10 Ottobre 2024
Libreria Recensione

Il Fascismo senza maschere, quello autentico e rivoluzionario – recensione a cura di Maurizio Rossi

La nuova indagine di Luca Leonello Rimbotti

 

Qualcuno forse si domanderà, ma come ancora un altro libro sul Fascismo? Non siamo ormai già a conoscenza di tutto? I segreti, le storie, anche le più controverse, le vicende e i dibattiti, non sono forse già stati tutti svelati e spiegati in ogni prospettiva possibile? C’è ancora qualcosa di ulteriore da scoprire, da indagare e da capire su quella che è stata, piaccia o meno, l’unica, possente rivoluzione che l’Italia abbia mai avuto nella sua complicata storia?

Evidentemente sì. Anzi, ne siamo più che certi. E l’ultima fatica di Luca Leonello Rimbotti sul tema, recentemente pubblicata dalle Edizioni Passaggio al Bosco nella collana «Bastian Contrari» con il titolo «Fascismo rivoluzionario. Il fascismo di sinistra dal sansepolcrismo alla Repubblica Sociale» ne è la migliore conferma.

Per coloro che ancora non fossero a conoscenza delle Edizioni Passaggio al Bosco possiamo sinteticamente sottolineare che si tratta di una giovane e coraggiosa iniziativa editoriale fiorentina nata da un qualificante retroterra militante, assolutamente non conformista, che può già vantare nel suo catalogo un buon elenco di titoli di cultura politica particolarmente interessanti e adatti al momento storico che stiamo attraversando.

Attraverso le oltre quattrocento pagine dell’opera, ma non lasciatevi impressionare dalla mole, si snoda una valida ed esaustiva esposizione delle stagioni del pensiero fascista, in tutte le sue molteplici espressioni. Un fascismo senza maschere, appunto; privo di interessate ricostruzioni artificiali, ma intenso e sincero nel suo percorso. Pagine così interessanti e ricche di contenuti e così belle per ciò che riescono a rendere di nuovo visibile e tangibile che non soltanto mettono in evidenza la conoscenza precisa e obiettiva dell’autore, ma ancor di più pongono nella giusta attenzione la densità e la profondità dell’ideologia fascista; dalla sua nascita movimentista alla maturità di una rivoluzione fattasi Stato, fino al suo epilogo tragico, ma eroico, nella trincea rivoluzionaria della Repubblica sociale. Tante storie, progetti, riflessioni e percorsi che ci parlano del fascismo come di un instancabile e inesauribile laboratorio di volontà e di decisione e quindi di una rivoluzione perennemente in marcia, nonostante gli innumerevoli sabotaggi, le battute di arresto e anche le compromissioni sempre avversate dalla base del movimento.

Sappiamo che il movimento fascista manifestò fin dalle origini diciannoviste, la sua ferma e inderogabile volontà politica di perseguire il fine dell’integrazione totale del popolo italiano all’interno di un processo rivoluzionario di radicale trasformazione dell’intera società in senso fascista, senza escludere alcun comparto sociale o aspetti particolari dalla sua azione di penetrazione; affinché si raggiungesse il completamento culturale e politico della sintesi organica tra Stato, nazione e popolo. Una sintesi che fu indubbiamente di rottura con le ideologie del secolo precedente, che venne dettata da esigenze antiliberali, antimarxiste e antiplutocratiche.

Abbiamo detto delle origini diciannoviste, per la verità dovremmo andare ancora un po’ più indietro nel tempo che comprendere il senso innovativo del pensiero mussoliniano, cioè a quando nell’agosto del 1918 Mussolini decise di cambiare la dicitura del proprio giornale, Il Popolo d’Italia, che passò dall’essere «quotidiano socialista» a quella più decisamente specifica e inglobante di «quotidiano dei combattenti e dei produttori». Con questo passaggio, il Mussolini politico e combattente che aveva saputo interpretare e vivere da volontario la grande guerra come guerra di popolo e l’interventismo come l’innesco rivoluzionario di nuove consapevolezze al di fuori delle politiche borghesi della destra e della sinistra si rivolgeva alle masse lavoratrici italiane, le stesse che avevano riempito le trincee, incitandole ai nuovi compiti che si prospettavano, ovvero emergere nella storia dell’Italia come le nuove aristocrazie dirigenti della nazione contro i parassiti del lavoro e del sangue versato sul fronte. Si trattò di una coraggiosa scommessa per il cambiamento, le cui radici affondavano nel sacrificio della guerra, il momento nel quale le masse popolari e contadine italiane scoprirono di appartenere a una nazione. La trincea non sapeva quali fossero le differenze di classe o di ceto, ma conosceva il cameratismo del sangue dei soldati. Quella comunità solidale esaltata da Mussolini che rappresentò il nucleo iniziale del fascismo.

Per non parlare poi del discorso che Mussolini il 20 marzo 1919 tenne alle maestranze in sciopero dello stabilimento metallurgico Franchi e Gregorini di Dalmine, che precedette di tre giorni l’adunata di Piazza San Sepolcro a Milano e la nascita ufficiale del primo fascismo. Uno sciopero ben motivato nelle legittime rivendicazioni, ma differente nelle sue modalità da quelli consueti. Infatti, i lavoratori organizzati dai sindacalisti rivoluzionari corridoniani stavano autogestendo la produzione nella fabbrica occupata.

A loro, che rappresentavano i produttori e i combattenti quindi le nuove aristocrazie in pectore, Mussolini rivolse infiammate parole di elogio e di stimolo, in esse gli elementi di fondazione della futura ideologia fascista erano già presenti. Nel seguente passaggio estratto dal discorso appare evidente l’intenzione di Mussolini di raccogliere in un unico programma istanze che fino al allora avevano viaggiato su binari differenti e distanti: «Il significato intrinseco del vostro gesto è chiaro, è limpido, è documentato nell’ordine del giorno. Voi vi siete messi sul terreno della classe, ma non avete dimenticato la nazione. Avete parlato di popolo italiano, non soltanto della vostra categoria di metallurgici. Per gli interessi immediati della vostra categoria, voi potevate fare lo sciopero vecchio stile, lo sciopero negativo e distruttivo, ma pensando agli interessi del popolo, voi avete inaugurato lo sciopero creativo, che non interrompe la produzione. Non potevate negare la nazione, dopo che per essa anche voi avete lottato, dopo che per essa 500 mila uomini nostri sono morti. La nazione che ha fatto questo sacrificio non si nega, poiché essa è una gloriosa, una vittoriosa realtà. Non siete voi i poveri, gli umili e i reietti, secondo la vecchia retorica del socialismo letterario; voi siete i produttori, ed è in questa vostra rivendicata qualità che voi rivendicate il diritto di trattare da pari cogli industriali. Voi insegnate a certi industriali, a quelli specialmente che ignorano tutto ciò che in questi ultimi quattro anni è avvenuto nel mondo, che la figura del vecchio industriale esoso e vampiro deve sostituirsi con quella del capitano della sua industria da cui può chiedere il necessario per sé, non già per imporre la miseria per gli altri creatori della ricchezza.»

Rimbotti ci parla di tutto questo con passione e con dovizia di particolari. Particolari importanti perché nelle radici del fascismo possiamo già leggere i successivi arricchimenti politici e dottrinari: dalla fase rivoluzionaria dello squadrismo e della guerra civile in cui si immerse alla conquista del potere, fino alla stagione del regime consolidato, del dibattito sul corporativismo, delle grandi innovazioni e di una modernizzazione sociale in marcia con uno spirito del tutto nuovo, delle varie anime interne al regime che si fronteggiarono aspramente, nei segmenti di una rivoluzione certamente incompiuta per l’insorgere di fattori anche estranei alla dialettica fascista ma propri di differenti logiche di potere. Dobbiamo riconoscere che la necessaria trasformazione fascista in senso corporativo dell’economia e della produzione nella sua interezza, quindi di un totale e radicale superamento dell’organizzazione capitalistica imprenditoriale nell’indirizzo di una civiltà fascista del lavoro, non si ebbe; la Camera dei Fasci e delle Corporazioni venne inaugurata il 23 marzo 1939, troppo tardi e in clima di generale disillusione.

Ciononostante, l’impasse non impedì che numerosi traguardi sociali venissero lo stesso conseguiti, molte riforme strutturali portate a termine, la Carta del Lavoro fu un monumento di socialità e di organizzazione; il tutto a dispetto delle pesanti e minacciose opposizioni delle forze conservatrici, che nel complesso agivano indisturbate per sabotare il fascismo, dei ceti imprenditoriali, della monarchia e perfino delle gerarchie ecclesiastiche che non vedevano di buon occhio gli esperimenti sociali del regime. Molto fu fatto, molto restava ancora da fare come lamentavano i fascisti più intransigenti, spesso vecchi squadristi o giovani irrequieti.

E per la svolta socializzatrice si dovette attendere la Repubblica sociale.

La rivoluzione compiuta sociale e totalitaria che spesso Mussolini aveva invocato dovette essere rinviata a tempi più opportuni e favorevoli.

Insomma, quelle tante complessità che caratterizzarono l’esperienza fascista e che hanno sempre affascinato e incuriosito gli studiosi della materia.

Comunque sta di fatto che il fascismo, coerentemente con la sua vocazione rivoluzionaria originale e originaria, riuscì durante gli anni del regime a mettere in campo un processo di trasformazione globale della società, delle mentalità e dei costumi che non poteva prescindere dallo sviluppo e dall’applicazione di un vasto panorama di interventi pubblici politici e sociali che avrebbero dovuto, attraverso un uso capillare della propaganda e dell’educazione tramite l’inquadramento politico dei vari strati della popolazione, sviluppare una nuova coscienza di appartenenza alla comunità nazionale ricostruendo così di sana pianta il tessuto della vita collettiva. Nel significato fascista si trattava di una comunità nazionale intesa come un luogo spirituale e sociale compiuto che si sarebbe identificata per automatismo nello Stato fascista e che attraverso la mobilitazione educativa delle organizzazioni del partito sarebbe approdata ad una sorta di formalizzazione delle emozioni e l’emergere di nuovi valori civici e politici intesi in chiave mistica, si parlò infatti di una «mistica fascista» da iniettare nella vita civile, ed infine anche eroica; il vivere la quotidianità fascista con spirito antiborghese, con tensione virile, agonistica, e pertanto eroica.

Gli stessi canoni sviluppati dalla cultura fascista miravano a un approdo definitivo verso un fascismo risolto e compiuto nella totalità del popolo italiano, che sarebbe, per forza di cose, emerso come la caratteristica morale e politica identificativa della nuova Italia.

Il nostro autore qualifica tutto questo insieme di programmi e di aspirazioni, di potenzialità e di radicalismo, come «fascismo di sinistra», quindi rivoluzionario e non addomesticato perché appunto «di sinistra». È giusto? È sbagliato? Una tesi ardita? Difficile a dirsi, come difficile è il voler utilizzare categorie già vecchie e superate all’epoca, frutto per altro della interessata stratificazione borghese della vita politica. La democrazia borghese ha sempre conosciuto una «destra» e una «sinistra», con tutte le loro declinazioni possibili e magari anche in concorrenza tra loro, ambedue però funzionali alla dialettica di sopravvivenza e di giustificazione interna della società borghese. Anche al fascismo, ideologia nuova e di rottura del XX° secolo, è allora applicabile questo schema?

Il fascismo rigettò il mondo borghese e il massimalismo progressista creando in primis le proprie categorie di riferimento, e lo fece andando ben oltre la «destra» e la «sinistra», però è anche vero che sopravvissero al suo interno tra le pieghe del movimento modi diversi di interpretarlo e questo fu una debolezza. Una rivoluzione che vanta aspettative totalitarie questo lusso non se lo può mai permettere, la credibilità della sua stessa idea di rivoluzione ne risulterebbe inficiata.

Le grandi rivoluzioni del primo dopoguerra, il fascismo, il nazionalsocialismo, anche il comunismo quello staliniano, hanno rappresentato in generale delle complessità ideologiche e culturali particolarmente articolate che sfuggono alle rigidità interpretative del pensiero politico moderno. Il loro saper essere state, parliamo soprattutto del fascismo e del nazionalsocialismo, allo stesso tempo sintesi nuove e antiche e risoluzione delle contraddizioni della modernità, quindi visioni del mondo destinate a un nuovo meriggio, le fa apparire ancora oggi complicate nelle valutazioni e nelle analisi.

Però, sempre il nostro autore riesce a giustificare in maniera coerente e accattivante questa sua specifica chiave di lettura che sposta irrimediabilmente l’asse del fascismo, puro, intransigente e rivoluzionario verso la «sinistra». Spetterà allora al lettore, che sicuramente non potrà che riconoscere il valore dell’accurata opera di Rimbotti sul fascismo, trarne le personali valutazioni.

Il dibattito resta ancora aperto.

Maurizio Rossi

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