8 Ottobre 2024
Politica

Il lento abbandono delle urne: ripoliticizzare l’immaginario – Roberto Pecchioli

 

Per l’osservatore distaccato, il giorno dopo le elezioni ha sempre qualcosa di divertente, ed è l’acrobatica operazione dialettica dei politici, impegnati come un sol uomo a dimostrare di aver vinto. Nel caso del voto amministrativo, per consumati maestri delle mezze verità come i politici, il passaggio è piuttosto facile, perché da qualche parte c’è sempre un comune conquistato, o un risultato al di sopra delle aspettative. La nostra riflessione, pertanto, si volgerà altrove, e riguarderà la partecipazione degli elettori al voto. Le comunali hanno fatto registrare un tasso di affluenza del 62,14 per cento, inferiore di cinque punti a cinque anni fa. La tendenza è inequivocabile, e riguarda ogni tornata elettorale, politica, regionale o europea. In Italia si votava davvero tutti, fino a circa vent’anni fa. Le politiche, poi, avevano percentuali superiori al 90 per cento, sino al 93: la polarizzazione politica tra PCI e partiti centristi da un lato, l’educazione civica che, costituzione alla mano, definiva il voto dovere civico, la possibilità di esprimere voti di preferenza, il sistema proporzionale che garantiva la rappresentanza di tutte le idee o sensibilità politiche o ideologiche.

Da allora è cambiato tutto: la popolazione è invecchiata, i sistemi maggioritari premiano i grandi e mortificano proprio la rappresentanza a favore della cosiddetta “stabilità”, negando il nucleo stesso del metodo e della procedura definita democratica, la politica è screditata dall’interno e svuotata di potere dall’esterno, i programmi dei partiti sono sempre più spesso fotocopie l’uno dell’altro, così come gli slogan, ripetitivi, poveri, figli dello scadente livello culturale (su quello morale stendiamo un velo) dei candidati.

I numeri degli ultimi anni sono i seguenti: elezioni politiche 2008: 80,5%, 2013 75,2; elezioni regionali 2010 62,30, 2015 52,2 (un elettore su due assente!!!!); elezioni comunali 2011 67,41, 2016 62,14. Quanto alle elezioni europee, 66,5% nel 2009, 58,7% cinque anni dopo. I dati sono inconfutabili, e descrivono un abbandono costante degli elettori. Quali conclusioni trarne, politicamente e sociologicamente? Innanzitutto, un ulteriore dato tecnico, che riguarda la scarsa attenzione dei comuni nella revisione “dinamica” del corpo elettorale, talché i dati del corpo elettorale sono in eccesso rispetto alla realtà. Poi una valutazione concreta di altri elementi che di solito non vengono analizzati dagli osservatori: il primo è il già citato fenomeno dell’invecchiamento demografico, per cui sono sempre più numerosi gli elettori non in condizione di esprimersi, l’ altro è la rilevante mobilità della popolazione, dovuta al mutamento profondo delle condizioni economiche ed esistenziali. Insomma, tra masse di giovani nomadi per necessità lavorativa e mentalità indotta dal liberismo “flessibile”, ed anziani che si trasferiscono stabilmente o per lunghi periodi in zone dove la vita è meno cara, cala anche l’elettorato.

Diciamo che ormai dobbiamo considerare il minimo fisiologico di assenza dal voto intorno al 15 per cento degli italiani. Ma gli altri, che sono già cinque milioni almeno alle elezioni politiche ed oltre il doppio alle amministrative? Pensiamo ad una città di grande senso civico come Bolzano, isola a maggioranza “italiana” in una provincia di lingua tedesca. Alle comunali di qualche settimana fa, ha votato solo il 57 per cento degli iscritti, che si sono ridotti al 40 per cento al turno di ballottaggio. Il sindaco eletto, quindi, è gradito a poco più di un quinto dei bolzanini.

Questo è lo stato dell’arte della procedura democratica, malata qui come in tutto il cosiddetto Occidente, dunque anche il principio democratico, in particolare quello liberale della rappresentanza, è in grave crisi.

Alcuni anni prima del crollo della prima repubblica, discutendo con un politico di professione, peraltro persona onesta e di qualità, membro di governi con Berlusconi, lo sentii affermare che meno gente vota, meglio è, ponendo come esempi positivi gli Stati Uniti. dove un voto superiore al 50 per cento degli aventi diritto è raro, e la Gran Bretagna, in genere non oltre il 60/65 per cento di voto politico. Lo stupore di allora si è tramutato in convincimento radicato: i politici da un lato, il potere vero dall’altro (economia, finanza, tecnologia, intrattenimento) lavora attivamente alla spoliticizzazione di tutti noi. Votare è un fastidio ed è inutile, i politici sono tutti uguali, tanto non cambia niente, non solo soltanto le frasi più ricorrenti di tanti, ma sono esattamente l’esito programmato di elaborate strategie.

Da quando non c’è più all’orizzonte il pericolo, o la speranza comunista, e la legge del tempo ha reso improponibili i regimi nazionali autoritari a sfondo sociale, resta un unico modello di società, quello mercatistico liberale, fondato sui diritti umani ed individuali, cui aderisce sostanzialmente l’intero panorama politico italiano. Da Vendola alla Meloni, passando per lo stesso Movimento 5 Stelle, tutti condividono, o almeno accettano, lo stesso orizzonte, che ha allo zenit l’economia (e la tecnologia che la orienta) e al nadir la politica, svalutata, deprivata di potere, derubricata ad amministrazione dell’esistente.

Il mondo liberale ha vinto, e la sua vittoria più profonda, a livello collettivo, è la colonizzazione dell’immaginario: consumo, diritti individuali, libertà “da”, mercato, feticismo della merce, adorazione del mito del futuro e del progresso lineare, monotòno, nel linguaggio di Gregory Bateson. Non c’è posto per la politica, ma solo per il supermercato, caleidoscopio di voglie, bisogni indotti, novità che si rincorrono, marchi che ci definiscono a livello sociale.

Fu Thorsten Veblen a teorizzare i “consumi vistosi” di chi ha di più e vuole che si sappia, ma c’è anche la retroazione tra consumo, invidia sociale, corsa ad imitare l’acquisto altrui. Serge Latouche ha teorizzato, nell’ambito del suo pensiero della decrescita, la colonizzazione dell’immaginario da parte di chi produce per il consumo prodotti inutili, forte anche delle acquisizioni di Guy Debord e della “società dello spettacolo”. Debord, filosofo situazionista, descrisse lo spettacolo come il mezzo principale attraverso cui i vertici del liberalcapitalismo mantengono la loro autorità sul mondo moderno, riducendo ogni genuina esperienza umana (anche la politica, dunque) ad immagine, rappresentazione mediatica, il che consente all’autorità di determinare come gli individui-massa percepiscono la realtà.

Cornelius Castoriadis ha poi svelato il carattere “eteronomo” delle scelte, che vengono trasferite dall’ambito del politico a quello del consumo. Quanto ad un altro pensatore di grande rilievo, Ivan Illich, in Descolarizzare la società spiega l’affievolirsi della speranza e il sorgere delle aspettative nell’orizzonte umano. Lo ha compreso perfettamente l’apparato di riproduzione sociale del capitalismo di consumo, che ha posto la merce come aspettativa, destituendo la speranza del suo intenso valore simbolico, del suo potenziale di cambiamento condiviso, del suo slancio comunitario.

Il presente è il trionfo del tipo umano disegnato dall’ iperclasse (Christopher Lasch): l’uomo uscito dalla storia ed entrato nella cronaca delle breaking news e, soprattutto, nel carnevale ludico pubblicitario, non più interessato a costruire istituzioni che blocchino l’azione dei mali scatenati dall’egoismo umano, ma anzi che ha ormai interiorizzato come definitivo lo status quo. Si affievolisce la speranza e sorgono semplici aspettative. Ma la sopravvivenza della specie umana – conclude Illich – dipende dalla riscoperta della speranza come forza sociale.

La diminuzione progressiva degli interessati al voto si spiega essenzialmente con questo straordinario successo metaculturale del circo liberale: ciò che conta è il mercato, il possedere, l’immagine, il piacere che se ne trae, lo spettacolo cui si assiste. Dunque, vince chi è telegenico, chi comunica meglio un messaggio vuoto o equivalente agli altri, chi si presenta come variante, come novità, prodotto perfezionato dell’industria del consumo adattata alla politica, con un semplice scarto del marketing. Per molti, disinteressati o contrari all’aspetto competitivo-mercatistico delle elezioni, non andare a votare rappresenta ormai l’unica possibilità di dire no al sistema.

La trappola, tesa con scientifica precisione da chi comanda, funziona sempre, in questi anni. Votano infatti tre, quattro categorie sociologiche; i clienti, ovvero coloro che vivono, in varia misura, di politica (sono moltissimi, purtroppo ) o che dalla politica si aspettano favori o vantaggi; i tifosi, quelle minoranze sempre meno ampie, prosciugate dal tempo e dalle disillusioni, che sono, a prescindere, dalla parte di qualcuno, o, più di frequente, contro qualcun altro; gli abitudinari pigri, per i quali votare è un rito non dissimile dalla passeggiata sul corso o dall’ acquisto dei dolci domenicali; e, naturalmente, pubblico ambito da tutti i candidati, i dipendenti dalla propaganda, dagli slogan, dalla coazione a ripetere organizzata, ordinata dal sistema. Senza di loro, cala la tela. Non è un caso che il livello più alto della società, quello che un intellettuale francese, Jean Michel Groven, chiama “i superiorizzati” sia l’unico settore ad avere ricevuto una formazione culturale davvero elevata, ben diversa dalle modeste lauree “a crediti” e dal mediocre sapere strumentale per la massa dei nuovi prolet contemporanei.

Loro dirigono i cervelli uniformati e conformisti, dunque depoliticizzati, della maggioranza. Loro organizzano, di fatto, le due, tre correnti formalmente distinte della politica, sempre loro le pongono in finta competizione per contendersi semplici quote di mercato, mai progetti alternativi, poi la vittoria spetterà ai migliori pubblicitari, ovvero ai suggeritori (adesso li chiamano spin doctors, letteralmente dottori, esperti, del colpo ad effetto ) che hanno individuato in maniera più precisa l’umore popolare del momento, centrando il bersaglio, che non a caso, in inglese chiamano target. Non hanno bisogno di masse di elettori, a loro basta poter sommare alle categorie dei clienti, dei tifosi e degli abitudinari il voto di quelli che chiamerei iloti, nel linguaggio degli spartani, o pedoni, in quello degli scacchi, o semplicemente buoni consumatori globali eterodiretti. Milioni di altri, che non la bevono, o che hanno compreso che la politica non è la soluzione dei loro problemi, devono rimanere nel limbo. Questo, infine, era il messaggio che lanciava quel certo politico scafato che citavo all’inizio.

Eccoci dunque al punto, al nocciolo del problema: ripoliticizzare il nostro popolo, interessarlo nuovamente alla vita pubblica. Soprattutto, costruire un progetto che sia “fuori”. Per chi è “dentro” le opzioni sono tantissime, all’interno degli schieramenti principali. Lo spazio è, ad avviso di chi scrive, immenso: milioni di non elettori sono avversari, o estranei, del sistema, e come loro una parte significativa di votanti grillini, lo zoccolo duro della Lega e di Fratelli d’Italia; poi ci sono elettori di sinistra che sono tali per nostalgia di movimenti e partiti schierati a favore del lavoro ed avversi al capitale. Infine, i giovani, che sono i perdenti per antonomasia della globalizzazione liberista: precari nel lavoro, nomadi nella vita, in difficoltà a formarsi una famiglia, confusi, non più supportati da famiglie che sappiano guidarli verso scelte libere, vittime della pubblicità, della moda, della scuola scadente e selettiva solo per censo.

Milioni di vittime che sono “fuori” dal cerchio magico. Non votano, spesso, perché manca l’offerta, e quella che c’è è tutta dentro l’orizzonte delle infinite sfumature del grigio liberale, che sa trasformarsi, come uno zelig, ed assumere il colore gradito a ciascuno. La conclusione è che abbiamo perduto l’anima, i più maturi non hanno saputo conservarla, gli altri l’hanno regalata per indifferenza e per disabitudine a pensare, moltissimi per adesione indotta all’economia libidinale (ed ai suoi esiti politici), come l’ha chiamata uno psicanalista come Charles Melman.

L’anima, per definizione, è fuori. Milioni di persone chiedono, spesso senza neppure saperlo, di ritrovarne una, e questo, ogni volta, è il messaggio che ci viene dalla mancata partecipazione agli spazi cosiddetti pubblici, come le elezioni. Ritrovando un’anima, tornerebbero a credere, a ritrovare la speranza ed abbandonare l’aspettativa. Ci vogliono idee diverse, disegni inediti, nuove narrazioni, come avrebbe detto Jean François Lyotard. Intanto, bisogna uscire “fuori”, all’aria aperta, e scoprire quanto è affollato e quanto ancora silenzioso.

Se rimaniamo “dentro”, vinceranno sempre gli altri, tanto più bravi a gestire apparenze, inventare prodotti, escogitare nuove false libertà, inediti personaggi accattivanti prelevati da qualche talent show politico.

E tutto, affinché “vincano le lavatrici”, come ha scritto un grande intellettuale russo del nostro tempo, Alexander Dugin, il creatore dell’indispensabile “quarta teoria politica”.

 

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