Giusto un secolo fa, all’inizio del 1917, Ansaldo, la grande industria italiana con sede a Genova, fece tradurre e stampare dalla tipografia del quotidiano di sua proprietà, Il Secolo XIX, un opuscolo divulgativo proveniente dalla Ford, la già celebre impresa americana che stava rivoluzionando il modo di fabbricare, attraverso le catene di montaggio, e che avrebbe improntando un’epoca con la standardizzazione produttiva e la serialità degli oggetti. La famiglia Perrone, proprietaria dell’Ansaldo, capisce per prima in Italia la portata della rivoluzione in atto, e diffonde tra dirigenti e tecnici il libretto, con l’invito, assai pratico, “a prepararsi a fare automobili per il dopoguerra”, ma soprattutto con un imperativo pressante, che i Perrone esprimono ai loro dipendenti con il tono oracolare e lo stile simili al Manifesto del Futurismo di Marinetti, così vicino nel tempo e nelle intenzioni rivoluzionarie e palingenetiche.
Occorre suscitare una nuova fede nella standardizzazione, da realizzare attraverso la riproduzione razionalizzata di tecniche, processi e movimenti coordinati dei singoli lavoratori. “Essa, nel nostro ambiente, deve diventare un culto. Gli imbecilli, gli incapaci di coltivare questo culto, noi li preghiamo di cambiare mestiere.” Fascinazione, febbre del progresso, impeto totalitario a svalutare e gettare nella pattumiera tutte le idee passate. Con franchezza di neofiti, i Perrone parlano di “culto”, e tacciano di imbecillità chi non si adeguerà alla nuova religione secolare proveniente da Detroit, Michigan. Così l’Italia impegnata nella mobilitazione totale della grande carneficina bellica accolse, per bocca dei suoi capitani d’industria più lungimiranti, quello che di lì a pochi anni sarebbe stato chiamato fordismo dal nome del suo ispiratore.
Henry Ford fu il primo a comprendere l’immensa portata dell’invenzione dell’automobile, probabilmente a coglierne anche, con l’istinto misterioso degli imprenditori di talento, la natura rivoluzionaria, quasi spirituale di prolungamento di sé ,di protesi ed insieme di componente della personalità dei suoi proprietari utilizzatori. L’ingegnere Frederick Taylor aveva appena proposto un innovativo metodo di organizzazione e direzione scientifica dell’industria, basato sull’eliminazione degli spazi di autonomia degli operai, sulla disciplina, sulla misurabilità e sull’articolazione dei processi produttivi in unità elementari e movimenti ripetitivi, affidati ciascuno ad una persona. Ford, deciso a produrre automobili in serie, introdusse la catena di montaggio mobile in cui ciascun operaio svolgeva esclusivamente e serialmente i medesimi gesti e compiti meticolosamente previsti, calcolati nei tempi e nelle modalità all’interno della linea mobile di assemblaggio, la catena di montaggio appunto. Il tipo umano dell’operaio addetto alla catena ispirò a Charlie Chaplin, negli anni Trenta, uno dei suoi capolavori, “Tempi moderni”. Charlot ha la mansione di stringere i bulloni: i gesti sono ripetitivi, i ritmi intensi e spersonalizzati, l’ambiente cupo e straniante, e neppure la pausa pranzo dà sollievo, poiché è prescelto per sperimentare una macchina automatica per alimentazione, destinata a permettere di mangiare senza interrompere il lavoro.
L’arte, come sempre, va al fondo delle cose meglio e prima delle scienze sociali. Il fordismo ha forgiato un uomo nuovo e diverso, anzi una serie completa, una catena di tipi umani interconnessi al servizio dell’economia come destino. In più, ha imposto la standardizzazione come ideale ed obiettivo, la frammentazione delle attitudini, delle conoscenze e delle abilità, conseguentemente quella dei valori e degli stili di vita, e la serialità (la produzione di massa di oggetti tutti uguali) come principio guida. La mitica automobile Ford T, che uscì dagli stabilimenti di River Rouge, Detroit, per vent’anni, a partire dal 1908, era inizialmente disponibile solo nel colore nero, ma Ford coniò un celebre slogan pubblicitario: “qualsiasi cliente può avere una macchina dipinta nel colore che vuole, basta che sia nera”. A ben riflettere, si tratta dell’idea base di tutta la nostra società. I bisogni sono indotti ‒ l’automobile in quel caso ‒ le loro forme e gli eventuali limiti dipendono dalla riproducibilità, dalla serialità, dalla possibilità cioè di fabbricare, produrre qualcosa in un numero di esemplari tale da essere profittevole (economia di scala). Se la possibilità manca, il pubblico, anzi l’uomo nuovo consumatore, dovrà essere addestrato, condizionato, a preferire “spontaneamente” ciò che passa il convento, salvo cambiare rapidamente gusti e propensioni appena la tecnica e la tecnologia rendano possibile, cioè economicamente interessante, la produzione di modelli diversi, ma soprattutto “nuovi”.
Non crediamo sia casuale che il paradigma fordista sia nato con l’automobile e sia tramontato non solo per la robotizzazione delle fabbriche (il “toyotismo” iniziato nel 1973), ma allorché un nuovo apparecchio ha sostituito l’autovettura nel cuore e nell’inconscio collettivo dei consumatori, il computer nelle sue varie versioni, l’ultima in ordine di tempo quella legata alla telefonia mobile ed allo smartphone. Il fordismo ha poi un’altra caratteristica, quella di farci comprendere l’intima vicinanza, l’interconnessione e l’intreccio tra le grandi ideologie della modernità. Enorme fu infatti la popolarità del modello fordista presso il comunismo di Lenin e Stalin, i quali non solo ne mutuarono il modello produttivo, ma inventarono l’operaio ideale. Il povero Aleksej Stachanov, eroe dell’Unione Sovietica, venne presentato come l’essere umano più produttivo del mondo, il modello da imitare che riusciva a migliorare le già straordinarie prestazioni suggerite dagli ingegneri tayloristi con movimenti più perfetti, meglio coordinati e più veloci, unendoli con la volontà d’acciaio di chi costruisce un mondo nuovo e migliore. L’orchestra sinfonica del Novecento al clangore della Macchina, come capì Ernst Junger nel descrivere la nuova figura emblematica dell’epoca, il Titano al servizio della Tecnica, l’Operaio, il Lavoratore, Der Arbeiter.
Ford fu un protagonista diretto dell’industrializzazione sovietica in quanto macchinari, interi impianti e la quasi totalità dei trattori utilizzati nell’URSS erano di fabbricazione americana, a comprova di quanto poco veritiera sia stata la narrazione sull’inimicizia dei due grandi sistemi capitalistici, quello privato occidentale e quello statalista dell’Est. Gli stessi piani quinquennali di sovietica memoria si svilupparono dall’applicazione dei precetti tayloristi. Baffone Stalin ammirava profondamente l’efficienza americana, tanto da affermare che la combinazione tra quell’efficienza e la rivoluzione russa era l’essenza del leninismo.
Un recente libro di Bruno Settis suggerisce già dal titolo, Fordismi, al plurale, che l’era della produzione di massa ha determinato una lunga serie di conseguenze e di cambiamenti sociali e culturali. E’ così. La rivoluzione del modo di produrre inventò, insieme con il lavoratore della catena di montaggio, il consumatore seriale dai gusti omologati. Aumentò anche considerevolmente i salari, Henry Ford, portandoli a cinque dollari al giorno nel 1913, quando la paga media era di 11 dollari a settimana, ricavandone tuttavia un doppio vantaggio. Da un lato, il lavoratore diventava un potenziale consumatore, ma dall’altro l’intensificazione dei ritmi di lavoro generava un forte, e soprattutto stabile, incremento della produttività.
Il fordismo fu alla base dell’industria pubblicitaria e del sorgere di nuove forme artistiche, prima di tutte il design, la modalità espressiva che consente la riproduzione dei manufatti. Ugualmente, ha influenzato significativamente l’architettura. Ai grandi architetti, per la prima volta, venivano commissionati progetti per fabbriche di grandi dimensioni, con l’utilizzo di materiali sempre nuovi, ma soprattutto la capacità delle linee di montaggio di adattarsi alle produzioni più varie contribuì a modificare l’idea stessa di spazio urbano, di edificio e, naturalmente, i canoni estetici, che virarono decisamente al funzionalismo, alla semplificazione, all’uso prevalente di linee rette dalla produzione più semplice e, come detto, realizzabile in serie. Ricordiamo il celebre articolo di Adolf Loos secondo cui l’ornamento diventava un delitto (salvo resistere negli interni, per il piacere dei committenti privati), l’idea di Mies Van der Rohe secondo cui “il più (la decorazione) è il meno”, in architettura ed in urbanistica, e, soprattutto l’idea di Le Corbusier ,grande utilizzatore della meccanizzazione e del fordismo edilizio, secondo cui la casa non è che una macchina per abitare.
Agli operai, che sino alla rivoluzione taylorista erano titolari di una cultura materiale molto ampia, non restò che il gesto, quell’unico, ripetitivo, da eseguire per un intero, lunghissimo turno con disciplina militare e senza variazione alcuna, in cui consisteva il piccolo anello della grande catena. Esiste dunque un legame intenso tra produzione e società, industria e idee, desideri, propensioni di massa. Quel che già allora contava era la capacità di controllo – materiale e politico ‒ su grandi masse. Il leader della Cina di inizio secolo, fondatore del Kuomintang e principale protagonista della caduta dell’impero, Sun Yat Sen, fu un ammiratore entusiasta di Henry Ford, intravvedendo nella sua gente, usa da millenni alla disciplina confuciana e provvista di un forte senso del lavoro, la più efficace utilizzatrice del fordismo.
Ciò che resta come eredità del fordismo – e del suo antecessore teorico il taylorismo ‒ è il principio, divenuto universale, di scomposizione dei processi tecnici, umani e produttivi, la schematizzazione e la divisione in fasi distinte e successive che perviene alla standardizzazione finale. Questo sul piano industriale ed aziendale; sul piano sociologico, si è trattato del fenomeno impetuoso e travolgente che ha cambiato per sempre, con le vite di milioni di persone, il mondo e la sua percezione.
Negli anni del trionfo fordista, a nulla valse in America la letteratura di John Steinbeck con il romanzo Furore, in cui l’ariete del grande capitalismo scaccia gli agricoltori proprietari dalle loro terre, ed in Russia il tentativo del grande cineasta Eizenstein, l’autore della Corazzata Potiomkin, di contrapporre “l’armonia della persona che lavora” al concetto di economia condiviso da capitani d’industria e vertici bolscevichi. Avversario della produzione di massa fu anche Gandhi, mentre Louis Ferdinand Cèline, che soggiornò a lungo a Detroit descrisse nel Viaggio al termine della notte i ritmi infernali di quella che chiamò “quest’officina mostruosa e sempre più prolifica”.
Si mossero anche i pittori; Diego Rivera, di idee trotzkiste, realizzò un grande murales rappresentando la massa compatta degli operai al lavoro, il cui senso è la celebrazione della produzione come grandiosa opera collettiva. Antonio Gramsci mise in guardia dalla falsa razionalità fordista, pur sperando che i progressi nella capacità produttiva portassero a diminuzioni importanti degli orari di lavoro e liberazione di energie da dedicare alla conoscenza. Ben più sbrigativo fu Umberto Terracini, storico dirigente comunista, il quale dichiarò, in un memorabile discorso alla Camera del Lavoro di Torino, Detroit italiana città della Fiat, che “essere rivoluzionari non significa essere contro la produzione”; consueta fratellanza dei materialismi votati all’ homo oeconomicus.
Negli ultimi decenni, il fordismo come metodo industriale è tramontato: robotizzazione, delocalizzazione, la rivoluzione informatica che permette moduli e modelli produttivi più flessibili, l’esternalizzazione sempre più spinta delle lavorazioni non strategiche, la femminilizzazione della mano d’opera, la società orientata ad un’economia di servizi hanno cambiato il mondo e la fabbrica. Sempre nell’interesse e per iniziativa degli stessi personaggi ed ambienti, tuttavia. Anche la standardizzazione ed il mondo della pubblicità sono cambiati: oggi possono essere diffusi ed incoraggiati comportamenti di consumo più soggettivi. E’ di gran moda, tra i consumatori abbienti, il prodotto di nicchia, favorito dalla flessibilizzazione e delocalizzazione produttiva. Sono stati pressoché aboliti i depositi, i magazzini di scorte, ed in alcuni settori, si è diffuso il fenomeno del “just in time”, ovvero la realizzazione finale dei prodotti solo dopo l’ordinazione.
Ciò che non è cambiato è il ruolo della persona comune, ieri operaio alla catena di montaggio, oggi consumatore seriale, plebe desiderante. La nuova catena di montaggio è il sistema dei desideri indotti, con la sua asticella posta ogni giorno più su, il destino di non raggiungere mai il bersaglio della soddisfazione e della felicità, rinviato sempre al prossimo acquisto, al modello successivo, al nuovo più nuovo.
Davvero Henry Ford aveva capito quasi tutto dell’uomo contemporaneo, offrendogli il prodotto che aveva deciso lui al prezzo più conveniente per i suoi interessi. Oggi come ieri, il lavoratore /debitore/consumatore/uomo massa/ cliente/ visitatore del centro commerciale progettato dalle cosiddette archistar può avere, più di ieri, meno di domani ed in comode rate, “una macchina dipinta nel colore che vuole, basta che sia nera”. Fordismo, l’idea geniale che ha creato il libero schiavo.