Avevo sedici anni, una camicia nera ricavata da una bianca portata in tintoria, magro come un chiodo, gli occhiali dalla montatura pesante e un ciuffo di capelli incapace di lasciarsi dominare dal pettine. Estate del ’60, costa romagnola, le tedesche in cerca di sole pizza e frasi romantiche da sentirsi sussurrare all’orecchio mentre si sfilano i blues-jeans sulla spiaggia e le tue mani che cercano fra le cosce, per dirla con Céline, il senso del mondo… E prendo il treno per Forlì e la corriera, in piazza Aurelio Saffi, per Predappio. La prima volta, da solo, a trovare il Duce nella cripta del cimitero, fra cimeli targhe uno degli stivali che indossava al momento dell’assassinio le decorazioni del capitano di vascello Enzo Grossi lasciate lì a testimonianza. Irrigidito sull’attenti il braccio teso nel saluto romano. Nella penombra un dialogo a due, emozioni, atto di fedeltà…
o di due, hanno ritirato dai grandi magazzini della Germania un babbo natale di gesso perché, con il braccio levato, poteva ricordare il saluto nazista. ‘…sul bordo metallico della tettoia di un distributore di benzina, scorsi dei corpi umani appesi a testa in giù, come bestie macellate. (…) C’erano molte facce impietrite in mezzo a quella gente sulla piazza, ma la gran massa vociava e tumultuava imbestialita verso quel macabro palco… Quasi schiacciato nella calca e dominando a stento il raccapriccio, riuscii ad alzare il braccio destro come per districarmi, e così a tenderlo un attimo in un estremo saluto’.