Al cinema all’aperto, il Zanarini di Riccione, forse avevo sei anni, quando mia zia mi porto a vedere il film, in bianco e nero, su Cyrano di Bergerac. E mi venne da piangere, con lacrimoni e singhiozzi, tanto che mia zia mi ammonì che m’avrebbe riportato a casa. ‘No, no, mi piace tanto!’ e giù altro diluvio di lacrime ed esplosione di singulti… Poi la lettura del testo teatrale di Edmond Rostand nella traduzione di Mario Giobbe, che si è meritato per questo una citazione nella letteratura italiana di Natalino Sapegno. E, ancora, nella versione di Gigi Proietti all’Eliseo di via Nazionale perché lo sentissero ‘nostro’ giovani camerati, anni ’70.
Allora come oggi fieri di quello che siamo di ciò che amiamo e di quanto ci ripugna ‘perché ce l’ho dentro le distinzioni!/ Io non mi attillo, non, come uno sfarfallino,/ ma sono assai più netto, se sono meno carino;/ chè io non uscirei, vedi, per negligenza,/ con la minima macchia sul cor, con la coscienza/ ancora sonnacchiosa, con un onor gualcito,/ e con qualche scrupolo non troppo ben pulito!’…
Fu detto di tutto, il peggior male possibile. E per estirparlo usarono la menzogna, il colpo a tradimento, le sbarre e i chiavistelli. Con spirito giacobino fecero della forza la ragione e dello strapotere il plotone d’esecuzione (Brasillach docet) e il manicomio (Ezra Pound docet), l’onore calpestato e avvilita la passione civile. Eppure – e Antonio Gramsci doveva insegnar loro che ogni verità è atto rivoluzionario -, pur se le ferite dentro di noi sono carne dilacerata, lo spirito non può essere mai domo, la volontà ci rende viva presenza e la testimonianza ‘unguibus et rostro’.
La vicenda è nota. Cyrano, figura tratta dalla storia, è un guascone, poeta di fine sensibilità dietro la maschera rude e spavalda, abilissimo con la spada e da tutti temuto, afflitto da un gran naso che gli deturpa il tratto e gli impedisce di rivelare l’amore che porta per sua cugina Rossana. Solo al momento della morte, per agguato vile e assassino, la verità illumina le ombre della sera e l’inesorabilità del destino. Egli prega Rossana di poter leggere l’ultima lettera di Cristiano, che ella conserva in seno e che ha sempre ignorato essere stata scritta dallo stesso Cyrano durante la guerra contro la Spagna.
‘Che dite?… E’ vana… so… la resistenza adesso,/ ma non ci si pugna nella speranza del successo!… Qual fosco/ drappello è lì – son mille… Ah, sì vi riconosco,/ vecchi nemici miei, siete tutti colà!/ La Menzogna ?/ Ecco, prendi!… Ecco, ecco la Viltà / ed ecco i Compromessi, i Pregiudizi!/ Che/ io venga a patti? Mai! – Ed eccoti anche te,/ Stoltezza! – io so che alfine sarò da voi disfatto;/ ma non monta: io mi batto, io mi batto, io mi batto!’.
Cyrano è lo spirito che soffia libero e avventuroso, è l’amore taciuto – nell’Hagakure è detto: ‘il vero amore è quello inappagato’ – e resosi attraverso altrui voce, è la vita e la morte che si allacciano in una danza, quel ‘passo di danza’ che Dioniso insegnò e Nietzsche intese, insomma quella vita che sì è tragedia ma anche doverosa capacità di non ad essa arrendersi, insomma quella morte che, trascrivendo un verso da un antico papiro egizio, è simile allo ‘stare all’ombra della vela in un giorno di vento’. E, con le sue stesse parole, è lo straordinario personaggio, ribelle irriverente anticonformista, pronto a ‘mettersi quando piaccia il feltro di traverso,/ per un sì, per un no, battersi o fare un verso’. Ed altro ancora…
Nei Diari di Parigi Ernst Juenger evidenzia come la forma si faccia carico di divenire essa stessa sostanza quando quest’ultima si sveli quale pochezza, inconsistenza. E quell’altro, troppo facilmente letto quale ironia e disprezzo, si rivela nel gesto finale e nell’estremo suo dire. Cyrano, morendo, vuole accompagnarsi con quanto nessuno dei suoi molteplici avversari gli può sottrarre ed è il pennacchio del suo cappello. Uno sfilacciato stinto pennacchio su un cappello dalla tesa floscia e lisa che, però, è l’umanissimo grido di sfida contro il cielo e la terra… contro il cielo indifferente e vuoto, contro la terra fin troppo affollata da saccenti aridi parolai voltagabbana e chi più ne ha, più ne metta…
Il pennacchio, allora, è il nulla che abbisogna di una forma qualsiasi, il non senso che si dà accesso attraverso il reiterato variegato gioco delle maschere. Cyrano è l’ascolto che il niente impone. Proprio per questo, magari in modo inconsapevole, ci si commuove. Un naso sproporzionato un verso, ad altri regalato, sul confine tra l’essere e il nulla il primo si dissolve nel secondo restituito al suo legittimo possessore. Linea di demarcazione, tra vita e morte, troppo fragile e atemporale perché possa trasferirsi in atto di promessa e di redenzione. Nonostante ciò, rimane quell’urlo che in Cyrano si fa un pennacchio a sfida. E non è poco…
1 Comment