, novembre 2016.
IL “MANIFESTO DELLA RAZZA”
Cose note e meno note, fatti dimenticati e verità nascoste
Nel marzo 1938 – si è visto[17] – l’Anschluss austriaco aveva prodotto una rimodulazione degli orientamenti diplomatici italiani. L’alleanza con la Germania era ormai divenuta ineluttabile.
Due mesi più tardi – il 3 maggio – Hitler giungeva a Roma per una lunga visita di Stato, che lo avrebbe portato anche a Napoli e a Firenze. Secondo la storiografia dominante, in quella occasione il Führer avrebbe “imposto” a Mussolini di varare anche in Italia una legislazione antisemita. Cosa non vera. Certo, Hitler non mancava di fare una qualche pressione in tal senso. Ma ciò avveniva – in quella come in precedenti occasioni – con lo «sfiorare l’argomento», e «senza travalicare gli usuali limiti della cortesia diplomatica».[18]
Questa volta, però, qualche cosa era cambiato nell’atteggiamento di Benito Mussolini. Il Duce non era certo un antisemita, e tuttavia aveva dovuto prendere atto che il cosiddetto “ebraismo internazionale” si era schierato acidamente contro l’Italia in tutte le controversie internazionali, non ultime la guerre d’Etiopia e di Spagna.[19] Cominciava a chiedersi, inoltre, perché mai avrebbe dovuto continuare a sostenere le ragioni del sionismo – alienandosi così le simpatie del mondo arabo – per essere poi ripagato con una aperta ostilità da parte dei settori più rappresentativi dell’ebraismo. Di ciò vi è traccia in una confidenza di Re Vittorio Emanuele III a Italo Balbo, riportata dall’allora direttore dell’Istituto LUCE, Nino D’Aroma: «Ora lo so, li vuole fuori [gli ebrei profughi dalla Germania] perché durante la guerra d’Africa – e qui non gli si può dar torto – si sono schierati in America, in Inghilterra, in Francia contro di noi con un’acredine da non dire. Lei lo conosce quanto me e meglio: Mussolini se l’è legata al dito… E poi è geloso – credo – che l’antisemitismo tedesco sia tanto piaciuto alle nazioni arabe del Levante mediterraneo.»[20]
Naturalmente, pur con tutto il comprensibile risentimento, Mussolini non verrà mai meno alla sua umanità, al buon cuore che lo contraddistingueva e di cui continuavano a dargli atto anche molti antifascisti. Si pensi – per fare un solo esempio – al caso di Tito Zaniboni (autore di un fallito attentato alla vita del Duce) che, dal confino, scriveva «all’Eccellenza Vostra più volte benedetta», ringraziando per il sostegno finanziario dato a sua figlia. Contrariamente a quanto paventava il Re, quindi, la prevista espulsione dei profughi ebrei sarà in larga misura inoperante, zeppa di eccezioni e, comunque, senza alcuna espulsione verso la Germania.
IL MANIFESTO DEGLI SCIENZIATI RAZZISTI
Dunque, anche l’Italia si avviava a codificare una legislazione antisemita. In linea, peraltro – lo ricordavo in un
precedente articolo – con le tendenze che, al tempo, caratterizzavano diversi paesi europei.[21] In verità, il primo provvedimento razzista era antecedente alla legislazione antisemita che sarebbe stata introdotta fra il settembre e il novembre del ’38. Era il Regio Decreto Legge del 19 aprile 1937, che proibiva agli italiani delle colonie di accedere al “madamato”. Questo era un istituto similgiuridico eritreo che permetteva di comprare dalla famiglia una giovane (sovente anche una bambina) con cui convivere more uxorio fino alla risoluzione del “contratto”.
Comunque, un anno dopo la legge sul madamato ma prima del varo delle cosiddette “leggi razziali”, un primo segnale di svolta razzista e antisemita (e le due cose non sono equivalenti) si aveva il 14 luglio 1938, quando sul quotidiano romano “Giornale d’Italia” compariva l’articolo «Il fascismo e la difesa della razza». Era una sorta di manifesto del razzismo italiano, privo però delle firme degli estensori. Firme che saranno rese note due settimane dopo, quando il Gran Consiglio del Fascismo recepirà quell’articolo con la denominazione di «Manifesto degli Scienziati Razzisti». I primi firmatari erano 10 noti docenti universitari; in un secondo tempo giungeranno le adesioni di altri nomi di rilievo, tra cui numerosi intellettuali. Alcuni tra questi, nel dopoguerra, faranno poi professione di antifascismo integrale.
Logicamente, il taglio del Manifesto era prevalentemente scientifico (quindi estraneo alla tradizione dell’antigiudaismo cristiano) e tuttavia il nascente razzismo italiano non coincideva con il tedesco. Vero è che, dopo aver detto che «le razze umane esistono» (punto 1), si dichiarava che «il concetto di razza è un concetto puramente biologico» (punto 3). Ma è altresì vero che mancava totalmente l’affermazione della superiorità della propria razza, tipico del razzismo nazista: «Dire che esistono le razze umane non vuol dire a priori che esistono razze umane superiori o inferiori, ma soltanto che esistono razze umane differenti» (anche questo dal punto 1).
Altra peculiarità: il manifesto non parlava di una “razza ariana”, ma di una “razza italiana”, accomunata alle altre razze europee dalle comuni “origini ariane”: «L’origine degli Italiani attuali parte essenzialmente da elementi di quelle stesse razze che costituiscono e costituirono il tessuto perennemente vivo dell’Europa» (punto 4). E ancora: «Esiste ormai una pura “razza italiana”. Questo enunciato non è basato sulla confusione del concetto biologico di razza con il concetto storico-linguistico di popolo e di nazione, ma sulla purissima parentela di sangue che unisce gli Italiani di oggi alle generazioni che da millenni popolano l’Italia. Questa antica purezza di sangue è il più grande titolo di nobiltà della Nazione italiana» (punto 6).
L’influenza di certi aspetti del razzismo tedesco era evidente; e tuttavia – ripeto – si era ben lungi da un completo allineamento: «La questione del razzismo in Italia deve essere trattata da un punto di vista puramente biologico, senza intenzioni filosofiche o religiose. La concezione del razzismo in Italia deve essere essenzialmente italiana e l’indirizzo ariano-nordico. Questo non vuole dire, però, introdurre in Italia le teorie del razzismo tedesco come sono, o affermare che gli Italiani e gli Scandinavi sono la stessa cosa. Ma vuole soltanto additare agli Italiani un modello fisico e soprattutto psicologico di razza umana che, per i suoi caratteri puramente europei, si stacca completamente da tutte le razze extraeuropee…» (punto 7).
Fin qui, il manifesto non si distaccava dal comune sentire europeo del tempo. Il razzismo, inteso come differenziazione della razza bianca rispetto alle razze cosiddette “di colore”, era patrimonio comune della società occidentale di quell’epoca. A cominciare proprio dalle nazioni che con più convinzione si ispiravano agli ideali democratici. Gli inglesi difendevano con arroganza la loro supremazia sui popoli colonizzati: dal «fardello dell’uomo bianco» di Kipling, alle frasi sprezzanti di Churchill sui negri («babbuini»), sugli arabi («uomini senza valore»), sugli indiani («una bassa classe di servi»).[22] Quanto, agli Stati Uniti, aboliranno la loro legislazione razzista solo con il Civil Rights Act nel 1964, circa vent’anni dopo l’abrogazione delle leggi razziali italiane.
RAZZISMO E ANTISEMITISMO: NON LA STESSA COSA
La popolazione italiana dell’epoca – se vogliamo dirci la verità – non era meno razzista (o più razzista) delle popolazioni inglese o francese. Ma quel modo di pensare, in linea di massima, non considerava gli ebrei – bianchi come noi – alla stregua di appartenenti ad una razza diversa, ma soltanto ad una religione diversa. Gli ebrei laici o quelli convertiti al cristianesimo erano, da quella cultura, considerati italiani e basta. Era un modo di sentire certamente laico, ma che coincideva con il punto di vista della Chiesa, che definiva ebreo soltanto chi praticava la religione israelita. Il nazionalsocialismo tedesco, invece – come già detto – riteneva che si fosse ebrei per un fatto materiale, biologico, di sangue, di razza: la discendenza – cioè – dal ceppo semitico, lo stesso degli arabi e certamente diverso rispetto a quello indoeuropeo.
Tutto ciò premesso, si può certamente dire che il Manifesto non apportasse grandi fattori di novità, fin quasi alle ultime battute, quando perentoriamente affermava: «Gli ebrei non appartengono alla razza italiana. (…) Gli ebrei rappresentano l’unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani.» (punto 9). La forzatura appariva evidente, giacché nell’Europa occidentale (contrariamente a ciò che era avvenuto nell’Europa orientale) gli ebrei si erano perfettamente assimilati ed integrati, al punto da risultare indistinguibili dal resto della popolazione. Non soltanto, attraverso i secoli, avevano assunto l’aspetto esteriore delle popolazioni autoctone, ma ne avevano anche (ad eccezione di alcuni settori integralisti) acquisito la cultura.
Il Manifesto si chiudeva con l’appello a mantenere l’integrità dei caratteri identitari del popolo italiano: «I caratteri fisici e psicologici puramente europei degli Italiani non devono essere alterati in nessun modo» (punto 10).
Fin qui il Manifesto degli Scienziati Razzisti. Era, di fatto, la cornice della normativa antisemita che sarà varata nei mesi successivi.
INTANTO DE GASPERI…
La Chiesa era ufficialmente contraria al nuovo orientamento italiano. Papa Pio XI interveniva due volte sull’argomento, il 15 e il 28 luglio. Nel settembre successivo farà la famosa dichiarazione sulla inammissibilità dell’antisemitismo e sul fatto che i cristiani fossero «spiritualmente semiti». Ma, nonostante tutto, si aveva nettissima l’impressione che le critiche del Pontefice non riguardassero l’antisemitismo italiano, ma piuttosto la sua vicinanza all’antisemitismo tedesco.
Al di là di ciò che il Papa dichiarava ricevendo in udienza un gruppo o un altro di pellegrini, ad andare all’esterno era ciò che veniva poi ufficializzato dalla stampa vaticana. Cominciando dall’ufficiale “Osservatore Romano”, che si guardava bene dal citare la frase del Pontefice sul debito spirituale dei cristiani nei confronti degli ebrei.[23]
La stampa vaticana nel suo complesso sembrava essere tutt’altro che ostile alla leggi antisemite che, in quegli anni, erano varate in vari paesi europei. Il caso più noto era quello della rivista dei Gesuiti, “La Civiltà Cattolica”, in quel frangente protagonista di una energica difesa della “prima legge ebraica” varata dal parlamento di Budapest. Era il suo direttore, padre Mario Barbera, ancora a luglio, a salutare con soddisfazione l’introduzione in Ungheria del numerus clausus, cioè di quella norma che fissava un tetto alla presenza degli ebrei nei vari àmbiti dell’economia magiara.[24]
Concetti che, più o meno negli stessi termini, erano già stati espressi, in maggio, sul prestigioso “L’Illustrazione Vaticana” a firma di un giornalista che si firmava “Spectator”. Spectator – si sapeva – era lo pseudonimo di Alcide De Gasperi, esponente dell’antifascismo cattolico e con un passato di perseguitato politico. Adesso, in luglio, De Gasperi ribadiva il suo punto di vista, prendendo posizione in favore delle misure economiche adottate contro gli ebrei in Austria, all’indomani dell’Anschluss: «La liquidazione delle fortune ebraiche allarga le prospettive degli affari per gli altri, e i posti di avvocati e di medici rimasti vacanti aprono uno sfogo alle carriere.»[25]
Faceva capolino quello che si potrebbe definire un “antisemitismo economico”, che guardava agli ebrei come ad una comunità a sé stante, la quale incideva pesantemente sugli equilibri sociali delle nazioni europee ospitanti. Queste avevano pieno diritto di difendere gli interessi economici delle rispettive popolazioni, contrastando con una legislazione ad hoc quella che era considerata una presenza estranea. Né si creda che tale sentire fosse limitato a qualche isolato settore della Chiesa. Lo stesso Pio XI, nel corso della medesima udienza in cui aveva detto i cristiani essere “spiritualmente semiti”, aveva pienamente giustificato le normative dell’antisemitismo economico: «Noi riconosciamo a chiunque il diritto di difendersi, di procurarsi i mezzi per proteggersi da tutto ciò che minaccia i suoi legittimi interessi…»
Che dire? La materia – evidentemente – è assai più articolata e complessa di quanto gli storici della domenica vogliano far apparire.
N O T E
[17] Si veda: Preludio alle leggi razziali: l’Europa del 1938. // “La Risacca”, n. 71, marzo 2018.
[18] Santi CORVAJA: Mussolini nella tana del lupo. [Gli incontri Mussolini-Hitler, 1934-1944] Dall’Oglio editore, Milano, 1982.
[19] Si veda: Il fascismo e gli ebrei. // “La Risacca”, n. 70, febbraio 2018.
[20] Santi CORVAJA: Mussolini nella tana del lupo. Cit.
[21] AA.VV. Antisemitismo in Europa negli anni Trenta: legislazioni a confronto. A cura di Renata CAPELLI e Renata BROGGINI. Franco Angeli editore, Milano, 2001.
[22] Fabio ANDRIOLA: Carteggio segreto Churchill-Mussolini. Sugarco edizioni, Milano, 2007.
[23] David I KERTZER: I Papi contro gli ebrei. Il ruolo del Vaticano nell’ascesa dell’antisemitismo moderno. RCS Libri, Milano, 2001.
[24] Mario BARBERA: La questione dei giudei in Ungheria // “La Civiltà Cattolica”, 16 luglio 1938.
[25] Alessandro GNOCCHI: Il De Gasperi sconosciuto: contro gli ebrei e per la razza // “Libero”, 28 aprile 2005.
LE “LEGGI RAZZIALI” DEL REGIME FASCISTA
un antisemitismo “all’italiana”, molto diverso dal modello tedesco
TELESIO INTERLANDI E “LA DIFESA DELLA RAZZA”
Il 5 agosto 1938 – pochi giorni dopo l’ufficializzazione del Manifesto della Razza[26] – faceva la sua comparsa nelle
edicole il primo numero della rivista quindicinale “La Difesa della Razza”. Ne era direttore Telesio Interlandi, un giornalista siciliano che già dirigeva “Il Tevere”, quotidiano del fascismo romano più intransigente e irriverente. Editore del nuovo periodico era Calogero Tumminelli, altro siciliano che si era fatto strada nell’editoria nazionale, al punto da diventare direttore editoriale dell’Enciclopedia Treccani. Sia Interlandi che Tumminelli – lo riferisco a titolo di curiosità – avevano un passato in Massoneria: Interlandi nella loggia “Aurora” di Catania, Tumminelli nella loggia “Carlo Cattaneo” di Milano.
Telesio Interlandi era uno dei pochissimi giornalisti fascisti che potesse essere considerato un antisemita. Non per sudditanza ai modelli tedeschi, ma principalmente a causa delle diatribe interne al fascismo italiano. Più volte, infatti, “Il Tevere” era entrato in polemica con “La Nostra Bandiera”, rivista portavoce degli ebrei fascisti, anzi degli “italiani di religione ebraica”.
Apro una parentesi. Come ho già accennato nel primo articolo di questa serie, gli ebrei italiani – nel loro complesso – non erano affatto antifascisti.[27] Proprio l’editore-direttore de “La Nostra Bandiera”, il banchiere Ettore Ovazza, era il capofila di una delle due fazioni del fascismo ebraico, quella degli “anti-sionisti”;[28] si contrapponeva all’altra corrente, quella dei “sionisti federalisti” seguaci di Vladimir Jabotinsky.[29]
Sempre per inciso dirò che, fosse anche soltanto per rispetto verso tanti ebrei fascistissimi, la vergogna delle leggi razziali italiane avrebbe dovuto essere evitata. Ciò premesso, è comunque falsa la vulgata odierna, che attribuisce al fascismo in Italia, al nazismo in Germania e via di seguito la “invenzione” – mi si passi il termine – di un fenomeno complesso come l’antisemitismo, che aveva ben altre e più lontane radici.[30] Non per nulla, proprio nell’agosto 1938, mentre giungeva in edicola il primo numero de “La Difesa della Razza”, l’antifascista cattolico Alcide De Gasperi (per cui la Chiesa ha avviato una causa di beatificazione) commentava su “L’Informazione Vaticana” i primi passi dell’antisemitismo fascista, auspicando che questo mantenesse la sua diversità rispetto all’antisemitismo nazista, e seguisse invece «le vive tradizioni della Roma Cristiana».[31]
Ritornando alla “Difesa della Razza”, il suo lancio era chiaramente una manovra, mossa dal vertice del regime. Si voleva dare, in quel momento, un preciso segnale di amicizia con la Germania e di prudente diffidenza verso le prese di posizione di Pio XI, dietro cui un diffidentissimo Mussolini sospettava che potesse celarsi una qualche nostalgia del potere temporale.
Era per questo, probabilmente, che il regime aveva pilotato la saldatura – artificiale – tra l’ambiente degli scienziati che avevano firmato il Manifesto della Razza ed il gruppo di giornalisti iperfascisti che animavano “Il Tevere” e le altre testate di Interlandi. Saldatura da cui adesso scaturiva “La Difesa della Razza”.[32]
Non a caso, all’iniziativa si manteneva quasi del tutto estraneo Giovanni Preziosi, che secondo il De Felice era «l’unico vero antisemita tra i fascisti di qualche rilievo».[33] Malgrado, dopo essere stato prete, fosse poi divenuto anticlericale, Preziosi era portatore – da almeno un ventennio – di un antisemitismo che recepiva tutti i pre-giudizi dell’antigiudaismo cristiano, dai “Protocolli dei Savi Anziani di Sion” in poi. Era inoltre un filotedesco di vecchia data, almeno dal 1922, quando a Milano aveva organizzato un convegno con gli antisemiti germanici. Pubblicava da molti anni una sua rivista, “La Vita Italiana”, che non temeva rivali in fatto di antisemitismo e che, dal 1938 in poi, sarà una sorta di contraltare alla “Difesa della Razza”. Aggiungo – a titolo di curiosità – che Preziosi era fortemente antipatico a Mussolini (che invece aveva in simpatia Interlandi) ed era da molti considerato un terribile menagramo.
LE QUATTRO “LEGGI RAZZIALI” ITALIANE
Esattamente un mese dopo l’uscita de “La Difesa della Razza”, il 5 settembre 1938, il Consiglio dei Ministri varava il Regio Decreto Legge n. 1390, recante “Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista”.
Si trattava della prima delle cosiddette “leggi razziali” (ne seguiranno altre tre, dallo stesso settembre del ’38 al
giugno del ’39), ed era quella che tracciava il solco entro cui si sarebbe mossa l’intera legislazione antisemita del regime. Ne riferisco alcuni tratti essenziali, avvertendo però che il loro effettivo impatto potrà essere valutato solo dopo aver preso visione delle relative norme attuative dettate dal Gran Consiglio del Fascismo (cui accenno immediatamente dopo).
Oltre ad inibire l’insegnamento e la frequenza di scuole e università a “persone di razza ebraica”, il RDL identificava i soggetti che avrebbero dovuto essere considerati tali: « Agli effetti del presente decreto-legge è considerato di razza ebraica colui che è nato da genitori entrambi di razza ebraica, anche se egli professi religione diversa da quella ebraica.» (art.6)
Ne derivava: 1) che i figli di coppie miste non venissero considerati ebrei; 2) che era la razza e non la religione a determinare chi dovesse essere considerato ebreo. Dunque, il regime sceglieva definitivamente l’antisemitismo biologico di scuola tedesca, tralasciando così di seguire «le vive tradizioni della Roma Cristiana».
Il secondo provvedimento antisemita giungeva due giorni dopo: era il RDL n. 1381 in materia di “Provvedimenti nei confronti degli ebrei stranieri”. Con questo si vietava che gli “stranieri ebrei” potessero fissare “stabile residenza” (non una permanenza provvisoria) nel Regno o nelle Colonie. Veniva inoltre stabilita la revoca della cittadinanza italiana per gli ebrei stranieri cui era stata concessa posteriormente al 1° gennaio 1919.
Il 6 ottobre 1938 il Gran Consiglio del Fascismo emanava una “Dichiarazione sulla Razza”: recepiva quanto prodotto dal Manifesto degli Scienziati Razzisti alle prime leggi razziali, e indicava qualche ulteriore direttrice. In particolare, auspicava una normativa che vietasse i matrimoni fra italiani ariani e persone di razza diversa. Normativa che vedeva la luce un mese dopo, con il RDL n. 1728 del 17 novembre 1938 (“Provvedimenti per la Difesa della Razza Italiana”). Il primo articolo del RDL vietava i matrimoni misti, facendo riferimento al fattore razziale ed ignorando completamente quello religioso: cosa che – come meglio vedremo in seguito – causava una forte tensione con il Vaticano.
Infine, il RDL n. 1054 del 29 giugno 1939 in materia di “Disciplina dell’esercizio delle professioni da parte dei cittadini di razza ebraica”. L’esercizio delle libere professioni da parte di cittadini ebrei era sottoposto a limitazioni e restrizioni, ed erano loro inibite del tutto le professioni di giornalista e di notaio.
Erano questi quattro decreti, di fatto, a costituire il complesso delle “leggi razziali” italiane.
Fermiamoci – per il momento – qui. L’azione antisemita imputabile al fascismo si esauriva in questo complesso normativo, e cioè in una serie di disposizioni legislative che contemplavano varie misure discriminatorie nei confronti degli ebrei italiani e la fine (teorica) del diritto d’asilo per gli ebrei stranieri. Le più rilevanti conseguenze pratiche di tali disposizioni saranno: per numerosi ebrei italiani, il licenziamento dalle amministrazioni statali; per numerosi ebrei stranieri, l’impossibilità di stabilire in Italia la propria dimora definitiva. Queste furono le colpe – gravissime ed innegabili – del regime fascista nei confronti degli ebrei; colpe ancor più gravi perché provenienti da un regime che aveva posto lo Stato al centro della sua costruzione politica.
Una pagina nera nella storia del fascismo. Una pagina, per di più, sommamente imbarazzante, in considerazione del fatto che la minuscola comunità ebraica italiana (circa 50/mila anime su una popolazione complessiva allora di 43/milioni) era parte integrata ed integrante sia della comunità nazionale, sia del regime fascista. Vero è – si vedrà immediatamente appresso – che una serie di disposizioni stabilivano numerose deroghe ed eccezioni, volte a porre al riparo da ogni restrizione i numerosi ebrei benemeriti della patria e del fascismo; ma è altrettanto vero che tali deroghe erano doppiamente umilianti per i destinatari.
Diciamocelo chiaramente: fu un errore del regime, un errore gravissimo, imperdonabile del regime, dovuto sia alla smania di “adeguarsi ai tempi”, sia – lo si è visto – ad una reazione alle “campagne antifasciste” della grande finanza ebraica nei paesi anglosassoni. Reagendo in quel modo, però, si favoriva proprio il disegno dell’alta finanza ebraica, che era quello di farsi scudo e di confondersi con la generalità degli ebrei.
Né può essere considerata come attenuante la diffusa ostilità che – si è visto – circondava gli ebrei nell’Europa degli anni ’30. Si è detto che quelle leggi fossero un tributo alla imminente alleanza con la Germania (cui, non va dimenticato anche questo, ci avevano obbligati gli “occidentali”). Ma non era esattamente così. Altri paesi alleati del Terzo Reich, come la Finlandia, non adotteranno mai una legislazione antisemita.
L’unica nota positiva – ma questo era scontato – era che la legislazione antisemita non produsse rastrellamenti e campi di concentramento; nessun fatto truculento o violento, ma soltanto una odiosa burocrazia discriminatrice. La svolta drammatica e funesta del settembre 1943 sarà – come vedremo più avanti – imputabile ai tedeschi e non agli italiani, ed avverrà in applicazione della politica d’occupazione tedesca e non delle leggi razziali italiane.
ESENZIONI ED ECCEZIONI: LE DISPOSIZIONI DEL GRAN CONSIGLIO DEL FASCISMO
Naturalmente, è del tutto priva di fondamento la vulgata che vorrebbe accomunare le “leggi razziali” italiane alla legislazione ed alla prassi antiebraiche della Germania nazista. Dico ciò, non per attenuare la gravità di quei provvedimenti; bensì per sottolineare come lo spirito di quella normativa fosse – per dirla con Mussolini – «discriminatorio, non persecutorio».
Per provare ciò, basterebbe leggere tra le righe di quei provvedimenti e, soprattutto, attenzionare le successive disposizioni attuative. Si è già detto della esclusione dei soggetti nati da matrimoni misti. Altro fatto di una certa importanza era l’emanazione di un RDL che seguiva di due settimane quello sulla scuola fascista: era il n. 1630 del 23 settembre 1938, titolato “Istituzione di scuole elementari per fanciulli di razza ebraica”.
Quanto ai docenti ed agli altri soggetti che, in forza del RDL 1390 dovevano abbandonare il servizio, questi non erano – come oggi si vuol far credere – licenziati in tronco e gettati sul lastrico. Le regole stabilite dal Gran Consiglio del Fascismo disponevano che venisse riconosciuto loro «il normale e integrale diritto di pensione». Peraltro, a quanti non avessero già raggiunto i requisiti per accedere al trattamento pensionistico veniva garantita l’integrazione al minimo con contributi figurativi.[34]
Ma erano soprattutto le disposizioni attuative delle “leggi razziali” a rendere l’idea della volontà di circoscriverne l’ambito di applicazione e di limitarne l’incidenza. Veniva infatti introdotta la figura del “discriminato” (definizione che in questo caso aveva una accezione positiva); cioè dell’individuo che, pur essendo considerato di razza ebraica, era appunto discriminato rispetto agli altri ebrei e non era, quindi, destinatario di alcuna normativa restrittiva. La qualifica di discriminato era automaticamente estesa al relativo nucleo familiare. Anzi, erano numerosi i casi di “famiglie discriminate”, pur non essendo più in vita il soggetto direttamente destinatario della qualifica.
La discriminazione veniva attribuita nei seguenti casi: 1) benemerenze – e in alcuni casi semplice partecipazione – relative alle quattro guerre del secolo (libica, mondiale, etiopica, spagnola); 2) benemerenze – e in alcuni casi semplice partecipazione – relative alla rivoluzione fascista degli anni 1919-22; 3) benemerenze di carattere civile, sociale, economico; 4) casi particolari, giudicati positivamente da una speciale commissione del Ministero dell’Interno.
L’ampiezza della casistica era tale da riguardare 3.522 nuclei familiari più 834 individui singoli, per un totale di 10/11 mila persone: cifra ragguardevole, se rapportata al numero dei cittadini italiani considerati “di razza ebraica”, che nel 1938 assommava a 47.252 unità.[35]
UNA NORMATIVA SOSTANZIALMENTE INAPPLICATA PER GLI EBREI STRANIERI
Quanto alla normativa sugli ebrei stranieri, questa rimaneva sostanzialmente inapplicata per quello che era il suo
aspetto più delicato: le espulsioni di quanti non avessero titolo a rimanere in territorio italiano.
Innanzitutto, erano stabiliti anche qui dei criteri discriminanti tali da interessare una platea assai vasta: età superiore ai 60 anni, precarie condizioni di salute, tre o più figli a carico, casi particolari vagliati dal Ministero degli Interni.
In secondo luogo, il termine del 12 marzo 1939, entro il quale gli ebrei stranieri avrebbero dovuto lasciare il territorio italiano, era spostato più volte. In ogni caso, gli ebrei tedeschi non sarebbero stati espulsi verso la Germania, né prima né dopo il marzo 1939.
L’asilo temporaneo, invece, continuava ad essere accordato ampiamente agli ebrei provenienti dalla Germania, dall’Austria, dai Sudeti e da altri paesi dell’Europa Orientale. Dopo l’invasione tedesca della Polonia, nel settembre 1939, numerosi saranno anche gli ebrei polacchi accolti nel nostro paese.
Non va infine dimenticato che nel dicembre del ’39, pochi mesi dopo l’inizio del conflitto mondiale, veniva creata la DELASEM (Delegazione per l’Assistenza degli Emigranti Ebrei). Non si trattava certamente di una «una organizzazione di resistenza ebraica che operò in Italia», come da taluno affermato.[36] Era invece un organismo ufficiale, creato dal presidente dell’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane (all’epoca il prefetto Dante Almansi) con il beneplacito del governo fascista.[37] La DELASEM – che operò regolarmente fino alla caduta del regime fascista – aveva per scopo l’assistenza agli ebrei stranieri riparati in Italia. Oltre a fungere da collettore per i fondi destinati all’assistenza vera e propria, la Delegazione organizzerà il trasferimento di oltre 5.000 rifugiati ebrei (su un totale di 9.000) in paesi neutrali; e ciò, anche in previsione di un possibile aumento dell’influenza tedesca in Italia (cosa che si sarebbe poi verificata dopo il settembre del ’43).
Per la cronaca, gran parte di quegli esuli ebrei troverà un secondo rifugio in Spagna, altra nazione – guarda caso – governata da una “bieca dittatura fascista”.
N O T E
[26] Si veda: Il Manifesto della Razza. // “La Risacca”, n. 73, maggio 2018.
[27] Si veda: Il fascismo e gli ebrei. // “La Risacca”, n. 70, febbraio 2018.
[28] Luca VENTURA: Ebrei con il duce. “La nostra bandiera” (1934-1938). Zamorani, Torino, 2002.
[29] Vincenzo PINTO: Imparare a sparare. Vita di Vladimir Ze’ev Jabotinsky padre del sionismo di destra. UTET, Torino, 2007.
[30] Si veda: Pagani, cristiani, ebrei. Le origini dell’intolleranza e dell’antisemitismo. // “La Risacca”, n. 53, maggio 2016.
[31] Alessandro GNOCCHI: Il De Gasperi sconosciuto: contro gli ebrei e per la razza. // “Libero”, 28 aprile 2005.
[32] Francesco CASSATA: La Difesa della Razza. Politica, ideologia e immagine del razzismo fascista. Giulio Einaudi editore, Torino, 2008.
[33] Renzo DE FELICE: Mussolini il Duce. Vol.2: Lo Stato totalitario, 1936-1940. Giulio Einaudi editore, Torino, 1981.
[34] Filippo GIANNINI: Gli ebrei nel ventennio fascista. Ed. Nuove Idee, Roma, 2008.
[35] Filippo GIANNINI: Gli ebrei nel ventennio fascista. Cit.
[36] DELASEM. www.it.wikipedia.org/
[37] Bruno Mondolfo, Duilio Sinigaglia, Gino Bolaffi. Tre martiri fascisti israeliti. www.mortidimenticati.blogspot.com/
LE REAZIONI DELLA CHIESA CATTOLICA ALLE LEGGI RAZZIALI ITALIANE
Altri aspetti poco conosciuti di una vicenda dai tratti indistinti
La reazione della Chiesa Cattolica alle prime misure antisemite del governo italiano era negativa. E tuttavia è assai dubbio se tale reazione fosse diretta contro l’antisemitismo in sé, oppure contro la scelta di privilegiare
l’antisemitismo razzista di matrice tedesca e non piuttosto il tradizionale “antigiudaismo” che nella Chiesa di Roma aveva pieno diritto di cittadinanza.
Oggi si ricorda soltanto la dura presa di posizione, espressa il 6 settembre 1938 da Pio XI durante una udienza concessa a un gruppo di pellegrini belgi. Ne ho già citato il passaggio fondamentale: «spiritualmente noi siamo dei semiti».
Si tace, invece, il fatto che le affermazioni di Papa Ratti fossero rimaste confinate agli atti di quella udienza, senza che la stampa vaticana – a iniziare da “L’Osservatore Romano” – ne avessero dato notizia.[38]
Alcune settimane prima, però, il quotidiano della Santa Sede aveva pubblicato il testo di una forte presa di posizione di Pio XI: «come mai disgraziatamente l’Italia abbia avuto bisogno di andare ad imitare la Germania…» (28 luglio). Si aveva perciò l’impressione che sull’ostilità al razzismo tedesco tutta la Chiesa fosse d’accordo. Minore condivisione, invece, sembrava suscitare la forzatura secondo cui i cristiani sarebbero stati «spiritualmente semiti».
UN RAPPORTO DELL’AMBASCIATORE ITALIANO IN VATICANO
In realtà, si trattava ancora di schermaglie. Il vero atteggiamento della Chiesa si palesava successivamente, quando – il 6 ottobre – era resa nota la “Dichiarazione sulla Razza” con cui il Gran Consiglio del Fascismo auspicava il varo di una normativa che vietasse i matrimoni fra «cittadini italiani di razza ariana» e individui di razza diversa, e ciò senza tenere in alcun conto il fattore religioso. La nostra Ambasciata presso la Santa Sede era sùbito fatta oggetto di pressioni insistenti; tanto che, già il giorno seguente, l’ambasciatore Pignatti indirizzava un lungo rapporto al ministro degli Esteri, Ciano:
«Negli ambienti Vaticani si tiene un atteggiamento di riserva intorno alle deliberazioni prese dal Gran Consiglio circa la difesa della razza. Si notano alcuni lati buoni delle deliberazioni stesse, mentre non si nasconde qualche
preoccupazione circa le disposizioni per il matrimonio. In particolare si apprezza il comma della dichiarazione nella quale “non è considerato di razza ebraica colui che è nato da un matrimonio misto, qualora professi altra religione all’infuori dell’ebraica alla data del I° ottobre XVI”. Anche nella elencazione dei motivi di discriminazione per gli ebrei di cittadinanza italiana si è notato un grande spirito di moderazione e cosi pure per le limitazioni poste all’attività degli ebrei.
La disposizione che si può trovare invece in diretta opposizione con la legislazione ecclesiastica è il divieto di matrimonio di italiani e italiane con elementi appartenenti alla razza camita, semita ed altre razze non ariane. Ma anche su questo punto si osserva negli ambienti ecclesiastici che la stessa legislazione canonica impedisce il matrimonio degli ebrei con cattolici e che su questo punto la dispensa dell’impedimento di disparità di culto è sommamente difficile ad ottenersi. Anzi sono recenti le istruzioni date ai Vescovi per rendere sempre più severo il principio che vieta i matrimoni misti ed invitare i Vescovi stessi a usare ogni mezzo possibile allo scopo di evitarli.
Si può credere pertanto che nei casi eccezionali si potrà trovare la via di procedere d’accordo. Ciò è tanto più necessario in quanto che, dopo la Conciliazione del 1929, in Italia il matrimonio civile esiste soltanto per i non cattolici e quelli che volessero deliberatamente prescindere dalla legge e disciplina cattolica. Per tutti gli altri esiste soltanto il matrimonio religioso il quale ha, per se stesso, gli effetti civili, dietro la semplice notifica data alle autorità civili del matrimonio celebrato. Del resto, la Chiesa, nel concedere o negare dispense matrimoniali, tiene sempre in debito conto delle cause di impedimento contemplate dalla legislazione civile dei singoli Stati.
Più difficile invece si presenta il caso del matrimonio quando si tratta di ebrei convertiti, i quali di fronte alla Chiesa sono cattolici come tutti gli altri, mentre la legislazione progettata continua a considerarli come ebrei. In questo caso la proibizione del matrimonio imposta da questa legislazione si troverebbe direttamente in contraddizione con la dottrina e la disciplina della Chiesa. È questo l’unico punto nella proclamazione razzista del Gran Consiglio, sul quale la Chiesa formulerebbe obbiezioni. Si osserva però che questa proclamazione non è di per se stessa la legge che sarà emanata, ma deve soltanto costituire la base sulla quale i progetti di legge debbono essere presentati, esaminati ed approvati.
Prima pertanto di dare un giudizio definitivo occorre aspettare di conoscere tali progetti di legge e frattanto si nutre la speranza che la questione potrà risolversi col tenere conto di tutti gli elementi che in essa influiscono allo scopo di contemperare tanto le esigenze religiose quanto quelle civili.»[39]
Risulta evidente, dalla lettura di questo documento, che il nocciolo della questione fosse sempre il concetto di “ebreo”: ispirato ai criteri materialistici del razzismo tedesco o, viceversa, dettato da princìpi di natura spirituale, religiosa. L’adozione del primo criterio – verso cui la legislazione italiana sembrava tendere – avrebbe messo in discussione il modus vivendi faticosamente raggiunto fra Stato e Chiesa con la Conciliazione. Anzi, come risultava evidente dalla problematica relativa ai matrimoni misti, avrebbe violato lo spirito e la lettera dei Patti Lateranensi. Era questo – in sintesi – l’unico punto su cui la Chiesa manifestava un aperto dissenso.
UNA ENCICLICA NASCOSTA: LA “HUMANI GENERIS UNITAS”
Iniziava, a quel punto, un’azione pressante della Santa Sede sul governo italiano. Il Vaticano aveva ragioni da vendere, giacché le proposte del Gran Consiglio del Fascismo confliggevano in pieno con le statuizioni del Concordato e con la stessa legislazione italiana. La legge n. 847 del 1929, infatti, attribuiva alle autorità ecclesiastiche la regolamentazione dei matrimoni religiosi “concordatari”, stabilendo che questi avessero ipso facto valore anche civile.
Papa Ratti si spingeva fino ad indirizzare una lettera personale a Vittorio Emanuele III, perché intervenisse sul suo Primo Ministro. Ma la cosa aveva un effetto controproducente. Mussolini (che non aveva perdonato a Pio XI l’omelia del 28 luglio) considerava il fatto come una indebita ingerenza, adontandosi ancor più per l’accusa, ormai ricorrente, di imitazione del modello tedesco: «Dire che il fascismo ha imitato qualcuno o qualcosa – aveva detto in una precedente occasione – è semplicemente assurdo.» In verità, una chiara emulazione dell’antisemitismo tedesco era innegabile, anche se lo spirito e spesso pure la lettera della legislazione italiana erano certamente diversi.
Le pressioni vaticane non avevano comunque successo, e il 17 novembre 1938 – come si è già detto – il RDL n. 1728 recepiva le indicazioni del Gran Consiglio del Fascismo in materia di matrimoni misti. Da quella data – secondo la vulgata del dopoguerra – avrebbe avuto inizio una contrapposizione più netta fra Chiesa cattolica e regime fascista in tema di antisemitismo.
In verità, la contrapposizione era principalmente sul matrimonio concordatario. Quanto al resto, il dissenso era soltanto sul tipo di antisemitismo. La Chiesa restava nettamente contraria al razzismo materialista, che pretendeva di attribuire ai popoli la superiorità o l’inferiorità sulla base di caratteristiche fisiche (ma, in realtà, non soltanto di queste). E tuttavia la Chiesa stessa assegnava categorie assai simili in base a parametri religiosi. Se fosse stato possibile stilare una classifica in forza di quei criteri, gli ebrei sarebbero stati certamente collocati al fondo dell’elenco.
Nulla di nuovo, intendiamoci. Era la forma più antica di antisemitismo, l’antigiudaismo, frutto di un pregiudizio antico quanto la religione cristiana; pregiudizio che attribuiva collettivamente agli ebrei come popolo la responsabilità dell’uccisione di Gesù Cristo e la persistenza nel rifiuto della salvazione. Né si creda che un tale atteggiamento fosse limitato ai settori più reazionari del mondo cattolico. Era quello il sentire – con sfumature più o meno marcate – della Chiesa nel suo complesso; ed anche di quello stesso Papa Pio XI che, mentre affermava l’essere “spiritualmente semiti” dei cristiani, non sembrava per nulla discostarsi dalla tradizione antigiudaica.
Ciò è provato dalla vicenda della Humani Generis Unitas (Sull’unità del genere umano), la famosa “enciclica nascosta” di Papa Ratti. Commissionata al dotto gesuita americano John Lafarge nel giugno 1938 (all’indomani della visita di Hitler in Italia), l’enciclica era pronta in bozza già nel settembre successivo, nei giorni del varo delle prime “leggi razziali” italiane. La sua stesura definitiva si protraeva per alcuni mesi, e nel febbraio 1939 – al momento della improvvisa morte di Pio XI – era sulla scrivania del Pontefice, forse pronta per la firma.
L’enciclica avrebbe potuto essere promulgata dal successore, Pio XII, ma ciò non sarebbe poi avvenuto: probabilmente per evitare prese di posizione troppo nettamente antitedesche, nel momento in cui la Chiesa Cattolica era di fatto alleata della Germania nazista nella guerra di Spagna. Rimarrà tra le carte segrete del Vaticano fino al 1995, quando sarà disvelata.
Ma, qual’era il contenuto dell’enciclica non promulgata? Era innanzitutto una netta contestazione del razzismo e una condanna di ogni comportamento persecutorio. Azzardo una ipotesi: probabilmente Papa Ratti l’aveva concepita nei giorni della visita di Hitler a Roma, preoccupato per il possibile “contagio” tedesco. Sullo sfondo, non soltanto il problema della razza, ma forse anche quello di ipotizzate Chiese cattoliche “nazionali”.
Dunque, contestazione del razzismo e, in uno, dell’antisemitismo fondato sul razzismo. Ma, al tempo stesso, riaffermazione di tutti gli stereotipi dell’antigiudaismo. Si prendevano le mosse dall’accusa di deicidio rivolta non a singoli ebrei ma all’intero popolo ebraico: «L’atto stesso con cui il popolo ebraico ha messo a morte il loro Re e Salvatore…»[40]
Da quell’evento era derivata la diaspora, vista come una punizione divina: «Da una misteriosa provvidenza di Dio, questo infelice popolo, distruttore della sua stessa nazione, i cui leader, fuorviati, avevano invocato sul loro capo una maledizione divina, furono condannati, per così dire, a vagare perpetuamente sulla faccia della terra…»[41]
In quel momento storico, che vedeva gli ebrei fatti segno a persecuzioni vergognose, andava chiarito che «la vera natura, l’autentico fondamento della separazione sociale degli ebrei dal resto dell’umanità … è di carattere religioso. Essenzialmente la cosiddetta questione ebraica … è una questione di religione e, dal momento della venuta di Cristo, una questione di cristianesimo.»[42]
Era – in sostanza – la predicazione di un antisemitismo diverso, basato su pregiudizi di carattere religioso anziché di carattere etnico.
RAZZISMO BIOLOGICO, RAZZISMO SPIRITUALE, RAZZISMO CULTURALE: CONTRASTI E DIVARICAZIONI
Non soltanto antisemitismo e razzismo non erano la medesima cosa; ma lo stesso antisemitismo presentava, al suo interno, differenziazioni di non poco conto. E ciò, segnatamente, nell’Europa degli anni ’30. Si poteva essere razzisti senza essere antisemiti, considerando gli ebrei come appartenenti ad una generica “razza bianca”. Così come si poteva essere antisemiti senza essere razzisti: era il caso – abbiamo appena visto – di vasti ambienti cattolici.
L’antisemitismo era un fenomeno antichissimo, nato praticamente – si è già detto anche questo – con la religione cristiana. Il razzismo scientifico, l’unico vero razzismo, era invece un fenomeno relativamente nuovo. A parte una
generica esaltazione della propria “stirpe” (fattore comune un po’ a tutti i popoli dell’antichità) il razzismo, come teorizzazione della superiorità genetica di una razza rispetto alle altre, poteva essere fatto risalire all’Illuminismo; quando Voltaire aveva riproposto in chiave moderna l’antico “poligenismo”, ovvero la teoria che le razze umane avessero origini diverse e separate, e non fossero derivate da un’unica coppia di progenitori, come affermato dalla Bibbia. Dopo Voltaire, era stato Kant a tentare una elaborazione razzista, teorizzando l’esistenza di una razza bianca – nettamente superiore – e di tre inferiori razze di colore (“Sulle diverse razze dell’uomo”, 1775).
Ma era in epoca più recente, a metà circa dell’800, con il fermento culturale del Positivismo e con lo sviluppo dell’antropologia e del darwinismo, che il razzismo assurgeva a “scienza delle razze umane”. Naturalmente, era fin da allora guardato con sospetto dalla Chiesa, ostile allo scientismo e timorosa che l’antropologia fisica potesse rivalutare il poligenismo. Fra i molti teorici del razzismo scientifico ottocentesco, ne va ricordato uno in particolare, che può essere considerato come il trait-d’union fra ottocento e novecento, fra positivismo e nazionalsocialismo: il nobile diplomatico francese Arthur de Gobineau, il primo a parlare – nel 1855 – di una mitica “razza ariana”.
Orbene, era a questo filone positivista, laico, scientista che prevalentemente faceva riferimento il nascente razzismo italiano. E – per inciso – dirò che è sufficiente sfogliare qualche numero de “La Difesa della Razza” per averne conferma.
Peraltro, questo taglio scientista non stava bene ad alcuni elementi che nell’avventura della rivista razzista s’erano imbarcati con precise (e diverse) inclinazioni. Era il caso, per esempio, di un Giorgio Almirante, che aveva aderito all’iniziativa sol perché partecipe della cerchia giornalistica di Interlandi e che, nei suoi articoli, parlava del razzismo quasi esclusivamente come esaltazione delle radici romane della stirpe italiana. Era quello che la Pisanty identifica come “razzismo culturale”,[43] e che era sostanzialmente la rivendicazione di una superiorità della “civiltà italiana” rispetto alle altre (implicitamente, anche alla tedesca).
D’altro canto, questo razzismo culturale – ammesso che di razzismo si trattasse – era l’unico che appartenesse alla politica fascista pre-1938. Era il culto della stirpe italica, delle sue origini e del suo sviluppo, dalla Roma antica al Rinascimento. Questo filone – che prescindeva dall’antisemitismo e che promanava dalle suggestioni del nazionalismo risorgimentale – era molto diffuso anche in Grecia (culto della Grecia classica), nella Germania del Secondo e poi del Terzo Reich (culto degli antichi germani), nella Turchia di Atatürk (culto degli ittiti), nonché tra le minoranze intellettuali di alcuni paesi esteuropei alla ricerca di una identità nazionale separata dal coacervo slavo (Bulgaria e Croazia, soprattutto).
In una diversa posizione si collocava il “razzismo spirituale”, che rivendicava la superiorità dello spirito italiano ed europeo rispetto a tutti gli altri. Suo principale esponente era Julius Evola, filosofo tradizionalista che era un docente di spicco della Scuola di Mistica Fascista, oltre che redattore del quotidiano farinacciano “Il Regime Fascista” e della rivista “Dottrina del Fascismo”.
Nel 1937 Evola aveva pubblicato un’opera di grande impatto, “Il Mito del Sangue”. Era una summa di tutte le teorie che potevano dirsi razziste, dall’antichità agli albori del XX secolo, tutte tra loro legate da una forte spiritualità che ne faceva cosa profondamente diversa dal moderno razzismo hitleriano. Concetti ribaditi nel 1941 in “Sintesi di dottrina della Razza”, con una energica sottolineatura relativa agli ebrei. Evola non attribuiva loro i fenotipi di una razza fisica distinta da quella dei popoli europei, considerandoli però una separata “razza dello spirito”. Intendiamoci: Julius Evola non era un moderato; la sua ostilità a un certo semitismo (compreso quello degli “ariani giudeizzati”) era dura, radicale; e tuttavia ostile sia al “materialismo zoologico” dei nazisti, sia alle loro iniziative persecutorie, che condannava risolutamente, senza mezze misure. Per contro, guardava con favore agli “ebrei spiritualisti”, cui apriva anche le pagine della sua rivista di elaborazione politico-dottrinaria, “La Torre”.
Ovviamente, Evola era apertamente critico nei confronti di quanti, in Italia, sembravano voler scimmiottare i tedeschi, sia pure senza i loro picchi di fanatismo. Tutto ciò lo portava ben presto in rotta di collisione con gli altri ambienti de “La Difesa della Razza”: nel 1942 sarà radiato dal novero dei collaboratori, con l’accusa di essere anti-razzista.[44]
N O T E
[38] Si veda: Il Manifesto della Razza. // “La Risacca”, n. 73, maggio 2018.
[39] Renzo DE FELICE: Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo. Giulio Einaudi editore, Torino, 1972.
[40] Humani Generis Unitas. it.wikipedia.org/
[41] Humani Generis Unitas. Cit.
[42] Humani Generis Unitas. Cit.
[43] Valentina PISANTY: La Difesa della Razza. Antologia, 1938-1943. Bompiani-RCS Libri, Milano, 2006.
[44] La Difesa della Razza. it.wikipedia.org/
LO “SCHERMO PROTETTORE”
L’Italia fascista protesse gli Ebrei durante la Seconda guerra mondiale
LA NON BELLIGERANZA
Fin dalle prime battute della Seconda guerra mondiale – quando l’Italia era ancora “non belligerante” – si palesavano i tratti assolutamente originali dell’antisemitismo “ufficiale” del regime fascista. Tratti – inutile dirlo – completamente diversi rispetto a quelli della Germania hitleriana.
Era, quello italiano, un antisemitismo assolutamente sui generis; e che probabilmente non ci sarebbe proprio stato
se il cosiddetto “ebraismo internazionale” (in realtà, un esiguo numero di finanzieri israeliti dei paesi anglosassoni) non avesse organizzato una massiccia campagna propagandistica contro le “aggressioni fasciste” in Etiopia, in Spagna e in Albania.
Di ciò è testimonianza l’asilo offerto, fin dai primi giorni del conflitto, agli ebrei stranieri che emigravano dai territori occupati dai tedeschi. La normativa varata nel ’38 stabiliva che gli ebrei stranieri non potessero fissare stabile residenza in Italia, ma non prevedeva alcuna restrizione per il transito o per una permanenza non definitiva. Malgrado le leggi razziali, quindi, l’asilo temporaneo aveva continuato ad essere accordato ampiamente agli ebrei provenienti dalla Germania e da altri paesi europei.
Dopo l’invasione tedesco-sovietica della Polonia, a settembre, le rappresentanze diplomatiche italiane si erano attivate per consentire che alcune migliaia di cittadini polacchi trovassero asilo in Italia; e, tra di essi, numerosissimi ebrei. Ció – come evidenzia lo storico italo-israeliano Sergio Minerbi – era avvenuto «con la copertura dei loro superiori a Roma e talvolta persino del Ministro degli esteri Ciano». Quanto a Mussolini – malgrado atteggiamenti che al Minerbi sembrano contraddittori – «nel caso esaminato evidentemente non si oppose all’azione dei diplomatici».[45]
L’afflusso dei profughi israeliti – e non soltanto dalla Polonia – era tale che, nel dicembre 1939, i vertici dell’ebraismo italiano si attrezzavano per gestire un fenomeno che cresceva a ritmi sempre più sostenuti. Nasceva così la DELASEM (Delegazione per l’Assistenza degli Ebrei Emigrati), cui si é giá accennato in un precedente articolo.
L’atteggiamento italiano nei confronti dei profughi ebrei aveva un significato evidente: malgrado il Patto d’Acciaio con Hitler, l’Italia non aveva alcuna intenzione di praticare un antisemitismo di carattere persecutorio.
Il comportamento italiano era tanto piú significativo se si considera che altre nazioni, rette da regimi democratici e influenzate da gruppi di pressione israeliti, avevano un atteggiamento ben piú restrittivo nei confronti dei profughi ebrei. Certi paesi, anzi, non avevano atteso neanche l’inizio della guerra per chiudere le porte all’immigrazione ebraica. Clamoroso il caso degli Stati Uniti d’America, ove peraltro l’amministrazione Roosevelt era fortemente condizionata da ambienti dell’alta finanza ebraico-americana. E il riferimento al potentissimo Ministro del Tesoro, Henry Morgenthau, é d’obbligo.
Vi é un episodio che piú di ogni altro simboleggia il crudele atteggiamento degli americani. Il 4 giugno 1939, proveniente da Amburgo, giungeva al porto di Miami, in Florida, il transatlantico tedesco “Saint Louis”, con a bordo 930 profughi ebrei che chiedevano di essere accolti negli Stati Uniti. Ai profughi, su preciso ordine del presidente Roosevelt, veniva rifiutato l’asilo sul suolo americano, ed il transatlantico doveva riprendere la rotta per l’Europa.
Da quell’episodio prendeva le mosse la politica delle porte chiuse all’immigrazione ebraica, che poi caratterizzerà la condotta statunitense negli anni della Seconda guerra mondiale.
Una curiosità: nel dopoguerra, la vicenda della “Saint Louis” ispirerà un romanzo di successo (“La nave dei dannati”) ed un film premiato con un Golden Globe (“Il viaggio dei dannati”).
“LO SCHERMO PROTETTORE”
La netta diversitá fra le politiche antisemite di Roma e di Berlino si protraeva anche quando l’Italia entrava in guerra
(giugno 1940). Anzi, era proprio nei teatri di guerra e nelle zone d’occupazione che il contrasto tra i due modelli appariva chiaro, nettissimo, evidente anche per gli osservatori più sprovveduti.
La profonda diversità tra la linea tedesca e l’italiana è energicamente sottolineata anche nei testi fondamentali della storiografia olocaustica: da “Il nazismo e lo sterminio degli ebrei” di Léon Poliakov,[46] a “La distruzione degli Ebrei d’Europa” di Raul Hilberg.[47]
Poliakov, in particolare, ebbe a qualificare addirittura la presenza italiana come uno “schermo protettore” nei confronti delle comunità ebraiche dei paesi occupati: «Mentre, in generale, i governi filofascisti dell’Europa asservita non opponevano che fiacca resistenza alla attuazione di una rete sistematica di deportazioni, i capi del fascismo manifestarono in questo campo un atteggiamento ben diverso. Ovunque penetrassero le truppe italiane, uno schermo protettore si levava di fronte agli Ebrei, che li salvaguardava sia dai lacci del IV-B che dai massacri e dalle persecuzioni dei Quisling locali. Un aperto conflitto si determinò alla fine tra Roma e Berlino a proposito del problema ebraico.»[48]
La verità è che, anche negli anni ’38-43 e pur in vigenza della legislazione antisemita, il regime fascista italiano manteeva nei confronti della popolazione ebraica un atteggiamento che, essendo certamente discriminatorio, non era tuttavia persecutorio né, tantomeno, cruento. E ciò, pur nella consapevolezza che tale atteggiamento avrebbe provocato notevoli attriti con l’alleato tedesco.
Alla fine del 1940 – quindi a guerra ormai inoltrata – il numero dei cittadini italiani di religione israelita che era ristretto nelle speciali strutture di internamento o di confino per elementi considerati potenzialmente pericolosi per la sicurezza nazionale, ammontava a circa 200:[49] un numero che (pur se destinato a crescere gradatamente fino a raggiungere le 1.000 unità nel 1943) appariva assolutamente fisiologico in rapporto al totale – che abbiamo visto essere di circa 50.000 – degli ebrei italiani.
“UN DEBITO DI GRATITUDINE”
Anche in tempo di guerra, dunque, in Italia si continuava ad essere «estremamente blandi nel trattamento degli ebrei» (Gœbbels), ed il nostro paese era «forse l’unica parte d’Europa controllata dall’Asse dove la toppa gialla non è obbligatoria».[50]
Analoga la situazione nelle colonie (Libia in primis) e nei territori acquisiti dopo la campagna balcanica del 1941: le
due province dell’area quarnarino-slovena (Fiume e Lubiana) e le tre della Dalmazia. Quanto all’Albania – unita all’Italia dal 1939 – questa diventava un sia pur piccolo rifugio per gli ebrei balcanici, al punto che la minuscola comunità ebraica locale (200 anime) cresceva del mille per cento: alla fine della guerra si conteranno in Albania circa 2.000 israeliti.[51]
Ma, piú che in questi territori, era soprattutto nei Paesi occupati che si evidenziava particolarmente la differenza tra le linee italiana e tedesca. Casi assai noti sono quelli delle zone d’occupazione congiunta o, meglio, contigua: in Francia, con una poco nota appendice nella colonia Tunisina; e nei Balcani (Croazia, Montenegro, Grecia).
Sono casi che hanno formato oggetto di numerose e voluminose pubblicazioni, la cui diffusione – peró – é stata limitata ai soli addetti ai lavori. Tra tali pubblicazioni, mi piace ricordare soprattutto il libro dello studioso israeliano Menachem Shelah, dedicato ai rapporti fra l’esercito italiano e gli ebrei della Dalmazia e della Croazia,[52] intitolato significativamente “Un debito di gratitudine”.[53] Quello che emerge dall’opera di Shelah e da quelle di molti altri studiosi delle politiche d’occupazione italiane è non soltanto la diversità, ma più ancòra il contrasto e l’aperto conflitto tra la linea italiana e quella adottata dalle autorità tedesche nei confronti degli ebrei.
Certo, non mancano autori (e non soltanto di scuola anglosassone) che preferiscono evidenziare ogni aspetto di rigidità delle autorità italiane verso le popolazioni israelite.[54] Ma la gran parte degli storici – di ogni orizzonte politico – è unanime nel sottolineare piuttosto l’atteggiamento comprensivo e protettivo delle forze d’occupazione italiane. Anche autori di marcata ispirazione antifascista – come lo storico della resistenza e della deportazione Mario Avagliano – riconoscono l’evidente contrasto fra le politiche d’occupazione italiana e tedesca: «in Francia, Jugoslavia e Grecia, i comandi italiani intervengono spesso a difesa degli ebrei e sottraggono molti di loro ai tedeschi, salvandoli dalla persecuzione e dalle deportazioni.»[55]
Le vicende specifiche, le testimonianze di parte ebraica, le recriminazioni delle autorità tedesche sono numerosissime e perfettamente documentate. Molte sono riportate nel giá annotato scritto di Maurizio Cabona, che – oltre ad essere rimarchevole anche per altri aspetti – ospita un discreto numero di significative citazioni. Ne riporto ancòra una, relativa alla zona d’occupazione in Francia: «il 12 febbraio, dopo un colloquio a Parigi con Adolf Eichmann, Knochen scrive ancora: “La migliore armonia regna fra le truppe italiane e la popolazione ebraica.” (…). Il 6 marzo 1943 l’Obersturmfuehrer Heinz Roethke scrive ad Eichmann che la IV Armata italiana ha usato la forza per liberare gli ebrei arrestati dalla polizia francese ad Annecy. (…) Ancora il 21 luglio 1943, quattro giorni prima della caduta di Mussolini, Roethke ribadisce nel suo promemoria sullo stato attuale della questione ebraica in Francia: “L’atteggiamento italiano è ed è stato incomprensibile. Le autorità militari italiane e la polizia italiane proteggono gli ebrei con ogni mezzo che sia in loro potere. La zona di influenza italiana, particolarmente la Costa Azzurra, è divenuta la terra promessa per gli ebrei residenti in Francia”»[56]
N O T E
[45] Sergio I. MINERBI: La diplomazia italiana e il salvataggio di ebrei e polacchi. “Nuova Storia Contemporanea”, anno XII, numero 2. Casa editrice Le Lettere, Firenze, marzo-aprile 2008.
[46] Léon POLIAKOV: Il nazismo e lo sterminio degli Ebrei. Giulio Einaudi editore, Torino, 1955.
[47] Raul HILBERG: La distruzione degli Ebrei d’Europa. Giulio Einaudi editore, Torino, 1999.
[48] Léon POLIAKOV: Il nazismo e lo sterminio degli Ebrei. Cit.
[49] Mario AVAGLIANO: Ebrei e Fascismo: storia della persecuzione. www.romacivica.net/anpiroma/
[50] Meir MICHAELIS: Mussolini e la questione ebraica. Le relazioni italo-tedesche e la politica razziale. Edizioni di Comunità, Milano, 1982. [Maurizio CABONA: Fascisti, neofascisti, postfascisti ed ebrei. www.settecolori.it]
[51] Albania. www.it.wikipedia.org/
[52] L’Italia presidiava, oltre alla Dalmazia, la metà occidentale della Croazia; la Germania occupava invece la metà orientale.
[53] Menachem SHELAH: Un debito di gratitudine. Storia dei rapporti tra l’Esercito italiano e gli Ebrei in Dalmazia. 1941-43. Stato Maggiore dell’Esercito – Ufficio Storico, Roma, 1991.
[54] P.es. Davide RODOGNO: Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell’Italia fascista in Europa, 1940-1943. Bollati Boringhieri editore, Torino, 2003.
[55] Mario AVAGLIANO: Ebrei e Fascismo: storia della persecuzione. Cit.
[56] Léon POLIAKOV e Jacques SABILLE: Gli Ebrei in Francia sotto l’occupazione italiana. Edizioni di Comunità, Milano, 1955. [Maurizio CABONA: Fascisti, neofascisti, postfascisti ed ebrei. Cit.]
ALTRO CHE “NAZIFASCISMO”… L’ITALIA PROTESSE GLI EBREI
Non solo nell’Europa occupata, ma anche nella stessa Germania nazista
LA POLVERIERA BALCANICA
Oltre alla Francia, l’altro principale teatro che vedeva l’occupazione parallela – o comunque la presenza – di forze
italiane e tedesche era la penisola Balcanica. Noi controllavamo l’Albania, il Montenegro, la Dalmazia, la metá occidentale della Croazia e gran parte della Grecia. I tedeschi presidiavano il resto: Serbia, Croazia orientale e una parte minore (ma strategicamente piú rilevante) della Grecia.
Orbene, era in questo secondo teatro che il contrasto italo-tedesco sul trattamento degli Ebrei esplodeva clamorosamente.
Ho giá detto dell’Albania, divenuta una meta privilegiata dell’immigrazione israelita, con una popolazione ebraica aumentata del mille per cento nel giro di pochi anni.
Quanto alla Grecia, rimarchevole soprattutto era quanto avveniva nella Macedonia egea, una delle regioni sotto occupazione tedesca. Capoluogo di questa regione era Salonicco, cittá che, con il suo 40% di abitanti israeliti, poteva essere considerata la capitale dell’ebraismo esteuropeo. Ebbene, leggo su Wikipedia: «Si stima che, tra l’inizio dell’occupazione e la fine delle deportazioni, dai 3.000 ai 5.000 ebrei riuscirono a fuggire da Salonicco trovando un rifugio temporaneo nella zona italiana.»[57]
Ma era soprattutto nel mosaico ex-jugoslavo che il contrasto italo-tedesco si manifestava a tutto campo. Al punto da apparire inspiegabile ad alcuni osservatori, costretti a rifugiarsi in arzigogolate ricostruzioni fantapolitiche. Taluni di essi, pur riconoscendo il ruolo delle forze armate italiane in difesa degli ebrei nei territori occupati, riconducono il tutto ad un semplice atteggiamento “buonista” dei militari; alcuni – addirittura – si spingono fino ad immaginare una “congiura” degli alti gradi militari per salvare gli ebrei, alle spalle di Mussolini.
Lo Steinberg – per esempio – nel suo libro “Tutto o niente”,[58] a proposito degli ebrei ex-jugoslavi che erano riparati oltre le linee italiane, ipotizza che i nostri generali si fossero rifiutati di obbedire ad un ordine del Duce che imponeva di consegnare i rifugiati ai tedeschi. A riprova, cita l’annotazione autografa di Mussolini – «nulla osta» – apposta a margine di una nota del Ministero degli Esteri relativa ad una sollecitazione di Ribbentrop perché gli italiani consentissero la deportazione ad est degli ebrei della Croazia occidentale.
In realtà, quella annotazione, così come altre disposizioni del genere, era semplice fumo negli occhi, e rientrava in una precisa strategia per documentare una inesistente adesione italiana alla linea deportazionista germanica. Gli ordini veri o – se non proprio gli ordini – le calde raccomandazioni che venivano impartite a voce ed in termini di assoluta segretezza erano di tenore completamente diverso.
Naturalmente, nessuno troverà mai un autografo del Duce che invitasse a sabotare la politica antisemita degli alleati tedeschi. Ma una prova indiretta del reale atteggiamento italiano la fornisce – forse senza rendersene conto – lo stesso Steinberg, quando riferisce di un episodio avvenuto ancóra pochi mesi prima della caduta del regime fascista: «Nel marzo 1943 l’ambasciatore tedesco fu ricevuto in udienza privata dal Duce, il quale gli promise che, in futuro, avrebbe assunto una linea più dura con i suoi generali. Nulla cambiò. Fintantoché l’improvviso armistizio dell’8 settembre 1943 non pose fine all’alleanza dell’Asse, nessun ebreo sotto la protezione delle forze italiane fu mai consegnato ai tedeschi, ai francesi, ai croati né a chiunque altro.»
Ed è sempre lo Steinberg – più o meno consapevolmente – a fornire anche una ulteriore e piú diretta riprova: «In verità, sono stato obbligato ad acconsentire all’espulsione – diceva il Duce al generale Robotti in quello stesso marzo 1943 – Ma pensate a qualunque scusa vi piaccia, così da non dover consegnare neanche un ebreo. Dite che non abbiamo mezzi di trasporto per portarli a Trieste e che il trasporto via terra è impossibile.»
Altro elemento che configge con la tesi della “congiura” è la fisionomia politica dei pretesi congiurati, in gran parte – come si diceva allora – “camerati di sicura fede”, cioè fascisti se non fascistissimi. Era il caso, per esempio, di Mario Roatta, già comandante del Servizio Informazioni Militari negli anni ’30, già comandante del Corpo Truppe Volontarie Italiane in Spagna, già addetto militare a Berlino, già Capo di Stato Maggiore e, all’epoca della pretesa congiura, comandante della II Armata in Croazia. Roatta era un “duro”. Sarebbe stato lui – secondo le accuse che gli verranno mosse nel dopoguerra – a commissionare alla Cagoule l’uccisione degli antifascisti ebrei Carlo e Nello Rosselli in Francia. Ed era lui, proprio in quei giorni, a condurre la lotta antipartigiana in Croazia con metodi che gli costeranno poi un processo per “crimini di guerra”. Eppure, si trattava di quello stesso personaggio protagonista di un significativo episodio che Steinberg riferisce nelle prime pagine del suo libro: «Un sopravvissuto che era lì, Imre Rochlitz, allora diciassettenne, mi riferì che il generale Roatta aveva detto che, se avesse avuto dei sottomarini a sua disposizione, li avrebbe trasportati tutti in Italia [gli ebrei], dove sarebbero stati al sicuro.»
E che dire dell’altro grande protagonista della “congiura”, il governatore della Dalmazia, Giuseppe Bastianini,
principale pilastro della politica di salvataggio degli ebrei croati al punto da essere definito da Ribbentrop “un ebreo onorario”? Bastianini, peraltro, non era un militare, ma un gerarca fascista, di quelli – come si diceva allora – “antemarcia”. A soli 22 anni era stato vicesegretario nazionale del PNF, poi segretario dei Fasci Italiani all’Estero, deputato alla Camera dei Fasci e delle Corporazioni, membro del Gran Consiglio del Fascismo. Passato dalla struttura del partito a quella della diplomazia, era stato ambasciatore in Portogallo e in Grecia, prima di essere chiamato a ricoprire l’incarico di Sottosegretario al Ministero degli Esteri. Dopo una parentesi londinese, durante la quale aveva vanamente cercato di mettere un freno alla deriva antitaliana dell’Inghilterra, nel giugno 1941 era stato nominato governatore (civile e militare) della Dalmazia. Eppure, questo “fascista della prima ora” avrebbe – secondo i sostenitori della teoria del complotto – operato quasi come il capo di una congiura contro il regime.
La verità è evidentemente un’altra; ed anche qui è lo stesso Steinberg a palesarla, o almeno a lasciarla trasparire, quando afferma che fu il Ministro degli esteri Ciano a suggerire a Bastianini di internare in un campo da crearsi nella zona italiana della Croazia gli ebrei stranieri che non potevano più trovare rifugio entro gli angusti confini delle tre province dalmate: «Questo ministero chiede se la soluzione più semplice non sarebbe di organizzare un campo di concentramento per gli elementi ebrei provenienti dalla Croazia, scegliendo un territorio croato occupato da noi.»[59]
Concludendo, è lecito affermare che la tesi del “complotto” non regge neanche ad una attenta lettura delle pezze d’appoggio fornite dagli stessi assertori di quella tesi.
L’AZIONE DEL MINISTERO DEGLI ESTERI
Secondo le teorie complottiste, le cospirazioni antifasciste dei militari fascisti sarebbero state addirittura tre: una in
Croazia e Dalmazia, una in Grecia ed una in Francia. Una quarta – vorrei aggiungere – avrebbe dovuto essere in atto a Roma, al Ministero della Guerra, ove si era perfettamente al corrente della linea adottata dalle nostre forze armate nelle zone d’occupazione. Inoltre, una quinta congiura antifascista avrebbe dovuto necessariamente serpeggiare tra le mura del fascistissimo Ministero dell’Interno, gerarchicamente responsabile delle forze di polizia che operavano in zona d’occupazione, sia pure agli ordini dei locali comandi militari. Le forze di polizia (come si può desumere anche dal rapporto Roetke citato a proposito della situazione francese) erano in perfetta sintonia con l’esercito.
Ma v’è di più, perché – oltre a quelle in atto al Ministero della Guerra e al Ministero dell’Interno – una sesta e più clamorosa congiura antifascista avrebbe dovuto avere come centro il Ministero degli Esteri e come capo il genero di Mussolini, al tempo dominatore assoluto ed incontrastato di quel dicastero.
Mettendo da parte l’ironia, è proprio questo l’elemento che smentisce inequivocabilmente ogni ipotesi di congiure o anche di semplici iniziative personali dettate da spirito compassionevole. Infatti, è provato e riconosciuto da tutti che anche i diplomatici italiani – in coincidenza se non in accordo con l’azione dei militari – dispiegarono tutta una serie di attività in difesa degli ebrei italiani all’estero, nonché degli ebrei italianizzati di origine greca, jugoslava, libica. E – contrariamente ai casi dei ministeri della Guerra e degli Interni – nel caso del ministero degli Esteri si era in presenza di un contenzioso ufficiale con la Germania, nonché di ordini scritti e di dettagliate disposizioni impartite a tutte le sedi diplomatiche: ci si trovava di fronte, in sintesi, ad una precisa linea politica espressa dalle massime autorità del regime fascista.
Grazie alla tutela fornita dalle strutture diplomatiche, per tutto il corso della guerra gli ebrei italiani e italianizzati residenti in tutti i paesi controllati dall’Asse, Germania hitleriana compresa, continuarono a godere di assistenza e protezione al pari di tutti gli altri cittadini italiani all’estero, e non vennero quindi deportati. «Il Ministero degli AE – riporto dal blog “La Nostra Bandiera”[60] – si oppose sempre con fermezza a qualsiasi discriminazione degli italiani israeliti persino in Germania. E quando, a partire dal settembre 1942, Berlino cominciò a tergiversare sull’impossibilità di tenere un atteggiamento privilegiato verso gli italiani israeliti sia in Germania che nei territori occupati, dichiarando che a partire dal gennaio 1943 essi sarebbero stati rimpatriati o deportati in Polonia, il Ministero ne organizzò subito il rimpatrio. Un telegramma del 3 febbraio del MAE, nel dare ordine di avvertire tramite tutte le rispettive sedi consolari del pericolo incombente, estese la protezione anche agli ebrei della ex-Jugoslavia originari dei territori annessi all’Italia. Cioè gran parte della Slovenia, Lubiana compresa. Tale protezione venne estesa, con la circolare del 21 marzo del medesimo anno, anche ai parenti stretti degli italiani israeliti. Estesa anche a molti del Nizzardo. In tal modo poterono sfuggire alla deportazione e rientrare in Italia circa 4.000 ebrei.»[61]
D’altronde, tutti gli storici che hanno trattato la materia sono concordi nel condividere questa ricostruzione: da De
Felice («una pagina di grande importanza e finalmente molto onorevole nella storia dei rapporti tra fascismo ed ebrei negli anni della persecuzione») a Meir («gli ebrei italiani residenti in Germania o nelle zone d’occupazione tedesca continuarono a godere della protezione dei rappresentanti diplomatici e consolari»). Altri autori hanno preferito ignorare l’argomento; ma nessuno – che io sappia – ha mai negato che il Ministero degli Esteri abbia concretamente operato, ed alla luce del sole, per la difesa degli ebrei italiani.
In conclusione, é indubitabile che vi sia stata una azione concomitante delle strutture diplomatiche, militari e di polizia italiane, condotta da esponenti di primo piano del regime fascista e da elementi comunque organici al regime medesimo. Tale azione, volta a contrastare la politica antisemita dell’alleata Germania (talora in termini ufficiali, talora in termini ufficiosi), non può essere ricondotta a comportamenti compassionevoli individuali ovvero a congiure di taluni soggetti, ma ha investito in pieno l’azione e le responsabilità dello Stato, del governo e del regime del tempo.
A fugare ogni dubbio, d’altro canto, basterebbe la testimonianza al processo Eichmann di una ebrea italiana divenuta poi cittadina israeliana, la professoressa Hilda Cassuto Campagnano: «Fino all’8 settembre 1943 gli ebrei di tutta Europa conobbero un solo rifugio sicuro: l’Italia fascista.»[62]
N O T E
[57] Storia degli Ebrei a Salonicco. www.it.wikipedia.org/
[58] Jonathan STEINBERG: Tutto o niente. L’Asse e gli Ebrei nei territori occupati, 1941-43. Ugo Mursia editore, Milano, 1997.
[59] Questa e le precedenti citazioni sono tratte dal libro di Steinberg.
[60] La testata del blog – “La Nostra Bandiera” – riprende quella del settimanale ebraico-fascista degli anni ‘30, di cui si è parlato in precedenti articoli.
[61] STARSANDBARS: L’atteggiamento del Ministero degli Affari Esteri e delle FF.AA. durante la seconda guerra civile europea. www.lanostrabandiera.blogspot.com/
[62] Fino ad 8 settembre l’italia fascista rifugio per gli ebrei. www. ilcovo.mastertopforum.net/
N.B: Il seguente documento è stato pubblicato grazie alla concessione dell’Autore Prof. On. Michele Rallo. Una doverosa citazione va fatta alla rivista Risacca di Trapani che ha pubblicato in questi anni gli articoli qui riportati in un unico Saggio/Dossier
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