16 Novembre 2024
Storia dei Templari

Il frainteso sull’Ordine del Tempio. Raimondo Lullo e Jacques de Molay

Per aver riso del mio patire
Conosceranno un completo obbrobrio
Per essersi di me ingrassati
Un’onta atroce li vestirà

Salmo 35 (Traduzione Ceronetti)

 

E si ill à faita chosa per què aja perdua la maissó,
nuill no à poder de·u rendre
[E se egli ha fatto cosa per la quale abbia perduto la casa,
nessuno ha il potere di riammetterlo].

Regola catalana del Tempio, 7.

1. L’incontro di Famagosta

     È il 1301 quando Raimondo Lullo approda al porto di Famagosta, sull’isola di Cipro. Ad accoglierlo vi è Jacques de Molay, ancora ignaro del suo destino di ultimo Gran Maestro dell’Ordine del Tempio. Il passaggio cipriota rappresenta per Lullo uno dei tanti crocevia della sua febbrile attività di predicatore, scrittore e postulatore di cause missionarie: dalle dispute universitarie ai concilî religiosi. Come si apprende dalla sua breve autobiografia, La vita coetanea, sull’isola egli trascorre un periodo di malattia e convalescenza. Poco prima, è stato infatti avvelenato, a quanto pare, da un suo servitore e da un chierico. Il magister Molay lo accoglie con gioia [hylariter]. Lo conduce quindi a Limassol, dove da meno di un decennio – dopo la caduta di Acri del 1291 – si è stabilito il Governo del Tempio quindi la residenza dello stesso Molay.

     Tanto per il predicatore errante quanto per il maestro templare, lo scorcio finale del 1301 è un susseguirsi di giorni incerti. Molay vive ancora nell’orizzonte della Crociata, del passagium verso Gerusalemme; ma è un orizzonte sul quale si radunano fitte nubi. Le attese e le speranze templari sono perlopiù concentrate sull’alleato tartaro ovvero quei mongoli, guidati dal khan Ghâzân, che hanno già dimostrato di essere fra i pochi a potere contrastare il predominio mamelucco sul Levante. Il quadro strategico richiede manovre di riposizionamento. Queste, sotto il comando del re cipriota Enrico II di Lusignano, del maestro ospitaliere Guillaume de Villaret nonché dello stesso Molay, si concentrano soprattutto sull’occupazione di Rouad [Arwad], isolotto separato da una lingua di mare dalla città di Tortosa, su cui le truppe cristiane stanno ormai da tempo concentrando rifornimenti, armamenti e uomini. Un piano, questo, destinato a svanire tra il 1302 e il 1305, quando la speranza tartara svanirà del tutto.

Castello di Kolossi (Cipro) nelle vicinanze di Limassol, a inizio Trecento fu conteso tra Templari e Ospitalieri

 

     I tempi dei regni cristiani e delle fortezze siriano-palestinesi presidiate da Templari e Ospitalieri sembrano dunque finiti. Le realtà insulari di Cipro e Rouad costituiscono delle teste di ponte valide nella prospettiva di un ritorno sul continente levantino; il fronte crociato però appare più che mai diviso e demotivato. Nonostante il quadro generale sia problematico, Molay non abbandona l’assidua iniziativa diplomatica che lo vede collaborare con diversi centri del potere europeo; ma deve anche presto accorgersi di come l’Ordine templare non goda più dei favori di un tempo. Il papato, da Nicola IV a Clemente V, spinge sempre più per la fusione di tutti gli Ordini religioso-militari: operazione alla quale Molay non intende acconsentire. La presenza di Lullo a Famagosta potrebbe in tal senso non essere casuale. Anche il filosofo maiorchino va infatti predicando da tempo la nascita di un ordine militare unico. Un disegno, quello dell’unificazione delle milizie crociate, che trova anche l’adesione, per non dire il patrocinio, dell’implacabile Filippo il Bello, il quale è considerato da molti il rex bellator, sotto il quale radunare le schiere cristiane per la definitiva riconquista del Levante.

     Sotto questo e altri aspetti, Molay e Lullo sono due figure divergenti. La felicità del maestro templare nell’accogliere il filosofo maiorchino può ben essere stata una reazione estemporanea. Non solo il maestro, ma l’intero Ordo Templi in quel 1301 è proiettato verso interessi eminentemente strategici; attento in particolare alle sorti dei due regni cristiani di Cipro e Armenia in Cilicia, ma anche ad assicurare all’Ordine i rifornimenti necessari ad una campagna bellica sentita come imminente ma, allo stesso tempo, quanto mai precaria. Lullo, da par suo, non considera i vari Ordini militari indispensabili, anzi li reputa entità sacrificabili a favore di un disegno strategico più ampio. La sua veemente attività di predicatore e autore itinerante spazia da circa trent’anni dagli swāq maghrebini fino alle fredde aule dell’Università parigina. Alla corte di Filippo il Bello, Lullo non è un estraneo. Al re francese ha persino dedicato opere e un decennio più tardi, nel pieno del processo templare, giungerà a definirlo Pugil ecclesiae et defensor fidei Christianae. Inquadrare la personalità del maiorchino nonché le varie mire della sua attività non è però sempre agevole. Non vi mancano incoerenze, discrepanze, ripensamenti. Dal tempo della sua bruciante conversione, risalente agli anni Sessanta del Duecento, egli vive stagioni di intenso fervore religioso, durante le quali cerca deliberatamente il martirio nelle terre dell’Islam, alternate a fasi di intenso studio, durante le quali si concentra sulle complesse combinazioni alfanumeriche di cui sono costellati i testi della sua Ars.

     Le divergenze tra il filosofo nativo di Palma de Mallorca e il maestro templare non affiorano nella Vita coetanea. Quest’ultima, con il titolo di Vita Beati Raymundi Lulli, verrà scritta solo dieci anni dopo il soggiorno a Cipro, e proprio in Francia, dove Molay e i suoi confratelli saranno saranno ormai prigionieri, prima a Parigi e poi a Poitiers. Le divergenze tra i due possono però essere stabilite senza sforzo d’immaginazione alcuno. Esse, già negli anni ciprioti, devono necessariamente riguardare sia la questione, già delineata, dell’amalgama degli Ordini militari; ma anche più in generale i significati connessi alla Crociata e come e perché questa vada affrontata. Per il momento, va qui annotato che proprio il rifiuto sdegnoso opposto da Molay al progetto dell’ordine unico offrirà ai suoi avversari le basi politiche per innescare la persecuzione contro di lui e contro la sua organizzazione. Tale rifiuto non è infatti privo di collegamenti con quanto avverrà più tardi durante il processo templare. A tal proposito, la reticenza di Lullo rispetto a Molay appare sospetta; anche perché il suo atteggiamento evasivo, come ci sarà modo di vedere, non riguarda solo la Vita coetanea, ma anche altre opere in cui Lullo accenna ai Templari.

     Ramón Llull non è sempre stato un ardente missionario dedito alla conversione degli “infedeli”. In un passato non troppo lontano, è stato anch’egli cavaliere. A differenza del templare, è stato sposato con figli, nonché siniscalco alla corte di Giacomo [Jaume] II di Mallorca. Non si tratta di un dettaglio secondario. Lullo infatti, già prima di portare a piena maturazione le sue costruzioni speculativo-teologiche, ha dedicato una profonda riflessione al carattere della consacrazione cavalleresca. Negli anni Settanta del Duecento ha composto un’opera centrale per la formazione e il rinnovamento della cavalleria del suo tempo. Si tratta del Llibre de l’Orde de cavalleria (1274), il quale costituisce una vera e propria etica del caballarius, e fors’anche la base mistico-religiosa sulla quale il maiorchino giunge a sancire la priorità dell’unificazione di tutte le milizie cristiane. Quella della fusione delle organizzazioni religioso-militari, in base a quanto ricordato in precedenza, non va dunque considerata una delle tante fantasie che i suoi contemporanei gli imputano; Lullo, con essa, aderisce ad un’istanza strategica e diplomatica, quindi anche politica, che attraversa la cristianità da decenni. Molay, quando lo incontra al porto di Famagosta, è sicuramente consapevole di tutto ciò.

     Quanto detto fin qui non esaurisce però i significati connessi all’incontro cipriota tra Lullo e Molay. Le due figure stagliate sulla baia di Ammochóstou, nome greco di Famagosta, hanno infatti diverse conoscenze in comune. Lullo, come anticipato poc’anzi, è nato e maturato nel complesso panorama del Regno catalano-aragonese, il quale tra gli anni Ottanta e Novanta del Duecento ha attraversato una difficile fase di transizione dinastica, nel segno dei due Jaime: il più potente erede al trono di Aragona, Giacomo II il Giusto, da una parte, e lo stesso Giacomo II di Mallorca, patrono e finanziatore dei progetti missionari di Lullo, dall’altra; sovrano di Mallorca che, si noti, nel corso della Crociata contro gli aragonesi del 1284-85 si è schierato dalla parte dei francesi. A dispetto delle continue dispute e conflitti, la rete di parentele e contatti tra la nobiltà aragonese e quella francese è però molto intricata. Basti ricordare che Filippo il Bello, per parte materna, è strettamente imparentato con i reali di Aragona. A ciò si aggiunga che, nella realtà politica e militare dei territori soggetti a Saragozza, i Templari non sono una presenza fra le tante. Giacomo I detto il Conquistatore (1208-1276), padre di Giacomo II di Mallorca nonché nonno del Giusto, negli anni della sua infanzia era stato allevato dalla e nella Casa templare di Aragona, presso la fortezza di Monzón. I Templari sono infatti parte integrante delle forze di difesa aragonesi e tra i loro nemici principali vi è – già prima della crisi del 1307-1314 – la corona di Francia e il suo esercito. Come noto, l’attrito più violento tra i due Regni, legato all’egemonia sulla Sicilia, è sfociato nelle violenze anti-francesi dei Vespri (1282) ed è giunto ad una parziale ricomposizione solo con la pace di Caltabellotta del 1302.

     In tale contesto, a dir poco turbolento, Molay una volta eletto maestro generale (1292) diviene assiduo corrispondente proprio del re d’Aragona, Giacomo II il Giusto. Per diversi anni, certamente fino al 1306, il maestro templare concorda i suoi piani organizzativi e bellici proprio con la corona aragonese. Non a caso, nello stesso periodo dello sbarco di Lullo a Cipro, Molay scrive una lettera al Giusto, presentandogli la sua visione strategica: lo mette al corrente dell’occupazione dell’isolotto di Rouad e della possibilità di un attacco su Tortosa allo scopo di fare prigionieri tra i saraceni. Nella stessa missiva, Molay rivela inoltre il proposito di attendere proprio a Rouad l’attacco mongolo sui territori mamelucchi. L’incursione su Tortosa però non verrà mai effettuata. Nonostante i fallimenti strategici, i contatti tra Molay e Giacomo II d’Aragona non sono affatto occasionali, ma organici ai piani del Tempio di fine Duecento. Essi suscitano pertanto il sentore che, con Molay, il baricentro occidentale del Tempio si sia spostato da Parigi al triangolo Saragozza, Barcellona, Valencia, tra i quali è compreso il cuore dei domini aragonesi. Gli storici, in particolare Alain Demurger, sono solitamente molto cauti su questo aspetto. Rimane però innegabile che, tra i contatti del Governo templare, la corte del Giusto abbia un posto di rilievo. In un tempo di sanguinose faide tra aragonesi e francesi, ciò basta a nutrire l’idea che, già tra Due e Trecento, le politiche di Molay non dovevano essere molto gradite a Filippo IV e ai suoi dignitari.

Cappella templare di Beaune, Côte d’or (Francia) Probabile luogo dell’investitura di Jacques de Molay condotta nel 1265 o 1266 da Humbert de Pérraud

 

     In ogni caso, quale che sia il peso del canale diplomatico Cipro-Aragona, sappiamo per certo che il Tempio catalano-aragonese è uno dei più attivi nella riorganizzazione del mai partito passagium generale di fine Duecento. Proprio dall’Archivio della Corona d’Aragona sono infatti emerse, oltre alla lettera di Molay al Giusto poc’anzi menzionata, anche un’altra preziosa missiva, nella quale l’humilis magister chiede al Precettore templare aragonese, Ramón de Bell-lloc, di favorire il «passatgium» del Governo dell’Ordine verso Cipro; una richiesta-direttiva, questa, che rientra nel più ampio contesto dei favori e dei privilegi da parte del trono di Giacomo II, il quale per più di un decennio non fa mancare ai Templari aiuti militari, fiscali, nonché esenzioni e concessioni di mezzi di trasporto sulla rotta Marsiglia-Cipro.

Giacomo II ‘il Giusto’ presiede il consiglio dei nobili (Miniatura XIII secolo)

 

2. «Non al modo delle altre conquiste»

     Nella cornice ovvero nel Prologo del Llibre de l’Orde de Cavalleria, completato intorno al 1274, Lullo traccia il sobrio ritratto di un cavaliere anziano che si è ritirato dal mondo per stabilirsi «in prossimità di una selva», lì dove medita «sulla vanità del mondo» e «sul passaggio da questo secolo all’altro». I tratti autobiografici di questo preambolo risultano evidenti per chiunque abbia un’idea delle caratteristiche della conversione del filosofo maiorchino. Invero, quello del cavaliere che in tarda età si volge al rifiuto dei beni terreni quindi alla contemplazione delle verità più elevate potrebbe apparire come un motivo di maniera. Il prosieguo dell’opera smentisce però ben presto un tale pregiudizio.

     «Al principio dell’inverno», narra infatti Lullo, «un re molto nobile, di buoni costumi e prodigo nel bene» manda a chiamare tutta la sua corte affinché si riunisca. Saputo ciò, un «discreto scudiero» decide anch’egli di raggiungere la corte per ricevere la propria investitura cavalleresca. Lo stesso scudiero, stanco per il lungo viaggio, si addormenta però sul proprio cavallo, il quale lentamente lo conduce alla presenza dell’anziano cavaliere ritiratosi in preghiera. A questo punto inizia il dialogo tra i due; dialogo nel quale Lullo sviluppa a pieno quell’etica cavalleresca che, insieme al ritratto del buon principe, rappresenta l’essenza ultima del Llibre de l’Orde de cavalleria. L’enfasi dell’anziano cavaliere viene perlopiù destinata ai requisiti interiori, indispensabili per ogni uomo in armi e legati soprattutto alla sua capacità di autocontrollo e all’ossequio verso la tradizione militare-religiosa. Le questioni meramente pratiche vengono invece lasciate in secondo piano.

     Come si ricorderà, già nella Regola templare primitiva così come nel Liber ad milites templi di San Bernardo, la condotta del cavaliere era stata codificata in ogni minimo dettaglio, dalle azioni giornaliere, ai pasti, al vestiario fino al taglio dei capelli. Non vi mancano certo riferimenti a temi simbolico-spirituali d’ispirazione biblica e alla pratica rituale e religiosa, ma le regole templari hanno anche un valore molto concreto, si può dire di ortoprassi quotidiana. A differenza della regola templare, l’etica cavalleresca stilata da Lullo non ha nulla di eminentemente pratico. A questo riguardo, va notato che il maiorchino non intende affatto fondare l’ennesimo nuovo Ordine equestre, ma si rivolge a tutti i cavalieri, di tutte le osservanze del suo tempo. Le riflessioni lulliane di maggiore rilievo riguardano infatti, in primo luogo, il riconoscimento e l’edificazione del cavaliere consacrato. Ciò implica un’insistenza quasi ossessiva su concetti quali onore, nobiltà d’animo, assoluto rispetto per il prestigio di quello che Lullo chiama Ordine della cavalleria: denominazione, questa, tanto generica quanto già leggibile nella prospettiva di quell’unificazione delle milizie crociate che, per la fine del Duecento, uno dei temi centrali nella predicazione lulliana. Se è vero che Llull non vuole fondare una precisa milizia religiosa, è però anche vero che il Llibre de l’Orde de cavalleria sembra già orientato verso quell’ordine unico al quale Molay, come sappiamo, non accetterà mai di aderire.

     Nel Llibre de l’Orde de cavalleria, la presa di distanza di Raimondo Lullo rispetto ai Templari non è dichiarata, ma vi appare già annunciata. D’altronde, né al Tempio né all’Ospedale né ai vari Ordini di caballarii di area iberica, il filosofo maiorchino concede una specifica attenzione. Egli non vi sembra tenere in alcuna considerazione neanche quell’aura di prestigio solitamente attribuita alle milizie crociate, e in parte derivata dalle origini nobili dei loro ranghi più elevati. Come sosterrà Dante Alighieri nel Convivio [IV, 3, 6], anche per Lullo la nobiltà non è attributo da ricondurre per via diretta al casato o ai natali: più e prima del lignaggio, conta infatti una robusta ed equilibrata costituzione ma, soprattutto, la purezza d’animo del cavaliere; purezza che non va in alcun modo limitata alla sua individualità, ma ricondotta ad una dignità insita nella classe cavalleresca, la quale infatti «è tanto nobile (…) e tanto alta nel suo onore, che non bastano la ricchezza né la nobiltà del lignaggio, o che lo scudiero sia perfetto in ogni suo arto» [III, 17].

     Lungo tutto il Libro dell’Ordine della cavalleria, l’aggettivo «nobile» viene in effetti attribuito tanto all’Ordine del titolo quanto alle azioni compiute dal vero cavaliere nonché al suo coraggio e alla fermezza con cui egli si attiene ai princìpi condivisi con i suoi pari. La nobiltà esaltata da Lullo non è in ogni caso da imputarsi ipso facto alle origini familiari o sociali del cavaller; cosa che non va ovviamente intesa in senso ‘rivoluzionario’ – il che sarebbe estraneo alla mentalità di Lullo e del suo tempo – ma nel senso di una subordinazione delle origini familiari ai principi e ai valori a cui il miles religiosus è chiamato sempre a rifarsi. La svalutazione della stirpe e del lignaggio da parte di Lullo va inoltre misurata anche alla luce della sua conversione religiosa: nato da un casato ricco e nobile originario di Barcellona, egli ha infatti indossato la tunica della stoffa più grezza e rinunciato ai privilegi garantiti dalla classe in cui è stato allevato.

     Sul Llibre de l’Orde de cavalleria sembra in tal senso aleggiare un intento già a suo modo polemico rispetto alle milizie cristiane della seconda metà del Duecento. Queste, infatti, ben lungi dal considerare la nobiltà un fatto principalmente etico e interiore seguono un più collaudato principio selettivo. I mantelli bianchi dei Templari, ad esempio, sono perlopiù costituiti da ‘non primi geniti’ provenienti dalla piccola nobiltà centro-europea. È questo il caso dello stesso Jacques de Molay. Va però anche ricordato, come si è già visto in Presenza sul territorio e missione, che la realtà templare non è affatto chiusa a individui di origini comuni. La cooperazione dei Frères de métier, come la vicinanza e il conforto al mutevole mondo dei pellegrini e dei senza fissa dimora, costituisce infatti parte rilevante di tutta storia dell’Ordine. Dimenticarlo sarebbe quantomeno ingeneroso.

Scultura raffigurante Raimondo Lullo, Entrada della Basilica di San Miguel, Palma de Mallorca (XIV-XV secolo)

 

     In ogni caso, se non un libro anti-templare, il Llibre lulliano in questione sembra comunque anticipare quella veemente esortazione al rinnovamento della cavalleria che Lullo, tra gli altri, chiederà in maniera reiterata tanto al papato quanto alle case regnanti, in particolare a quella francese. In filigrana, vi si possono infatti già leggere quei propositi e quegli auspici sulla scorta dei quali Lullo prenderà a predicare la fusione degli Ordini militari. Propositi e auspici, si noti, che corrispondono ben poco a quelli che, tra Due e Trecento, i Templari portano avanti. Del Llibre de l’Orde de cavalleria va anche quantomeno notata l’assenza di ogni enfasi rispetto alla riconquista cristiana di Gerusalemme. Non tanto perché il maiorchino consideri la Terrasanta irrilevante – di essa parlerà in altri suoi scritti – ma perché, nel Llibre che rappresenta il vero e proprio codice etico stabilito da Lullo per i cavalieri, il passagium verso la Città Santa non trova che qualche raro accenno.

     Ci sarebbe in tal senso da chiedersi perché Lullo non abbia mai fatto di Gerusalemme il punto di convergenza delle sue pur numerose peregrinazioni. Egli è notoriamente molto incline a viaggiare attraverso territori pericolosi per i cristiani, eppure non ha una particolare propensione per il pellegrinaggio verso la Città Santa. In effetti, nell’opera lulliana la componente geografico-sacrale incentrata su Gerusalemme quale polo del mondo sembra cedere il passo alla tematica costante e quasi ossessiva dell’ortodossia cattolica da imporre a tutto l’Islam. Non a caso, compito e dovere primario del cavaliere lulliano è quello di «mantenere e difendere la santa Fede cattolica» [II, 2]. Per tale via, per quanto impercettibilmente, il filosofo maiorchino sposta i termini della missione crociata da un piano bellico-strategico a un piano strettamente dogmatico-religioso. Oltre i «veri israeliti» di Urbano II e Bernardo di Chiaravalle, chiamati a difendere Gerusalemme e uccidere i malvagi, il maiorchino non rinnega compiutamente i motivi del passagium generale provenienti dal XII secolo, ma pone l’accento soprattutto sulla difesa della fede; perché questa deriva da «Dio Padre, il quale inviò suo Figlio a prendere la carne nella Vergine gloriosa nostra Dama Santa Maria; e per onorare la Fede e moltiplicarla, soffrì in questo mondo molti travagli, molte ingiurie e una morte dolorosa» [II, 2].

     L’intransigenza lulliana in favore dell’ortodossia cattolica è uno di quegli aspetti che vanno non solo sottolineati, ma anche ricollegati all’incompatibilità tra l’etica lulliana e l’etica templare; quella reale prima ancora di quella scritta sulle Regole. I Templari, infatti, particolarmente nei periodi di pace, si sono dimostrati molto inclini alla convivenza con altre fedi e altre mentalità; e ciò fino al punto di cercare un’alleanza con i mongoli! Di contro, Lullo predica costantemente una missione nell’Oltremare affinché vi si imponga la fede cattolica, tanto con la predicazione quanto con la sottomissione delle popolazioni assoggettate. Questa, che potrebbe sembrare un’inclinazione naturale in un missionario semi-laico del XIII secolo, nasconde in realtà una questione profondamente problematica per lo stesso Lullo. Come noto, la Crociata era inizialmente nata sul trasporto di un pellegrinaggio pacifico verso il Santo Sepolcro; pur con tutte le sue complicazioni, è ancora questa la caratteristica che viene enfatizzata da San Bernardo al momento della fondazione dell’Ordine del Tempio. La pratica bellica, tanto controversa per gli ambienti conventuali, era in effetti vista nel più indulgente dei casi come un male necessario. L’atteggiamento di Lullo, almeno all’apparenza, va oltre tali scrupoli e implica un interesse geopolitico mirante a una conversione di massa dell’intero mondo musulmano: una conversione a dire il vero non solo difficile da concretizzare, ma anche controversa rispetto all’insegnamento evangelico, il quale parla sempre di annunciare, ma mai di imporre.

     Tale atteggiamento di Lullo, che si potrebbe definire proto-colonialista, non è però immune da ripensamenti e contorsioni di vario genere. Non bisogna infatti illudersi che egli non abbia maturato dei convincimenti più profondi sui significati del passagium verso l’Oltremare. Convincimenti che in taluni casi possono anche essere in contraddizione con il flusso principale della sua predicazione. Nella settima e ultima parte del Llibre de L’Orde de Cavalleria, si legge, ad esempio, «Glorioso Signore, pietoso, umile, semplice e soave! Vedo tanti cavalieri e tanti nobili principi, Signore, che vanno alla Terra Santa d’Oltremare e tentano di recuperarla per la forza delle armi. E vedo che si consumano senza giungere al loro fine. Per questo credo, Signore, che la conquista di quella Terra Santa non si abbia a realizzare al modo delle altre conquiste, ma alla maniera degli Apostoli; con amore, con orazioni e con spargimento di lacrime e sangue» [III, 10]. Se la risoluzione a partire per le terre d’Islam e predicare il cattolicesimo è anche qui ferma e costante, si avverte però una forte sfiducia rispetto al passagium in armi quindi violento. Si tratta di una sfiducia che non è affatto esclusiva di Lullo. Anche tra gli stessi Templari, contemporanei di Lullo e reduci dall’Outremer, ve ne sono molto convinti che sia «davvero folle combattere i Turchi, ora che Gesù Cristo ha smesso di contrastarli».

     Se è dunque vero che Lullo non rigetta per principio l’uso della forza quale mezzo per spingere gli “infedeli” alla conversione al cattolicesimo, egli non lo reputa però sufficiente. Nei toni assunti nella settima e ultima parte del Libro dell’Ordine della Cavalleria si registra anzi un cambio di prospettiva in tal senso. Le parole lulliane sulla conquista della Terrasanta, che «non si deve realizzare al modo delle altre conquiste», suonano infatti come un’indubitabile presa di coscienza della natura ormai colonialista assunta dall’idea di Crociata del suo tempo. Si tratta di un aspetto sul quale si è già insistito nel primo di questi interventi: Il colonialismo eterno? Con natura colonialista si allude qui al fluire di risorse, di mezzi e di uomini verso il Levante che, tra i secoli XIII e XIV, ci parla già di un graduale quanto inesorabile oblio della reale natura del pellegrinaggio verso oriente. Un oblio al quale gli stessi Templari del tempo di Jacques de Molay non sembrano affatto estranei, per quanto alcuni di loro siano spesso travagliati e incerti. Le conquiste dell’Oltremare per le truppe crociate, per l’inizio del Trecento hanno infatti già acquisito un valore sempre più strategico, territoriale, per non dire predatorio, e sempre meno votivo, peregrinante e propriamente evangelizzatore.

     Una valutazione per quanto possibile complessiva porta a pensare che Lullo, parlando di una «conquista che non si deve realizzare al modo delle altre conquiste», dia una prova, per quanto parziale, di lucidità rispetto a tale carattere colonialista delle Crociate. La prospettiva assunta nello scorcio finale del Llibre de L’Orde de Cavalleria rappresenta in tal senso un momento importante dell’opera lulliana perché, quantomeno, vi si scorge un barlume dell’autentico spirito pellegrino che aveva animato molte genti dei secoli centrali del Basso Medioevo. Una manifestazione votiva, questa, che è da leggere anche come una vitale quanto residua propensione verso un centro sacro presso il quale recarsi per far rivivere in sé la pienezza dell’uomo realizzato perché vicino alla propria origine trascendente. Nel graduale oblio dello spirito pellegrino che colpisce gli ultimi secoli del Medioevo si può in effetti riconoscere la remota origine del colonialismo, il quale rappresenta ancora oggi il vizio occidentale per eccellenza. A tal riguardo, già nel Colonialismo eterno? si è tentato di proporre una mappatura della deriva spirituale dell’Occidente scaturita dalla scomparsa dall’immaginario occidentale di un qualsiasi polo sacro. Una scomparsa alla quale ha fatto seguito, a livello di mentalità collettiva, quel moto centrifugo per il quale gli occidentali sono divenuti in massa preda delle sfrenate e nefaste manipolazioni ideologiche e propagandistiche che connotano l’epoca attuale.

     Si può però tranquillamente ammettere che la perdita di qualsiasi polo trascendente, un polo che «non andrebbe conquistato al modo delle altre conquiste», ha letteralmente scandito la catabasi spirituale occidentale nella quale siamo ancora oggi coinvolti. La pseudo-civiltà occidentale degli ultimi secoli è infatti venuta a gettarsi mani e piedi nelle fauci del baratro centrifugo, proprio perché non ha più voluto riconoscere, né interiormente né esteriormente, un centro spirituale dal quale avviare il proprio viaggio di riscatto e liberazione dalle miserie terrene. Il risultato è stata una prigionia esistenziale senza possibilità alcuna di liberazione, nell’inebetito smarrimento che riconosce solo il confuso miraggio del molteplice: un molteplice divenuto ormai tanto mutevole quanto manipolabile. La cancellazione di qualsiasi Città Santa da tutte le mappe e da tutte le prospettive collettive si è dimostrata fondamentale per imporre l’assolutismo materialista; ma sarebbe vano qualsiasi tentativo di imputare alla sola modernità lo smarrimento di qualsiasi polo sacro, fisico o interiore che sia. Il male parte da lontano. Come detto nel Ritiro dal Levante, già su tutta l’epoca delle Crociate aleggia un’interpretazione eccessivamente letterale della Gerusalemme terrestre, spesso abusivamente annessa alla Hierusalem interior. Se non altro, però, negli scritti riferibili al Tempio quanto più in generale nella concezione del pellegrinaggio medievale rimane traccia insopprimibile di una visione geografico-simbolica che fino al Trecento era ancora viva e interiormente operante.

     La deriva spirituale dell’Occidente contemporaneo, come il suo pervasivo dispotismo tecnocratico, possono facilmente indurre a pensare che tutto ciò sia definitivamente scomparso: che ‘tutto sia perduto’. In realtà, l’occultamento di qualsiasi centro trascendente visibile non comporta necessariamente la scomparsa della Città Santa dall’orizzonte interiore. Certo, i segni sono dei più nefasti. Se il Levante medievale era una realtà piuttosto mutevole nella quale, a seconda dei casi, le diverse prospettive strategiche e religiose ora si scontravano ora s’incontravano; l’odierno Medio Oriente è un’area geografica stabilmente dominata da entità e personalità letteralmente diaboliche. La terrificante carneficina che vi viene condotta senza sosta è opera di individui che usurpano da decenni il nome di ebrei e di Israele: sedicenti giudei che “non filtrano più i moscerini” ma che, in compenso, “divorano cammelli e civili disarmati” con modalità sempre più atroci. Stiamo invero parlando di involucri umani posseduti dalle entità più basse, alle quali la follia contemporanea ha attribuito posizioni di comando. Nient’altro che i golem, sicari in giacca a cravatta, mandati dalla mafia cabbalistica che da secoli sconvolge questo relitto di mondo. Come se ciò non bastasse, il tutto è reso ancora più ributtante dalla condotta dei vari “governanti” e loro faccendieri occidentali, i quali lucrano vergognosamente sull’abominio, inviando armi sempre più distruttive al boia di turno e occultando i crimini della bestia geopolitica operante al centro del Levante.

     Tutto ciò non può essere abbellito oppure occultato in nessun modo. L’abominio della desolazione non è mai stato così manifesto. Sappiamo però anche che la «civitatem sanctam Ierusalem novam» [Ap. 21, 2] non appartiene alle logiche terrene. Essa non ha limiti territoriali o appartenenze etniche, né è la città della felicità mondana e sensoriale che le fantascienze e i transumanesimi americani cercano da tempo di venderci come possibile e giusta.  La vera Città Santa è invece «come sposa ornata per il suo sposo». Tutto ciò, per coloro che vi rivolgono un orecchio distratto, potrebbe suonare come un palliativo, un anestetico di religiosa memoria, buono a consolare gli inquieti, ma privo di una reale sostanza. In realtà, l’attesa della Città Santa rappresenta un autentico atto di sfida, efficace contro la manipolazione centrifuga di questo tempo. La Hierusalem nova che scende dal cielo [Ap. 21,2] è infatti immagine della misericordia divina che viene a riscattare i credenti, ovvero del cuore interiore rischiarato dal Cristo-Logos trionfante. Un atto di sfida che risuona già nelle parole di Cristo sotto processo: «il mio regno non è di questo mondo» [Gv. 18, 36].

 

3. Jacques de Molay e la regola templare

     Negli anni che precedono l’inizio del processo templare, ovvero dal 1292 al 1306, le decisioni del maestro Molay non appaiono mai scriteriate, o anche solo arbitrarie. Egli raramente manca di misura, né sembra particolarmente incline a peccare di vanagloria o tracotanza, che sono poi le deformazioni più comuni tra gli uomini della sua classe. A differenza di Lullo, Molay non è certamente un phantasticus. Le sue lettere trasmettono realismo, conoscenza spesso dettagliata della realtà con cui deve fare i conti, abilità diplomatica. Esse testimoniano di un mondo cristiano sì in difficoltà e in declino, ma mai al punto da scoraggiare il cavaliere borgognone. Quanto agli interessi della sua milizia, Molay è inoltre un magister attivo e coscienzioso: pronto a lunghi viaggi da e verso l’Outremer qualora questi s’impongano come ineluttabili; scrupoloso sul piano economico; a seconda delle circostanze, rigoroso o indulgente nella gestione del suo Ordine. Fino all’arresto del 1307, l’autorità di Molay sulla sua organizzazione è dunque non solo effettiva ma, nel complesso, anche salda. Un’autorità che verrà tenuta in conto da coloro che lo porteranno sul banco degli imputati. Nelle dinamiche di potere, infatti, non c’è mai perdono o clemenza per chi non vuole scendere a compromessi.

     Tutto ciò ovviamente non vuole dire che Molay non abbia commesso errori. Alcuni di tali errori andrebbero però valutati nella prospettiva della disciplina interna all’Ordine templare al passaggio tra Due e Trecento, ovvero in quei decenni in cui, come visto, Jacobus de Molai vive la sua parabola nel tentativo di rinverdire i fasti del passagium generale verso Gerusalemme. Molay crede che i Mamelucchi possano essere battuti e i luoghi sacri alla cristianità recuperati. A inizio Trecento, come già detto in precedenza, manca però coesione e unità d’intenti tra i vari regni cristiani; non vi è pertanto possibile stringere alleanze senza imbattersi, al contempo, in un sostanzioso corrispettivo di inimicizie e trappole delle più imprevedibili. Un pericolo a cui il maestro templare si è forse esposto prima del biennio 1306-1307, coltivando assidui contatti diplomatici con gli aragonesi quindi fuori dall’orbita dell’egemone Francia. Tale frangente sfavorevole non sembra però travolgere gli strumenti di vigilanza tesi ad impedire, all’interno del Tempio, condotte nocive per l’Ordine nel suo insieme: sintomo, questo, che la regola templare non vi sia mai stata dimenticata.

     Nella valutazione delle risoluzioni di Molay e dei ranghi superiori del Tempio è stata forse in alcuni casi sottovalutata proprio l’importanza della regola templare. Quest’ultima è infatti ben lontana dall’essere un semplice e formale statuto; né, come si vedrà a breve, è priva di espressioni oscure e questioni controverse che andrebbero attentamente meditate. Prima di ciò, va però delineata e compresa una delle decisioni fatali di Molay, la quale è stata spesso annoverata tra quei suoi presunti errori di cui si diceva poc’anzi. Come noto, la crisi fra Tempio e corona di Francia si apre definitivamente con il “prestito” estorto da Filippo IV alle casse del Tempio, alla fine del 1306 o, più probabilmente, nella prima metà del 1307. Molay, una volta saputo dell’accaduto, attribuisce immediatamente la colpa dell’ammanco a Jean Du Tour, il quale, si noti, è sia tesoriere del Tempio parigino sia consigliere finanziario della corona di Francia. Avendo concesso una somma ingente al Bello per placare la sete di denari di quest’ultimo, Du Tour è accusato di aver tradito il Tempio e di essersi così disonorato: Molay non esita dunque a privarlo del mantello bianco.

     La vicenda, che fin qui ha ben poco di sorprendente, assume una piega surreale nel momento in cui Filippo il Bello attiva i suoi canali diplomatici, compreso quello papale, per fare riammettere il tesoriere nell’Ordine con la promessa di restituire i fiorini d’oro (pare quattromila) presi in prestito. Dopo lunga contesa, durante la quale il maestro templare rifiuta anche l’invito papale a perdonare Du Tour, quest’ultimo finirà anche lui agli arresti in quell’alba dei lunghi coltelli dell’ottobre 1307 in cui scatta l’ordine d’arresto per tutti i Templari di Francia. La circostanza è stata sottolineata con gusto per l’assurdo da Alain Demurger, il quale ha scritto: «Filippo il Bello, dopo aver salvato un Templare poiché era suo tesoriere, rinnega senza rimorso il suo tesoriere poiché era un Templare!».

     Una delle testimonianze più complete e preziose sulla vicenda Du Tour è contenuta nella Cronaca del Templare di Tiro, a cui lo stesso Demurger fa riferimento, pur ritenendola poco attendibile. In realtà, la sintetica ricostruzione del Templare di Tiro appare non solo credibile, ma anche piuttosto probabile. Le ragioni di ciò si vedranno dopo avere letto il capitoletto [460] di nostro interesse:

«Questo fratello Giacomo di Molay, maestro del Tempio, quando fu oltremare si comportò in maniera molto meschina con il papa e i cardinali, perché era meschino fuori misura, e tuttavia il papa lo ricevette in ottimo modo. E in tutto ciò il maestro se ne andò a Parigi e in Francia, e chiese al tesoriere i suoi conti e scopri che il tesoriere aveva prestato al re di Francia una gran quantità di soldi, si dice quattrocentomila fiorini d’oro, ma non so se erano di meno, e il maestro si adirò molto con il tesoriere, e gli levò l’abito e lo cacciò dall’ordine. Allora quello [Du Tour] andò dal re di Francia, che si adirò molto del fatto che a causa sua gli era stato levato l’abito, e mandò un nobile di Francia dal maestro, pregandolo che per amor suo gli restituisse l’abito, e che ciò che doveva alla casa del Tempio glielo avrebbe restituito volentieri, ma il maestro non ne volle far nulla e rispose diversamente da come doveva alla preghiera di uomo quale il re di Francia. E quando il re vide che non voleva far nulla per la sua preghiera, mandò a pregare il papa che richiedesse lui al maestro del Tempio di restituire il mantello dell’abito del Tempio al tesoriere, e il tesoriere in persona portò questa lettera del papa al maestro del Tempio, che non fece nulla per il papa, ma dicono che il maestro gettò questa lettera nel fuoco che ardeva in un caminetto».

     È dunque il tesoriere in persona a chiedere clemenza, coinvolgendo il Bello e portando il suo caso all’attenzione del papa. Questo ci permette di notare fino a che punto Du Tour sia amareggiato per l’espulsione dall’Ordine; ma anche la possibilità offerta dagli eventi a Molay di servirsi dello stesso Du Tour, il quale ora gli è evidentemente debitore. Il diniego del maestro templare alla riammissione del tesoriere potrebbe dunque apparire frutto di eccessiva severità. Un rigore fuori luogo anche perché gli porterà più sventure di quante già non abbia. Demurger, che nel suo Jacques de Molay (2002) si concentra soprattutto sulla cronologia dei fatti, non vede altra origine all’intransigenza del magister che la sua stessa, irrefrenabile collera. Stranamente, Demurger non prende però in considerazione il peso della regola del Tempio sull’intera faccenda, come pure il Templare di Tiro suggerisce di fare.

     Dopo avere sinteticamente rievocato la questione dell’estromissione di Du Tour dal Tempio, possiamo ora volgere l’attenzione sulle ragioni per cui Molay, insieme al Capitolo parigino, sia giunto a prendere una tale decisione. Questa, che non è spiegabile con la sola, personale collera del maestro templare, rappresenta in realtà una decisione ineluttabile e può essere spiegata solo ricorrendo alla regola templare. Regola che, come noto, è piuttosto rigida e inappellabile sotto molteplici aspetti. In realtà, nella Regula Pauperum Commilitonum Christi, consolidatasi fin dai tempi di Bernardo di Clairvaux e pertanto detta Regola primitiva, sono anche contemplati dei casi in cui i confratelli caduti in colpe minori possono ricevere il perdono della loro Casa; ma quanto alle colpe più gravi, come l’uccisione di un confratello oppure la corruzione di natura simoniaca, la stessa Regola non ammette né deroghe né indulgenze. Questo lo si vedrà meglio a breve. Per il momento si noti come nel caso stesso di trasgressioni più leggere, qualora queste siano reiterate, la stessa Regola primitiva al Capitolo 68 stabilisce:

«Se poi, attraverso pie esortazioni e avendo pregato per lui non avrà voluto correggersi ma si sarà insuperbito sempre di più, allora secondo l’Apostolo sia allontanato dal gregge dei buoni. Auferte malum ex vobis (1 Cor 5,13), è necessario che dalla società dei fratelli fedeli ogni pecora moribonda sia allontanata. Del resto, è il Maestro che deve tenere in mano un bastone e una verga. Il bastone con cui sostenere le forze fiacche degli altri, la verga poi con cui colpire con zelo di rettitudine i vizi di quelli che peccano»

     Si può a questo punto obiettare che Du Tour abbia dato chiari segni di pentimento e che Molay e il Capitolo templare parigino avrebbero potuto riaccoglierlo nell’Ordine, ricomponendo così, forse, anche i dissidi con il papa e il re di Francia. Le cose però non stanno affatto in maniera così semplice. La regola del Tempio non si limita infatti alla sola Regola primitiva. A rendere più complesso il quadro, vi è infatti l’autonomia concessa dalla Chiesa ai Templari tra il XII e il XIII secoli, come emerge chiaramente dall’ampio corpus di quella che viene chiamata Regola francese. Questa, come noto, oltre a contenere una traduzione della Regola primitiva, è divisa in ulteriori sezioni nelle quali vengono normati sia i provvedimenti punitivi che le consuetudini della vita conventuale. Nella sezione comprendente le Pénalité, è ad esempio stabilito che, per le colpe meno gravi, i cappellani del Tempio abbiano preminenza rispetto ai vescovi nell’accordare l’assoluzione a un templare [capitolo 269].

     Vi sono ovviamente diversi passi in cui l’autorità sia del papa sia dei vescovi viene riconosciuta. Difficilmente però si potrà affermare che le varie regole templari, nel loro insieme, riconoscano all’alto clero o al papato un arbitrio assoluto in materia di estromissioni dall’Ordine. Nel capitolo 475 della Regola francese è ad esempio ricordato che il papa è «maestro e papa dell’Ordine subito dopo nostro Signore» e che «può fare richieste a nome di chi abbia perso la Casa al fine di preservare la giustizia della Casa». Con ciò, s’intende dire che la giustizia della Maison templière abbia preminenza sulle decisioni di qualsiasi presule o del papa stesso. A questo proposito, va notato che la regola intesse un fine discorso giuridico. Essa riconosce ad esempio che la Chiesa può sempre assolvere un templare espulso; tale assoluzione non comporta però nel modo più assoluto la sua conseguente riammissione nella Casa templare. Questa non è un’impressione di chi scrive, ma è chiaramente sostenuta anche da Henri de Curzon, curatore dell’edizione della Règle du Temple pubblicata nel 1886. Egli, facendo riferimento proprio al Capitolo 475 della stessa Règle, così scrive: «in molteplici casi trattenuti dal papa, i semplici cappellani dell’Ordine non potevano assolvere il colpevole: il santo padre delegava allora i propri poteri al vescovo del luogo. Questi casi erano la morte di un cristiano, le ferite inferte a un fratello del Tempio o percosse ad un religioso, la negazione della consacrazione di un chierico al momento della sua ricezione, la simonia per entrare nell’Ordine del Tempio. Non si trattava in ogni caso che di una assoluzione spirituale, riservata all’autorità della Chiesa, senza pregiudizio per la giustizia dell’Ordine, la quale seguiva il suo corso» [TdA].

     Sono dunque molteplici i casi per cui un fratello può perdere la Casa. Come bene dice Curzon, in tali casi la giustizia della Chiesa e la giustizia della Casa non necessariamente s’incontrano. Quest’ultima, infatti, continua a seguire il suo corso a prescindere dalle decisioni papali o del clero. Al papa non resta in tali casi che pregare non solo per il singolo templare caduto in disgrazia, ma anche e soprattutto perché «la giustizia della casa sia salva». La regola templare pone dunque maggiore enfasi sulla salvezza della Casa nel suo insieme, che non a quella del singolo fratello privato del mantello. Non basta però riconoscere che i reati legati alla corruzione finanziaria siano ritenuti particolarmente gravi all’interno della Militia Templi. Bisogna invece comprendere come e perché la trasgressione di Du Tour possa essere ricollegata agli aspetti della regola templare fin qui emersi. Essendo quella del tesoriere parigino una trasgressione connessa al denaro, essa deve necessariamente trovare posto nello spettro della simonia, ovvero una delle peggiori colpe di cui un mantello bianco si mossa macchiare. Quello una del tesoriere parigino rappresenta certamente un caso ben particolare di simonia, ma è comunque ad essa riconducibile. Come visto, Filippo il Bello punta a smantellare l’intero Ordine templare per annetterlo all’ordine unico di cui lui sarà Rex bellator e Pugil ecclesiae. Pertanto, la privazione di un’ingente quantità di denaro dall’organizzazione templare può essere intesa come il deliberato tentativo di entrare tanto nelle casse quanto nelle decisioni dell’Ordine, alfine di distruggerlo dall’interno. Du Tour non ha solo concesso un “prestito” senza il consenso del maestro e senza garanzie di rimborso, ma non ha difeso il proprio ordine dall’irruzione di un monarca venuto per distruggerlo. In questo senso, l’immagine dantesca del Bello che porta nel Tempio le cupide vele è molto più efficace e significativa di quello che si possa pensare in un primo istante.

Castello di Monzón, Huesca, Aragona (Spagna) fondato nell’XI secolo

 

     Per completare il discorso fin qui intrapreso sulla regola templare, va solo precisato quanto segue: la limitazione dei poteri del papa discretamente stabilita dalla regola dell’Ordine templare non deve indurre a pensare che, di contro, il maestro generale, Molay nello specifico, abbia poteri assoluti sulla propria organizzazione. Tutto al contrario. In uno dei manoscritti più importanti e al contempo più dimenticati della storia del Tempio, ciò viene precisato nella maniera più inequivocabile. Si tratta del prezioso codice 3344 conservato – come le lettere di Molay menzionate in precedenza – presso l’Archivio della Corona d’Aragona. Tale manoscritto, datato alla seconda metà del Duecento, contiene una versione parziale della Regola templare catalano-aragonese, nella quale sono confluiti soprattutto i codici di condotta, ovvero del tutto simili alle Pénalité della Regola francese di cui si diceva in precedenza, quindi le azioni da intraprendere contro i cavalieri caduti in una qualche trasgressione.

     Al capitolo 7, vi si legge:

«In qualsiasi modo un fratello trasgredisca il comandamento della Casa, si può prendere da lui quanto si possa prendere da un fratello eccetto per la sua tunica, perché non c’è comandamento meschino; e non si prenda tanto a parole quanto nei fatti. Neanche alcun confratello può lasciare la casa per qualsiasi cosa abbia fatto né entrare in altra religione senza il congedo del maestro, o di altro comandante della provincia lì dove avrà lasciato la Casa. Neanche il maestro né chiunque altro gli può dare congedo senza lo sguardo dei fratelli nel Capitolo. E se egli ha fatto cosa per cui abbia perduto la Casa, nessuno ha il potere di restituirvelo. E se non ha fatto cosa perché non la debba perdere, nessuno gliela deve togliere. E se egli ha fatto cosa per cui egli debba scontare punizione di un anno o di un giorno, né il maestro né il capitolo gli possono condonare tale penitenza, secondo quanto stabilito dalla Casa. E se l’apostolo [il papa] prega per uno dei fratelli che ha fatto alcuna di queste cose dette sopra, egli deve pregare per la salvezza della giustizia della casa».

     Questo passo chiarisce oltre ogni possibile dubbio quali siano le prerogative del maestro generale in caso di estromissione di un confratello: «E se egli ha fatto cosa per cui abbia perduto la Casa, nessuno ha il potere di restituirvelo»; neanche il maestro può dunque reintegrare un fratello che si sia disonorato. Non viene qui fatta menzione di procedure speciali per la riammissione di un confratello disonorato. Oltre a questo, il passo ripercorre in maniera pressoché identica quello della Regola francese prima citato [475]. Relativamente alla preminenza della «Giustizia della casa» sulle decisioni di qualsiasi carica o autorità, nell’originale della Regola catalana si legge infatti: «E si l’apostoli preyès per un ffrere que auce feyta aucuna de ces choses desús dites él en doyt preyer saulv la justìcie de la maysó». Si noti come il papa [l’apostoli] sia qui chiamato non già a pregare per la salvezza del singolo fratello, quanto perché si salvi la giustizia della casa. Neanche la Regola catalana concede dunque al papa quell’arbitrio assoluto che forse sarebbe piaciuto al Templare di Tiro. Il principio prevalente, tanto sulla Regola francese quanto su quella catalana, vede dunque l’Ordine come un organismo vivente dal quale è necessario amputare gli arti malati perché non contagino quelli in salute.

     Ora, che Molay abbia gettato nel fuoco la lettera papale, o meno, possiamo comunque dare per certo che, sulla questione del tesoriere e dei fiorini estorti, il Tempio non è disposto a rimettersi all’arbitrato del papa, o di altra autorità esterna all’Ordine. Rispetto alla decisione di Molay e della Casa templare francese di estromettere Du Tour abbiamo dunque la certezza che su di essa abbia pesato prima di ogni altra cosa l’osservanza della regola. Ciò d’altronde non va né immaginato né inventato. Oltre a quanto detto sin qui, anche nella Cronaca del Templare di Tiro [461] viene rese noto che:

«Il re di Francia se ne ebbe molto a male, e alcuni giorni dopo il papa convocò il maestro e da Parigi quello venne da lui, per cui il papa gli chiese di dargli la regola dell’ordine del Tempio per iscritto, e il maestro gliela diede, e lui la lesse. E in seguito fra la gente si à molto parlato dell’ordine del Tempio in tanti modi che io non so che posso scrivere di vero, solo le cose che sono accadute pubblicamente posso ben scrivere, che dopo che si dice che fu esaminato da saggi e da religiosi il testo della loro regola, furono spogliati e il loro ordine fu sciolto e trentasette persone furono bruciate a Parigi. E dicono quelli che li videro bruciare che, mentre bruciavano, gridavano ad alta voce che il loro corpo era del re di Francia e l’anima era di Dio».

     La ricostruzione del Templare di Tiro potrà anche apparire filopapale e persino anti-templare, ma non c’è motivo alcuno per ritenerla mendace. È evidente che, al tentativo del papa di mediare tra Molay, Du Tour e il Re di Francia, il maestro templare abbia opposto la regola del suo Ordine. Clemente V ha chiesto una copia scritta. Data la complessità della questione e data anche la preparazione giuridica dello stesso papa, è molto probabile che si sia trattato di una copia dell’intero corpus della Regola francese, visto che in quella primitiva si fanno ben poche menzioni delle prerogative papali in caso di espulsioni controversi. Ad ogni modo, la stessa regola templare, esaminata in seguito da «saggi e religiosi», deve avere dato la netta impressione di essere ben poco aperta alle ingerenze, papali o regali, nelle decisioni interne ai Capitoli templari. Una propensione all’autonomia, quella della regola templare, che a quanto pare nessuno ai piani alti ha più voluto a tollerare.

     Ecco perché Molay appare «avaro e ostile» al Templare di Tiro. Quest’ultimo, come si capisce fin troppo bene dalla sua Cronaca, avrebbe apprezzato un maestro templare più disponibile al compromesso politico. Gli errori di Molay non dipendono però in ogni caso né dalla sua mancanza di criterio né dalla sua collera. Le questioni personali, o legate alla sua indole, sembrano avere una parte del tutto secondarie nell’intera faccenda. Molto più semplicemente, Molay si è attenuto alla regola templare, regola che peraltro non riconosce al maestro alcun potere speciale di revoca in casi come quello Du Tour.

Castello di Peñiscola, Comunità valenciana (Spagna), fondazione templare, XIII secolo

 

     Oltre la specifica questione del prestito concesso al Bello dal tesoriere templare, in vista della conclusione, va ricordato che il Tempio d’inizio Trecento, pur attraversando una grave fase di generale decadenza, non assomiglia comunque ad una conventicola di tremanti puritani, barricati dietro astrusi codici morali. Lo confermano anche fatti storici di assoluto rilievo. Al di fuori della Francia, dove la tirannia di Filippo IV non lascia possibilità di controffensiva, è proprio nei territori catalano-aragonesi che si manifesta la risposta templare contro il pericolo di soppressione della loro Religio. Se i vari reami e signorie iberiche attuano politiche concilianti e protettive nei confronti del Tempio, anche dopo gli arresti francesi, d’altro canto, una dinamica imprevedibile si innesca sotto il trono di Giacomo II il Giusto, il quale, come sappiamo, per decenni è stato amico di Molay e dei suoi cavalieri. Inizialmente il Giusto non asseconda la persecuzione contro i Milites Christi voluta da Filippo il Bello. Accade però, proprio a partire dal 1307, che diverse truppe templari catalano-aragonesi siano a costrette a disporsi in assetto di resistenza.

     Giacomo II ha forse preso a sospettare in loro dei potenziali nemici pronti a tentare il colpo di mano contro la sua autorità e, chissà, forse anche unilaterali iniziative belliche contro la Francia anti-templare. Effettivamente, le truppe del Tempio aragonese, con l’appoggio delle popolazioni locali, si arroccano in diverse fortezze, sia nell’interno che sulla costa del Levante iberico, sfidando così l’autorità del Giusto, il quale vuole ormai consegnarli agli inquisitori ecclesiastici. Si apre dunque una fase inedita, impensabile fino a qualche decennio prima, in cui le fortezze del Tempio vengono assediate una per volta dall’esercito regio catalano-aragonese. Tra il 1307 e il 1309, cadono Peñiscola, Ascó, Alfambra, Cantavieja e Chalamera. Significativamente, l’ultima roccaforte templare a cadere sarà proprio Monzón, dove i Templari aragonesi meno di un secolo prima avevano allevato e addestrato un giovanissimo Giacomo I, ovvero il nonno dello stesso Giacomo II.

Cattedrale di Saint-Maurice, Vienne, Auvergne-Rhône-Alpes (Francia), presso la quale si tenne il Concilio del 1311-1312. La facciata è stata completata nel XVI secolo

 

     In tutto ciò, che ne è stato di Raimondo Lullo? Egli ha continuato la sua esistenza errante. Tra i centri in cui ha soggiornato più di frequente, dopo il 1301 trascorso a Cipro, vi sono Montpellier, Genova e diverse e spesso ignote località del Maghreb. Egli torna per un’ultima volta a Parigi, tra il 1309 e il 1311. Il suo appoggio alla casa reale francese è fin troppo comprovato dalle opere dedicate a Filippo il Bello, tra le quali spicca il Liber de divina unitate et pluralitate, in cui presenta il re di Francia come «il più alto e potente guerriero, innalzato dalla santa romana Chiesa, per l’estirpazione degli errori e la moltiplicazione delle verità». Ciò ovviamente non prova che Lullo abbia voluto la condanna a morte di Jacques de Molay, ma non prova certamente il contrario. La fama del Raymondus phantasticus, ovvero dell’insensato e stravagante Raimondo, si è intanto propagata. Il Chierico Pietro, suo occasionale compagno di viaggio sulla strada verso il Delfinato, dove a Vienne partecipa al Concilio del 1311-1312, lo definisce addirittura «super phantasticus», proprio perché le proposte di Lullo appaiono spesso slegate dalle possibilità reali, in ogni caso troppo ambiziose e ottimistiche.

     A Vienne, però, Lullo non porta proposte particolarmente stravaganti: la formazione di missionari capaci di parlare arabo e disposti a raggiungere il mondo islamico per convertire gli “infedeli”; il contrasto delle dottrine averroiste dilaganti nell’Università parigina; quindi la tanto discussa quanto irrealizzata unificazione di tutti gli Ordini militari dell’Orbe cristiano. Sul piano pratico, le proposte di Lullo trovano una realizzazione parziale. Per rimanere nell’ambito dei destini del Tempio, va detto che l’annessione da parte degli Ospitalieri dei beni e delle prerogative templari rappresenta una sorta di simulazione del tanto annunciato ordine unico. La fine della cavalleria fondata da Hugues de Payens e Bernardo di Clairvaux, dal punto di vista del diritto canonico, si consuma invece negli ultimi mesi dello stesso Concilio, nel marzo del 1312. Lullo è forse ancora presente. Clemente V emana la Bolla Vox in excelso, con la quale dichiara disgregata la milizia templare e ne vieta la riorganizzazione.

     Fra’ Ramón Llull si mostra alquanto disinteressato alle implicazioni giuridiche e finanziarie degli atti del Bello e di Clemente V contro i Templari. Il caso Du Tour dev’essergli noto, ma nella prospettiva di Lullo non ha mai attecchito l’idea che i Poveri cavalieri di Cristo abbiano diritto all’autonomia alla quale tanto tengono, per quanto essa sia sancita da una regola largamente modellata sulle regole benedettine e cistercensi. Lullo, non sappiamo su quali basi, dà invece credito alle voci sul loro conto. Già prima dell’avvio del processo templare, nel Liber de fine (1305), si era espresso contro la segretezza delle iniziazioni cavalleresche, perché a suo dire espongono i riti d’investitura a maldicenze e sospetti. Un parere che ci conferma ancora una volta il carattere riservato delle cerimonie del Tempio, quanto lo sfavore con cui Lullo guarda ad esse. Quanto invece agli scandali connessi a tali cerimonie, il maiorchino non scende mai nel dettaglio di cosa crede essere vero e cosa falso. Nel Liber de Acquisitione Terrae Sanctae (1309), si limita a scrivere che la loro colpa più grave riguarda delle «cose turpissime a causa delle quali la nave di San Pietro affonda». Fra tali «cose turpissime», non è difficile immaginare l’oscena ritualità imputata ai Capitoli del Tempio. Lullo è pur sempre un terziario francescano. La sua ortodossia cattolica non può fare concessioni e aperture a rituali, a qualsiasi titolo, alternativi.

     E di Molay? Cosa dice? Ancora una volta, come nella Vita coetanea, il suo atteggiamento predominante rispetto al maestro templare è la reticenza. Il che è strano, dato il carattere solitamente verboso e tracimante dell’opera lulliana. Il filosofo di Palma de Mallorca ha ormai ottant’anni. Il protrarsi della sua vita itinerante ha del prodigioso. Man mano che la sua esistenza si approssima alla fine, le notizie sul suo conto si fanno però più incerte e frammentarie. Lascia probabilmente la Francia tra la primavera e l’estate del 1312, proprio mentre i Templari vengono spogliati dei loro beni. Tali incertezze biografiche hanno dal nostro punto di vista un peso molto relativo. Sappiamo per certo che, a differenza del contemporaneo Dante Alighieri, Lullo ritiene i Templari colpevoli, con poche attenuanti e forse anche meritevoli della loro sorte. Non vi è in ogni caso modo di accertare se vi sia stata o meno una personale ostilità tra Ramón Llull e Jacques de Molay. Si può solo immaginare che Molay, all’epoca della sua prigionia, abbia avuto ben altre incombenze che non chiedere notizie del filosofo maiorchino, delle sue predicazioni e dei suoi interventi. Forse di lui ha serbato solo il vago ricordo dei giorni trascorsi insieme a Cipro. Tutto ciò riguarda però la sfera personale, sulla quale, in fin dei conti, non ha mai senso indagare troppo.

Gianfranco Vittorio Strazzanti

San Pawl il-Baħar, Malta, 10 novembre 2024

 

In Copertina, Chiesa di San Nicola, Castello di Monzón, Huesca, Aragona (Spagna)

 

RIFERIMENTI E ANNOTAZIONI

 

1. L’incontro di Famagosta

Raimondo Lullo, La vita coetanea [Ed. or. Vita Beati Raymundi Lulli, 1311], Jaca Book, Milano, 2010, a cura di Stefano Maria Malaspina [Edizione condotta su Baudouin de Gaiffier, in Anallecta Bolandiana, 48, 1930, pp. 130-178], 35, vv. 546-548, pp. 58-59: «Perveniens in Famagostam receptus est hylariter per Magistrum Templi, qui erat in civitate de Limisson, stans in domo eius quousque recuperasset pristinam sanitatem». Dopo aver contratto una grave malattia durante uno dei suoi viaggi missionari tra Egitto, Siria e Armenia, Lullo era stato anche avvelenato da un chierico e un servitore che lo assistevano. Il soggiorno presso la casa di Jacques de Molay a Limassol non dev’essere stato l’unico presso l’isola cipriota, perché si ha notizia della presenza di Lullo anche presso località Buffavento, lungo la costa settentrionale dell’isola, intorno al 1301.

Su Lullo a Cipro, cfr. Demurger, Alain, Tramonto e fine dei cavalieri templari, Newton & Compton, 2004 [Ed. or. Jacques de Molay, 2002], pp. 136-137; per i primi anni di Molay a Cipro come maestro, cfr. ibidem, pp. 85-89; per un approfondimento sulla genesi dell’opera lulliana nella prospettiva della sua azione culturale e diplomatica, cfr. Hillgarth, Jocelyin Nigel, Ramón Llull y el Lulismo en la Francia del siglo XIV, Ed. León Cifuentes, Barcelona, 2018 [Ed. Or., Ramon Lull and Lullism in 14th century France, 1971], Cap. II, particolarmente interessanti i parallelismi con l’attività di Arnaldo da Villanova rilevati da Hillgarth.

Secondo Malcom Barber, tanto Lullo quanto Molay riconoscono, almeno inizialmente, il rex bellator in Giacomo II d’Aragona (il Giusto); cfr. Barber, The trial of the Templars, Cambridge University press, New York, 2006, p. 20: «Lull, who met Molay in Limassol in 1301, where he must have discussed plans with him, wanted a united Order under what he called a Bellator Rex, a role he apparently envisaged could be filled by James II of Aragon».

Per il discorso programmatico di Lullo relativo alla fusione di tutti gli Ordini militari e per la figura del rex bellator, cfr. Da Costa, Ricardo, Ramón Llull y la Orden del Temple, in «Abacus», 11, 2013, pp. 12-142 (111-127). Il testo di Da Costa è molto ricco e ben informato, in particolare sui progetti di Lullo in tema di Crociata e della sua tendenza a interpretare letteralmente i Vangeli; di contro non dice molto sui Templari del tempo di Lullo.

Per una prospettiva generale sull’ars lulliana, Bonner, Antony, The Art and Logic of Ramon Llull,  Brill, Leiden-Boston, 2007.

Il Llibre de l’Orde de cavalleria, scritto in catalano probabilmente tra il 1274 e il 1276, fu una delle opere lulliane con più ampia diffusione a livello europeo. Cfr. Ramón Llull, The Book of the Order of Chivalry, Boydell Press, Woodbridge, UK, 2013.

All’estrema complessità del quadro dinastico di Francia e Aragona, va aggiunto il fatto che la madre di Filippo il Bello, Isabella Jaimez d’Aragona, era figlia di Giacomo I il Conquistatore. Data in sposa a Filippo III l’Ardito, anche per favorire la riconciliazione tra i due regni, nel 1270 Isabella seguì in una spedizione crociata presso Tunisi il marito e il suocero, il carismatico Luigi IX, il re santo. Il re, come noto, morì pochi giorni dopo lo sbarco a causa di un’epidemia di peste e l’Ardito venne proclamato re di Francia in situ. Dopo questi fatti, Isabella ripartì con un contingente per fare ritorno in Francia. Nel corso del lungo viaggio via terra cadde da cavallo nei pressi del fiume Savuto, in Calabria, e morì poco dopo a causa delle gravi lesioni riportate alla colonna vertebrale. Con lei, moriva anche il bambino che portava in grembo. Erano gli inizi del 1271. Nello stesso periodo, Lullo ancora a Mallorca intraprendeva la composizione delle sue opere di edificazione etico-religiosa; Jacques de Molay, ancora templare ordinario, salpava per la prima volta in direzione dell’Oltremare. Al di là del dettaglio patetico, comunque non privo di significato, dell’infanzia da orfano di madre di Filippo il Bello, va qui sottolineata l’immagine al contempo storica e simbolica di una regina di Francia, di origini aragonesi, morta di ritorno dall’ultima spedizione crociata sulle terre islamiche; cfr. Zurita, Jerónimo, Anales de Aragón, Institución «Fernando el Católico», Zaragoza, 1986, XLIII, p. 272, LVI, p. 291, LXIII, p. 299; Próspero de Bofarull y Mascaró, Colección de documentos inéditos del Archivo de la Corona de Aragón, vol. VI, Barcelona, Eusebio Monfort, 1850, XXVIII, pp. 139-141.

Lettera di Jacques de Molay a Giacomo II il Giusto, Limassol, 8 novembre 1301, [Archivio della Corona d’Aragona, 128/27], cfr. Demurger, Tramonto e fine dei cavalieri templari, cit., p. 118; per la lettera di Molay al Precettore templare d’Aragona, Ramón de Bell-lloc [Archivo della Corona d’Aragona, Pergamena Cervera, n. 486], cfr. ibidem, p. 84.

Per il Memoriale di Molay contro la fusione degli Ordini, cfr. Frale, Barbara, L’ultima battaglia dei Templari, Viella, Roma, 2001, pp. 43-48; Id., Il Papato e il processo ai Templari, Viella, Roma, 2001, pp. 34 sgg.

 

2. «Non al modo delle altre conquiste»

Sui Templari delle origini e sulle contraddizioni del pellegrinaggio armato, spunti interessanti in Piemonte, Fabio, Il ‘De laude’ di Bernardo di Chiaravalle: per una teologia della militia Christi, in «Rivista Cistercense», 26 (2009), pp. 5-54.

Sui Templari “disfattisti” e sfiduciati e sulle fonti d’epoca di fine Duecento, Partner, Peter, I Templari, CDE, Milano, 1994, p. 39; già citato in Bafometto e l’idolatria templare, al quale si rimanda anche per le varie accuse contro i Templari.

Considerazioni rilevanti sulla concezione spazio-temporale dell’Occidente moderno, in Guénon, René, Il regno della quantità e i segni dei tempi, Cap. 23, Il tempo mutato in spazio.

Sarebbe interessante approfondire la questione del linguaggio geografico templare, e crociato in genere, legato alle coordinate dell’Outremer e alle regioni cismarine; in tale linguaggio, il Mediterraneo viene inteso non tanto come un mare quanto come un ampio fiume che il pellegrino è chiamato ad attraversare. In questo senso, l’idea del passagium non riveste un significato semplicemente spaziale e logistico, ma quello di un transito qualitativo scandito dall’avvicinamento al luogo dall’ascensione del Cristo che è anche luogo del trascendimento di se stessi.

 

3. Il silenzio su Jacques de Molay

Sullo stato miserevole della cristianità del suo tempo, sulla sua mancanza di unità, interverrà a più riprese lo stesso Lullo, cfr. Darrer Llibre sobre la conquesta de Terra Santa (Liber de fine, 1305), Facultat de Teologia de Catalunya, Barcelona, 2002, p. 94; cfr. Da Costa, Ramón Llull y la Orden del Temple, cit., pp. 111-115.

Sulla personalità di Jacques de Molay, la crisi con il Bello e le circostanze della sua esecuzione, Demurger, Tramonto e fine dei cavalieri templari, cit., pp. 151-165 e 205-232.

Cronaca del Templare di Tiro, 460: «[C]estu frere Jaque de Molay, maistre dou Temple, quant il fu outremer se porta mout escharsement vers le pape et les cardenaus, car il s’estoit mout eschars hors de rayson, et toute fois le pape le resut a mout biau semblant. Et en se myleuc le maistre ala a Paris et en France, et requist dou trezorier dou Temple son aconte et trova que le trezorier avoit presté au roy de France une grant cantité d’avoir, que l’on dit IIII.m. flourins d’or, mais je ne say s’il furent mains, et se couressa le maistre mout fort contre se trezorier, et ly leva l’abit et le chassa de la religion. Dont il vint au roy de France, quy fu moult courousé de se que par s’achaison ly fu levé Pabit, et manda À. haut home de France au maistre, priant luy [que] pour amor de luy ly deust rendre l’abit, et que ce que il devet a la mayson il le rendra volentiers, dont le dit maistre ne vost riens faire, et respondy autrement que il ne d[evo]it a la priere de || tel home come est le roy de France, Et quant le roy vy que il ne vost riens faire pour sa priere, si manda priant au pape que il mandast de par luy au maistre dou Temple  de rendre le mantiau de l’abit dou Temple au trezorier, et le dit trezorier en persone porta la dite létre dou pape au maistre dou Temple, quy ne fist riens pour le pape, ains dient que le maistre jeta la dite etre au feuc quy alumoyt en une cheminee»; passi tratti, come le traduzioni in italiano nel corpo del testo, da Cronaca del Templare di Tiro (1243-1314), La caduta degli Stati Crociati nel racconto di un testimone oculare, a cura di Laura Minervini, Liguori, Napoli, 2000-2005, pp. 340-342.

Ivi, 461: «[L]e roy de France l’eut moult a grief, et quant vint dedens aucuns jours aprés, le pape requist le maïstre et vint de Paris a luy, dont le pape ly requist que il ly donast la regle de sa religion dou Temple par escrit, et le maistre la ly douna, et la lut. Et depuis a esté parlé entre la gent de tantes manieres de la religion dou Temple que je ne say quy verité je puisse escrire, fors tant que les choses quy sont avenues publiquement puis je bien escrire, que aprés que l’on dit que il fu examiné par sages et par les relegions l’escrit de lor regle, furent despozés et desfait lor relegion et XXXVII furent ars a Paris. Et dient siaus quy les virent ardre que, tant com il ardoient, crieent a haute voys que le cors d’yaus estoit dou roy de France et l’arme estoit de Dieu».

Regula pauperum commilitonum Christi Templique Salomonis, 68: «Quod si pijs admonitionibus, fusis pro eo orationibus emendare noluerit, sed in superbia magis ac magis erexerit, tunc secundùm Apostolum, de pio eradicetur grege (Auferte malum ex vobis) necesse est ut à societate fratrum fidelium ovis moribunda removeatur. Cæterum Magister, qui baculum, et virgam manu tenere debet; baculum videlicet quo aliorum virium imbecillitates substentet: Virgam quoque, qua vitia delinquentium zelo rectitudinis feriat»; testo tratto dalla Regula pauperum commilitonum Christi Templique Salomonis nella versione a stampa di Bernardo Giustinian del 1692, a sua volta tratta dalla prima versione a stampa della Regola, apparsa per opera di F. Mennenius, Deliciae equestrium sive militarium ordinum, et eorundem origines, statuta, symbola et insignia, iconibus additis genuinis, Colonia, Kinckius, 1613.

La Règle du Temple, Société de l’Histoire de France (Libraire Renouard), curatore Curzon, Henri de, Parigi, 1886, p. XL: «D’autres textes montrent que, dans plusieurs cas retenus par le pape, les simples chapelains de l’Ordre ne pouvaient absoudre le coupable: le saint-père commettait alors ses pouvoirs à l’évêque du lieu. Ces cas étaient le meurtre d’un chrétien, des blessures faites à un frère du Temple et des coups donnés à un religieux, la négation des ordres de cléricature par un frère au moment de sa réception, la simonie pour entrer dans l’Ordre du Temple. Il ne s’agissait du reste que d’une absolution spirituelle, réservée à l’autorité de l’Eglise, sans préjudice de la justice de l’Ordre, qui suivait son cours».

Ibidem, 475, p. 253 «Et sachiés que [se] nostre Père l’apostoile, qui est maistres et peires de nostre relegion sur tous autres après nostre Seignor, fait prière a la maison por aucun qui en tel manière ou en autre eust laissée la maison, il la fait sauve la justise de la maison; quar il ne fait ni ne veaut pas legierement faire proiere por quoi la justise de la maison se perdist, ançois veaut et comande qu’ele soit prise en ceaus qui l’auront deservie selonc les usances de la maison».

La prima delle colpe elencate nelle pénalité della Regola francese è proprio la simonia: ibidem, p. 153: De symonie. «[224]. La première chose par qui frère dou Temple pert la maison si est symonie; quar frère qui vient par symonie a la maison la doit perdre par ce; quar il ne puet sauver s’arme. Et symonie se fait par don ou par proumesse a frère dou Temple ou a autre qui li puisse aidier a entrer en la relegion dou Temple».

The Catalan Rule of the Templars, a cura di Apton-Ward, Judi, Boydell, Woodbridge, 1992 [MS 3344, Archivo de la Corona de Aragón, Cartes Reales], 7, p. 4: «En qualque manera ffrere trespasarà lo comandment de la maisó, hom por pentre en lui quant que hom pot pentre en ffrere salv son àbit car nuyll comandment no y ha petit; hom no pren tant deu (o) dir come deu fayt. Ne nuil ffrere no pot laxer la maysó per chosa que aya fayta ne entrer en autra religió sense congé deu maestre, o deu comandaor de la provincia là on él aurà lachea la maysó. Ni-l maestre ni nuyll autre no li pot doner congé sense esgart de ffreres, en chapitre. // E si ill à [faita] chosa per què aja perdua la maisso, null no à poder de·u rendre. E <si> no à feyta cosa por què il no la deja perdre, nuil no la li doyt tolre. // E <si> no à fayta chosa per què il aja a far n’atenge [?] d’ana e de jorn, li maistre ne n[u]ill chapitre no li poennt sesta penance perdoner, segons l’stablisment de la meso. // E si l’apostoli preyès per un ffrere que auce feyta aucuna de ces choses desús dites él en doyt preyer saulv la justìcie de la maysó».

In merito ai codici che garantivano l’autonomia templare in materia di estromissioni dall’Ordine, va notato come questa trovi importanti e puntuali consonanze con il dantesco De monarchia. Anche in quest’ultimo, infatti, l’assolutismo papale in materia di decisioni politiche e giuridiche viene non solo contestato, ma anche ritenuto del tutto abusivo. Come noto, le correnti spirituali del Medioevo auspicavano un papato quale autorità super partes, votata alla contemplazione e a una guida per quanto possibile disinteressata alle contingenze e ai privilegi personali. In questo senso, è impossibile non notare tutta l’arbitrarietà delle posizioni di René Guénon rispetto sul papato inteso quale autorità preposta alla creazione del nuovo imperatore. Questa convinzione, che Guénon desume da una divisione dei ruoli desunta dalle caste indiane, potrà anche avere un suo senso dal punto di vista tradizionale da lui abbracciato; ma non trova alcuna conferma nella concezione templare dei rapporti tra i diversi poteri; ancora meno ne trova nello stesso De monarchia. Guénon, infatti, sembra dare per scontato che le sue teorie siano convergenti rispetto a quelle di Dante Alighieri in materia di rapporti tra papato e impero, quando invece non lo sono affatto. In tal senso, Autorità spirituale e potere temporale risulta essere l’opera più ideologica e peggio consigliata tra quelle scritte dallo stesso Guénon.

Per il peccato di simonia nella Regola catalana del Tempio, cfr. ibidem, 73, p. 38: «La prim[er]a sí est simonia car ffrere qui vint per simonia el la maysó, il la à perdua, per so car il y a ni pot sauver sa arma. E simonia se fa per do e per promesa a ffrere deu tennple o auitre, qué li ajdès entrer en la religio deu tennple» [«La prima è la simonia, perché un fratello che viene per simonia nella Casa, la perde, perché non vi può salvare la sua anima. E simonia si fa per dono e per promessa a fratello del tempio o altro, que lo ha aiutato a entrare nella religione del tempio», TdA]. Si noti, rispetto a questo passo come a molti altri della stessa edizione, che la traduzione in inglese di Apton-Ward si prende troppe libertà rispetto al testo originale. È quantomeno significativo che nella Regola catalana non si parli di Ordine bensì di Religione del Tempio [religio deu tennple]. Apton-Ward traduce con «Order of the Temple». È invece importante notare l’uso della parola religio in un contesto iniziatico quale quello di una Casa templare. Il termine potrebbe trovare diverse traduzioni come osservanza o adesione, ma è meglio lasciarlo quanto possibile vicino all’originale. Dello stesso lavoro di cura di Apton-Ward va invece riconosciuto l’accurato lavoro di traslitterazione del Manoscritto 3344, il quale presenta non poche difficoltà anche a livello linguistico. Il testo della Regola catalana è infatti in un francese “ibrido”, che accoglie numerosi occitanismi e catalanismi.

Della lotta templare contro la simonia si trova chiara eco nella Divina Commedia, sia nel Canto XIX dell’Inferno, che riguarda i papi simoniaci fino a Clemente V, quindi nello stesso Canto XX del Purgatorio, lì dove vengono passati in rassegna i sovrani capetingi fino al «Novo Pilato» [Filippo il Bello] che «sanza Decreto» porta «nel Tempio le cupide vele» [vv. 91-93]. Rilevante rispetto a quest’ultimo passo dantesco, il commento dell’Anonimo Fiorentino (1400): «Il Re di Francia, un dì nomato, per sue lettere fece prendere tutti i Tempieri per lo suo reame, avendo avuto prima licenzia dal Papa (benchè il Papa, per piacere al Re, gliele desse contro a sua volontà), et strignere tutte le loro chiese, et magioni, et possessioni, le quali erono quasi innumerabili di potere et ricchezze; et tutte quelle del reame di Francia fece occupare il Re per sua corte; et a Parigi fece prendere il Maestro del Tempio, il quale avea nome frate Giache de’ Signori di Mollay in Borgogna, con LX frieri cavalieri et gentili uomini, oppognendo contro a loro certi articoli di resia, et certi villani peccati contro a natura, et che alla loro professione aveano giurato d’atare la magione a diritto et a torto, et a uno modo quasi idolatri, et sputavono nella Croce, et quando il loro Maestro si conversava era privato et di nascoso, et non si sapea il come; opponendo ancora che i loro antecessori per tradimento feciono prendere la Terra santa, et prendere alla Mansura il re Luis et i suoi. Et sopra ciò fatte dare certe pruove, gli fece tormentare di diversi tormenti per che confessassono, et mai niente vollono confessare nè ricognoscere. Et tenendogli certo tempo in prigione a grande stretto, et non sappiendo dare fine al loro processo, nell’ultimo di fuori di Parigi a S. Antonio, et parte a S. Luigi in Francia, in uno gran palco chiuso di legname, LVJ de’ detti Tempieri fece legare ciascuno a uno palo e cominciare a mettere loro foco da piè e alle gambe a poco a poco, et l’uno innanzi all’altro ammonendogli che quale di loro volessono riconoscere l’errore et i peccati loro opposti, potesse campare. In su questo martirio, confortati da loro parenti et amici che ‘l riconoscessono, et non si lasciassono così morire et vilmente guastare, niuno di loro il volle confessare, con pianti et grida scusandosi come erono innocenti et fedeli cristiani, chiamando Cristo et santa Maria et gli altri Santi, col detto martirio tutti ardendo si consumorono, et finirono loro vita. Et riserbato il maestro loro e ‘l fratel del Dalfino di Vienna, et frate Ugo di Peraldo, et uno altro de’ maggiori della Magione, et menati a Pictieri dinanzi al Papa: et fuvvi il Re di Francia; et promettendo loro grazia, se riconoscessono il loro errore et peccato, alcuna cosa si dice ne confessarono: et tornorono a Parigi, et venuti due Legati cardinali per dare la sentenzia, essendo incontro a Nostra Donna di Parigi, in su gran pergami, et letto il processo, il detto maestro del Tempio si levò in piè, et gridando che fosse udito, disse che mai quelle resie et peccati loro apposti non erono stati veri, et che l’ordine et loro magione era santa, giusta, et cattolica; ma ch’egli era ben degno di morte, però che, per lusinghe del Papa et del Re, alcuna cosa gli avevono fatto confessare. Et partiti i Cardinali, per lo modo degli altri furono arsi. Il fratello del Dalfino, frate Ugo di Peraldo, per paura del martirio, raffermorono; ma poi morirono miseramente».

Lullo definisce il Bello «Pugil ecclesiae et defensor fidei Christianae», in Liber Natalis pueri parvuli Iesu Christi (1310-1311), folio 22; il passo «il più alto e potente guerriero, innalzato…» è contenuto in una lettera posta in apertura al Liber de Unitate et pluralitate (1311), in Raymundi Lulli Opera latina, 7, p. 246, edizione Stegmüller, cfr. Hillgarth, Ramón Llull y el Lulismo, cit., p. 109.

Sulla resistenza dei Templari aragonesi, cfr. Francisco de Montoxó y Montoliu, Los Templarios en la Corona de Aragón, Conferenza tenuta nell’ambito del corso «Los Templarios y la Ordenes militares en España», Escorial, 16 agosto 1990, pp. 661-673 (670-673); per la persecuzione dei Templari e le conseguenti reazioni nei vari regni della penisola iberica, cfr. Martínez Diez, Gonzalo, El proceso de disolución de los templarios. Su repercusión en Castilla, in «Cuadernos de investigación del Monasterio de Santa María la Real», 12 (1996), pp. 87-106.

Per un quadro completo delle dediche di Lullo ai potenti del suo tempo, cfr. Pistolesi, Elena, Alla ricerca dell’autore: un percorso fra dediche, filologia e tradizione, in «Actes del congrés de clausura de l’any Llull. Rammon Llull, pensador i escriptor», Soler, Barcelona, 2019, pp. 105-142.

Alla conversazione con il Chierico Pietro, Lullo dedicherà un’operetta ironica dal titolo Disputatio Petri Clerici et Raymundus Phantasticus [anche nota come Liber disputationis Petri et Raimundi], risalente al 1311.

Per le critiche di Lullo alla riservatezza delle iniziazioni cavalleresche, cfr. Liber De Fine (1305), XI, 2; Hillgarth, Ramón Llull y el Lulismo, cit., p. 96.

Per le «cose turpissime» attribuite da Lullo ai Templari, cfr. Da Costa, Ramón Llull y la Orden del Temple, cit. p. 132; Hillgarth, Ramón Llull y el Lulismo, cit., p. 96, dove si cita Lullo, Liber acquisitione Terrae Sanctae, III, 2: «Pars ista ostendit pericula navicule Sancti Petri et primo sic: Inter Christianos sunt forte multa secreta de quibus secretis poterit orribilis revelatio sicut de Templari evenire… hoc etiam dico de quibusdam palam turpissimis et sensibus manifestis, propter que periclitatur navicula Sancti Petri».

 

 

Si ringrazia il Signor Idali Vera per la preziosa consulenza linguistica e paleografica
sulla Regola catalana dei Templari.

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