a cura di Massimo Pittau – Professore Emerito dell’Università di Sassari
tradotto e commentato
PREMESSA
Il cosiddetto Liber della Mummia di Zagabria è il testo più lungo che possediamo della lingua etrusca. Esso è chiamato in questo modo perché risulta custodito nel «Museo Archeologico» di Zagabria. È detto Liber linteus «libro di lino» perché è costituito da una fascia di lino lunga circa 13 metri e larga circa 40 centimetri.
Fino al presente non si conosceva per nulla il modo e il motivo per i quali questa fascia fosse finita in Egitto; si era parlato in termini molto generici di un probabile “piccolo stanziamento” di individui di nazionalità etrusca nell’Egitto dei Tolomei, ma in realtà non si era fornita alcuna prova di ciò. A giudizio dello scrivente esiste con grande probabilità una ragione precisa della presenza del Liber in Egitto. Si deve premettere che gli aruspici etruschi godevano di larga fama a Roma, fino ad un’epoca molto avanzata. Si tramanda che ancora nel 408, durante l’assedio di Roma, aruspici pronunciarono maledizioni in lingua etruscaper lanciare fulmini sui Visigotidi Alarico. Essi erano consultati anche dai comandati degli eserciti romani prima di prendere le loro decisioni importanti. Ebbene, a giudizio dello scrivente il Liber molto probabilmente arrivò in Egitto con qualche aruspice che seguiva un esercito romano, ad iniziare da quando si insediò in Egitto Marco Antonio nell’anno 52 a. C.
Deceduto l’aruspice e finita dunque la sua attività di divinazione, la fascia di lino non fu più compresa nella sua natura e destinazione, per cui fu tagliata a strisce e adoperata, in maniera impropria, per fasciare una mummia.
Col passare dei secoli la mummia fu acquistata in Egitto nel 1848 da un collezionista croato e in seguito, nel 1867, fu acquisita dal Museo di Zagabria. Qui a un certo punto fu deciso di svolgere le bende della mummia e si constatò che esse contenevano un lungo testo, scritto in inchiostro nero su 12 colonne di circa 35 righe, con una impaginatura di linee in inchiostro rosso. Nel 1892 l’egittologo Jakob Krall, con una sua accurata pubblicazione, dichiarò e dimostrò che il testo era scritto in alfabeto e lingua etruschi, col normale andamento sinistrorso.
Nelle circa 200 righe conservate del Liber risultano scritti quasi 1.200 vocaboli, i quali però, tolte le numerose ripetizioni, si riducono a essere poco più di 500. Probabilmente il Liber costituisce la trascrizione, effettuata nel I secolo a. C., di un testo originario del V secolo, di area etrusca centro-settentrionale.
Com’era ovvio, il Liber attirò subito l’attenzione di tutti i linguisti che avevano interesse per la lingua etrusca e da allora esso è diventato il testo classico di questa lingua, del quale si sono interessati tutti i linguisti successivi. La bibliografia relativa a questo testo è immensa e praticamente si identifica quasi del tutto con quella relativa alla lingua etrusca in generale.
I risultati finora acquisiti dagli etruscologi intorno a questo importantissimo documento sono in primo luogo di carattere generale e in secondo luogo di carattere molto particolare.
Si è compreso abbastanza presto e abbastanza facilmente che il Liber è un «calendario liturgico», il quale registra le cerimonie o i riti dell’intero anno liturgico, con l’indicazione del mese e talvolta anche del giorno. Esso infatti è composto di 12 “colonne”, tante quanti sono i mesi, dei quali noi conosciamo, sia dal Liber stesso sia da glosse latine o greche, il nome, escluso quello di febbraio: ANIAX«gennaio»,MARTIo Velcitanus «marzo», APIRE o Cabreas «aprile», AMPILES «maggio», ACALE/Aclus «giugno», Traneus«Luglio», Ermius «agosto»; Caelius, Celius «settembre», Xosfer «ottobre», MASN «dicembre».
Le cerimonie o i riti risultano effettuati in onore di quasi tutte le divinità etrusche, maggiori e minori, cioè Tecum (=Tinia Protettore?), Giunone, Nettuno, Saturno, Cerere, Lucifera, Lusa, Lustra, Maris, Terra, Tuchulcha, Veiove, Volta. E risultano pure indicate varie preghiere, le offerte, le vittime dei sacrifici, assieme con arredi dei vari riti e con gli atti rituali. Tutto ciò è relativo a sacrifici che un sacerdote, assieme coi suoi assistenti, effettua a favore di una o più città, delle loro popolazioni, cittadine e contadine, e delle loro leghe o federazioni.
I risultati di carattere particolare acquisiti dai linguisti fino al presente consistevano nella traduzione di poche e brevi frasi. Lo scarso numero e la brevità di queste frasi effettivamente tradotte induceva ovviamente ad affermare che rispetto alla questione della “traduzione” era ancora tutta in alto mare e che quanto un etruscologo poteva in effetti affermare era semplicemente una “interpretazione generale” del documento. Era questo infatti l’esatto titolo di uno dei più impegnati tentativi effettuato da uno dei più autorevoli etruscologi: Karl Olzscha, Interpretation der Agramer Mumienbinde (Leipzig 1939; ristampa 1979).
Anche l’autore della presente pubblicazione, quando pensò di affrontare di petto il testo del Liber, aveva deciso di intitolarne la pubblicazione in questo modo: Il Libro Etrusco della Mummia di Zagabria interpretato e commentato. Quando però andò costatando che i risultati ottenuti nel suo studio andavano molto al di là delle sue più rosee previsioni e speranze, alla fine prese la decisione di intitolarla senz’altro in quest’altro modo: Il Liber Ritualis della Mummia di Zagabria tradotto e commentato.
Per giustificare questa intitolazione della mia presente opera, invito i lettori a considerare questo solo e semplice dato: sui 500 vocaboli del testo non ne esiste alcuno sul quale io non abbia prospettato almeno un “significato compatibile”, ossia compatibile col contesto logico, specifico e generale, del documento. (Dal quale numero ovviamente vanno esclusi i numerosi guasti e lacune del testo e inoltre i raggruppamenti grafici che risultano non segmentabili oppure illeggibili).
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I risultati di questo mio – non ho timore di dirlo – “successo ermeneutico” sono anche l’effetto di alcune circostanze favorevoli e convergenti:
I) Siccome io mi interesso della lingua etrusca da più di 35 anni, ritengo di aver fatto convergere nella mia presente opera tutti i risultati che fino ad ora erano stati ottenuti dai numerosi autori che si sono cimentati prima di me nell’argomento. In maniera particolare ritengo di essere debitore di numerosi suggerimenti soprattutto a due autori e alle rispettive opere, una già citata di Karl Olzscha, Interpretation der Agramer Mumienbinde (Leipzig 1939) e l’altra di Ambros Jopsef Pfiffig, Studien zu den Agramer Mumienbinden – Der Etruskische Linteus, Wien 1963 [tedesco Agram = ital. Zagabria].
II) Ovviamente i 76 anni di differenza fra la “interpretazione” di K. Olzscha e i 52 anni fra gli “studi” di A. J. Pfiffig da una parte e questa mia “traduzione” dall’altra, non sono passati inutilmente: e ciò non tanto e non soltanto per merito dell’Autore della presente opera, quanto per merito dei numerosi etruscologi che in epoca più recente hanno rivolto il loro studio a questo importante e cruciale documento della lingua etrusca. Inoltre è indubitabile che la conoscenza della lingua etrusca è andata avanti abbastanza in questi ultimi decenni, anche come effetto di numerosi nuovi rinvenimenti epigrafici effettuati un po’ dappertutto.
III) Dato che ormai risultava accertato che il Liber era fondamentalmente un «calendario liturgico», implicante dunque precisi riferimenti a cerimonie religiose, a riti sacri, a sacrifici, a festività religiose, ecc., io mi sono impegnato a studiare minutamente la terminologia religiosa della lingua latina, dato che da sempre si sapeva che molte credenze ed usanze religiose degli Etruschi erano diventate anche credenze ed usanze religiose dei Romani. E ciò ho fatto nella supposizione che nella terminologia religiosa dei Romani fosse entrata anche la terminologia religiosa degli Etruschi. E i risultati di questo mio impegno di studio hanno stupito anche me: per l’appunto molti vocaboli di carattere religioso della lingua latina trovano esatto riscontro in altrettanti vocaboli del Liber e per ciò stesso offrono la chiave di interpretazione e di traduzione dei corrispondenti vocaboli etruschi. E per questo motivo debbo precisare che lo strumento o il metodo migliore, ossia quello più funzionale e più fecondo, che mi è servito per effettuare e prospettare la presente “traduzione del Liber” è stata per l’appunto la comparazione tra la terminologia religiosa latina e la terminologia religiosa etrusca.
Su questo stesso argomento ritengoimportante segnalare pure che le corrispondenze tra la liturgia del sacrificio degli Etruschi con quella del sacrificio o “Messa” dei Cristiani sono evidenti, numerose e pure stringenti, per cui c’è da pensare a una fondamentale derivazione della liturgia cristiana da quella etrusca, però per via indiretta, cioè per il tramite di quella romana. Più esattamente i Cristiani hanno derivato molti elementi della loro liturgia sacrificale da quella dei Romani – ovviamente caricandoli di assai differenti contenuti religiosi e dogmatici – e i Romani in precedenza li avevano derivati da quelli degli Etruschi. Particolarmente importante e significativa è la continua presenza nel sacrificio etrusco del pane e della sua consumazione, del vino, dell’acqua e dell’incenso, della presenza di lumi accesi, del calice d’oro e della sua elevazione, della patena, quasi esattamente come risulta nel sacrificio cristiano.
IV) È cosa abbastanza nota che agli inizi della storia di Roma, in età monarchica, c’era una notevole mescolanza e fusione delle due comunità etniche, quella romana e quella etrusca. La quale cosa si spiega abbastanza facilmente con due circostanze sicuramente accertate e sostenute dalla storiografia recente. Innanzi tutto il fiume Tevere all’inizio non era al centro del Latium, come sarà in seguito, ma ne costituiva il confine settentrionale rispetto all’Etruria, ragione per cui Roma era una città di confine tra le due etnie (non a caso lo stesso nome di Roma è molto probabilmente etrusco, uguale al vocabolo etrusco-latino ruma «mammella, seno», indicante la grande “insenatura” che il Tevere fa di fronte all’isola Tiberina; e pure il nome del fiume era quasi certamente etrusco). In secondo luogo sappiamo che per più di un secolo Roma fu governata da una dinastia etrusca, quella dei Tarquini, in virtù della quale si intravede che l’elemento antropico etrusco in quel periodo giocò un ruolo importante nella vita della città laziale.
Più in generale – mi sono detto – siccome è molto probabile e verosimile che siano stati numerosi i vocaboli latini entrati nella lingua etrusca e viceversa, ai fini della interpretazione dei singoli vocaboli etruschi è del tutto lecito e anche funzionale ed utile fare riferimento ad altrettanti vocaboli latini, i quali già nella veste fonetica si presentino come omoradicali o corradicali con quelli etruschi da interpretare; col risultato finale che il valore semantico o “significato” dei vocaboli latini è molto probabilmente anche il valore semantico o “significato” dei corrispondenti vocaboli etruschi.
A questo proposito però ritengo necessario precisare che questo mio procedimento ermeneutico od interpretativo ha avuto esclusivamente la direzione del “confronto” o della “comparazione”, mentre ha deliberatamente lasciato da parte la direzione “etimologica” o della “derivazione”: si tratta di vocaboli etruschi derivati da altrettanti vocaboli latini oppure si tratta della derivazione opposta? A questa domanda saranno altri linguisti e altri eventuali studi che cercheranno di dare una adeguata – ma nient’affatto facile – risposta.
In questo procedimento di semplice ed esclusivo “confronto” o “comparazione” tra vocaboli etruschi e altrettanti latini, per questi ultimi spesso ho fatto notare che essi risultano essere «di origine ignota» oppure «di origine incerta»; e con questa mia semplice notazione ho voluto indicare che questi vocaboli latini molto probabilmente potrebbero essere “di origine etrusca”. Ma sull’argomento niente di più ho detto né ho voluto dire.
Aggiungo che questa supposizione e questo procedimento ermeneutico di semplice ed esclusivo “confronto” o “comparazione” ho seguito anche rispetto alla lingua greca, però con risultati ovviamente assai più limitati.
Ma parlando in termini generali, aggiungo che, andando contro la corrente assurda tesi della “inconfrontabilità dell’etrusco con alcun’altra lingua”, tutto al contrario io ho adoperato sistematicamente il “metodo della comparazione o del confronto” di tutto il materiale linguistico etrusco con quello delle lingue dei popoli antichi che sono vissuti a contatto col popolo etrusco. In via specifica io ho confrontato l’intero patrimonio linguistico della lingua etrusca conservatoci con l’intero patrimonio lessicale delle lingue latina e greca, il quale supera le 300 mila (trecentomila!) voci: patrimonio lessicale latino e greco compatto ed immenso, col quale è pressoché assurdo ritenere che quello etrusco non avesse nessun rapporto o di derivazione reciproca o di corradicalità, cioè di comune origine. In realtà questo immenso patrimonio linguistico greco e latino è di gran lunga il più ricco che possediamo per tutti i domini linguistici ed è tale che con esso ha grandissimo interesse a fare i conti qualunque linguista si metta a studiare una qualsiasi lingua di quelle parlate attorno al bacino del Mediterraneo e pure in Europa, dai tempi più antichi fino al presente.
Infine tengo molto a precisare che ho sempre proceduto di volta in volta ad accertare e verificare l’ipotizzato “significato” prospettato per un certo vocabolo etrusco col ricorso al cosiddetto “metodo combinatorio”, che si dovrebbe chiamare meglio metodo della “verifica comparativa interna”, ossia con la verifica del “significato” ipotizzato per un certo vocabolo etrusco rispetto a quello conosciuto o ipotizzato dei vocaboli vicini e pure con quelli che fanno parte del patrimonio lessicale etrusco già interpretato e tradotto dai linguisti. In maniera particolare ho sempre controllato e verificato che un ipotizzato significato di un vocabolo etrusco del Liber avesse il significato uguale o similare o almeno affine in tutti gli altri testi etruschi in cui esso compare.
La validità e la fecondità di questo mio lavoro di “verifica comparativa interna” ha trovato la sua spiegazione e motivazione di fondo nella circostanza che ho lavorato su tutto il materiale lessicale dei più grandi 13 testi della lingua etrusca, il quale raggiunge la notevole somma complessiva di più di 1.000 vocaboli.
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Tra gli studiosi di lingue sconosciute oppure poco conosciute è un fatto noto e accertato che, almeno in linea generale e a parità di altre condizioni, una iscrizione quanto più è lunga, tanto più facilmente può essere tradotta. Ciò avviene perché in una iscrizione lunga sono più numerosi gli elementi che si possono analizzare, controllare e confrontare fra loro e anche con elementi della medesima lingua e pure di altre lingue differenti.
Su questo piano il Liber poteva risultare un testo ideale di interpretazione e anche di traduzione, visto che esso contiene la somma notevole di circa 1.200 vocaboli. Senonché abbiamo già visto che, tolte le numerose ripetizioni, i vocaboli presenti nel Liber si riducono ad essere poco più di 500. Che però è pur sempre una buona somma di vocaboli, la quale avrebbe dovuto consentire una facile interpretazione e traduzione dell’intero documento.
Perché questo non sia avvenuto sono intervenuti alcuni fatti negativi che qui elenco e spiego brevemente.
1) Contrariamente a quanto si potrebbe di primo acchito pensare, il fatto che il testo del Liber ci sia giunto non integro e pure guasto in non poche sue parti e inoltre il fatto che lo scriba-copista abbia commesso non pochi errori di trascrizione, non sono questi i fattori negativi che hanno finora reso difficile la interpretazione e la traduzione del prezioso documento. Infatti, siccome il testo implica numerose ripetizioni di interi brani, in virtù di queste ripetizioni sia i vuoti del testo sia i suoi guasti sia infine gli errori dello scriba-copista sono in buona misura eliminabili. Da questa opera di recupero e di ricostruzione va esclusa la sola parte iniziale, la quale certamente aveva una sua particolare e importante funzione, come mostrano anche alcuni vocaboli rimasti che non si ritrovano in nessun’altra parte del documento, parte iniziale che però risulta per noi ormai perduta irrimediabilmente.
Invece avviene che proprio per il fatto che il testo contenga numerose ripetizioni di interi brani, esso va avanti “a spezzoni”, quasi “a singhiozzo”, con la mancanza di un unico e logico significato globale. La interpretazione e la traduzione di ciascuno degli “spezzoni” del testo pertanto non viene accertata né confortata da un unico e logico significato globale, dato che questo non esiste affatto.
A ciò si aggiunge l’altro fatto negativo, che questi “spezzoni” non sono determinabili con esattezza, dato che manca la “punteggiatura” quale noi moderni concepiamo e adoperiamo, cioè come indicazione degli “stacchi concettuali del discorso” oppure delle “pause del parlato” (è noto che invece gli Etruschi usavano la “punteggiatura” per indicare la divisione dei vocaboli o anche delle semplici sillabe).
2) Una seconda circostanza che rende molto difficile l’approccio ermeneutico al Liber consiste nella sua particolare caratteristica di documento linguistico: esso è un documento molto ellittico, il quale non descrive né narra i reali fatti liturgici o i gesti rituali, né riporta il testo delle preghiere, bensì si limita sempre ad accennare o suggerire quei fatti, quei gesti e quelle preghiere, finendo col caratterizzarsi come una semplice ”traccia”, molto ellittica e molto schematica, di fatti e di atti. Detto in altro modo: il testo linguistico del Liber risulta “staccato”, anche di parecchio, dalle cose, dai fatti e dai gesti ai quali esso fa riferimento.
In questa sua caratteristica di documento linguistico semplicemente “suggestivo o suggeritore” od “allusivo”, esso di certo era del tutto comprensibile per gli antichi lettori etruschi, i quali quei fatti liturgici, quei gesti rituali e quelle preghiere conoscevano alla perfezione, mentre riesce in larga misura incomprensibile per noi lettori moderni che quei fatti liturgici, quei gesti rituali e quelle preghiere non conosciamo affatto.
Il carattere fondamentalmente “suggestivo od allusivo” del nostro documento è dimostrato anche dal fatto – già spiegato e sottolineato – che esso va avanti “a spezzoni”, senza cioè l’esatta continuità di un discorso unico e unitario, dall’inizio sino alla fine, e ciò in conseguenza diretta della diversità e della discontinuità delle varie operazioni rituali che si susseguivano una dopo l’altra, spesso molto differenti fra di loro.
Da tutto ciò deriva che spesse volte noi lettori moderni abbiamo la certezza o la quasi certezza che la nostra traduzione di una frase del testo etrusco sia esatta, ma ciononostante non riusciamo neppure lontanamente a intravedere quale operazione rituale, quale gesto, quale preghiera effettivamente essa volesse indicare e suggerire. E purtroppo questa è una difficoltà interpretativa che neppure gli sviluppi futuri della ermeneutica della lingua etrusca riusciranno mai a superare del tutto.
3) Il testo, secondo le comuni modalità prescrittive delle cerimonie sacre ed anche di quelle civili, presenta numerosi verbi di “modo imperativo”, ridotti – come capita in molte altre lingue – alla sola sillaba radicale: AR, Śin, ΘEC, TUL,UN, URX, vocaboli per i quali è molto difficile, se non impossibile, sul piano comparativo, fare accostamenti effettivi e soprattutto consistenti con altri vocaboli etruschi o anche di altre lingue.
4) Lo scriba-copista del I secolo a. C., che ha effettuato la trascrizione del testo originale del V secolo, è stato scorretto parecchie volte, tanto che non può non provare anche stizza l’odierno lettore ed interprete di fronte alle scorrettezze che incontra passo passo. Questo avviene, anche se – come ho già detto – in virtù delle numerose ripetizioni del testo, molte volte riusciamo a recuperare il testo esatto del documento originario.
Sono particolarmente numerose le ripetizioni di varianti dei vocaboli: AIS ed EIS, AISER ed EISER, AISERAŚ ed EISERAŚ, AISNA ed EISNA, CAΘNIS e CATNIS, CITZ e CIZ, ZAMΘIC e ZAMTIC, ZUŚLEVE e ZUSLEVE, HAΘEC e HATEC, ΘACLΘ e ΘACLΘI, ΘUNT e TUNT, IC e IX, MULAC e MULAX, NEΘUNŚL e NEΘUNSL, RACΘ e RAXΘ, TUR, TURA; TURE, TURI, ecc.
Si può tentare di spiegare e di giustificare codesto modo trasandato di scrivere del copista, pensando che al suo tempo la lingua etrusca stesse subendo un notevole processo di trasformazione fonologica soprattutto a causa dell’impatto con la lingua latina, cioè con quella dei conquistatori e dominatori.
Una possibile spiegazione dell’alternanza delle vocali A/E nei vocaboli potrebbe forse essere quella per cui in realtà quelle vocali fossero pronunziate indistinte, cioè /Ə/ : AIS ed EIS, AISER ed EISER, AISNA ed EISNA, ZUŚLEVA e ZUŚLEVE, HALXZA e HALXZE, HILARΘUNA e HILARΘUNE, HUSLNA e HUSLNE, MAΘCVA e MAΘCVE, MULA e MULE.
Molto varia e perfino capricciosa è la maniera in cui si presentano le terminazioni di parecchi vocaboli, con l’ovvia e grave conseguenza che spesse volte non si riesce a determinare il loro esatto valore morfo-sintattico. E da questo grave difetto deriva l’impossibilità di ricostruire un esatto sistema morfologico della lingua etrusca facendo precipuo riferimento a questo che pure è il più lungo testo etrusco. Dal testo del Liber si evince in maniera quasi certa che i “casi” fondamentali della “declinazione” etrusca erano il genitivo, il dativo e,coi pronomi, l’accusativo, e forse qualche altro (al singolare e al plurale), ma non si evince per nulla come i molto più numerosi “complementi” si assiepassero in ciascuno dei “casi”. E proprio per questa grossa difficoltà nella mia traduzione ho tenuto molto più in considerazione il contesto logico dei singoli vocaboli che non i “casi” da cui sembrerebbero marcati.
Qualche volta sembra pure che lo scriba-copista non avesse afferrato il significato esatto di una frase, dato che ha tralasciato del tutto la punteggiatura oppure ha sbagliato in maniera vistosa nell’inserirla tra una sillaba e l’altra.
Altre volte lo scriba-copista, che di solito scrive in maniera molto chiara, ha scritto qualche vocabolo in maniera molto confusa, dando l’impressione al lettore ed interprete moderno che in realtà egli non riuscisse a leggere bene il vocabolo nel testo che aveva di fronte e doveva ricopiare e pertanto decidesse di trascriverlo in maniera confusa, con l’implicito invito al lettore di arrangiarsi lui…
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Ai fini della mia presente interpretazione e traduzione del Liber è stato per me di capitale importanza l’aver compreso e scoperto i seguenti fatti linguistici fondamentali:
1) Il Liber, in virtù del suo carattere di «calendario liturgico», è anche un “cerimoniale o rituale religioso”, il quale contiene numerosi verbi con corrispondenti “precetti o prescrizioni” nel modo verbale dell’”imperativo”.
2) I verbi all’imperativo sono in misura prevalente al «singolare», in misura limitata al «plurale» a seconda che si rivolgano al solo sacerdote oppure anche ai suoi assistenti e pure ai fedeli presenti alla cerimonia. Si ha anche l’impressione che talvolta il singolare e il plurale di tali imperativi siano stati confusi, intesi male e sbagliati.
3) Sempre in virtù del suo carattere di «cerimoniale o rituale religioso» il Liber contiene numerosi sostantivi nella forma della “invocazione”, cioè nel caso del «vocativo». Ed è forse questa la più importante e funzionale scoperta che mi sembra di avere effettuato sul piano morfo-sintattico, cioè il riconoscimento che il nome delle divinità e pure quello dell’officiante o celebrante sono quasi sempre al vocativo (per il quale però – è bene precisarlo – in etrusco non esiste il relativo caso e morfema). Questa circostanza adesso si comprende facilmente in un testo di carattere religioso, nel quale ovviamente le “invocazioni” alle divinità e gli “inviti” e le “esortazioni” ai sacerdoti e ai fedeli non potevano non essere molto frequenti.
4) Nel Liber l’appellativo VACL, col significato di «rito, secondo il rito», è quello che compare con frequenza maggiore, ben 23 volte, e già soltanto questa circostanza doveva spingere – ma di fatto non è avvenuto – a ritenere che il nostro documento in realtà non è altro che uno dei Libri Rituales, di cui era conosciuta l’esistenza nell’antica Roma per tradizione storica (Cicerone, Div. 1.72; Ammiano Marcellino 29.1.29) e di cui c’è un duplice accenno nell’altro lungo testo etrusco che è la Tabula di Capua (TCap 12, 14): RIΘNAITA«il rituale, il Libro Rituale». Ebbene, proprio per questa ragione ho deciso di denominare il nostro testonon più Liber linteus, bensì Liber Ritualis.
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Espongo adesso quelle che sono o vorrebbero essere le caratteristiche fondamentali di questa mia nuova interpretazione e traduzione del Liber Ritualis della Mummia di Zagabria.
1) In primo luogo preciso che per il testo ho fatto riferimento a quello presentato da Francesco Roncalli nell’opera «Scrivere Etrusco» (Milano, ediz. Electa), pubblicata in occasione del II Congresso Internazionale Etrusco del 1985. Si tratta di un’opera importantissima, costituita, come è, da un chiarissimo e utilissimo apparato iconografico, compreso l’apografo, relativo al Liber e anche ad altri due fondamentali testi etruschi, la Tavola di Capua e il Cippo di Perugia. Per questa sua opera il Roncalli è degno del massimo elogio; anche perché ha dimostrato che il Liber, anche se era un volumen (in assoluto l’unico che ci sia pervenuto dell’intera epoca classica), era conservato non “avvolto” o “arrotolato”, bensì disposto a “fisarmonica” o a “soffietto”, cioè a zig-zag.
Ho studiato con la massima attenzione il testo presentato dal Roncalli ottenendo come primo risultato quello di constatare e di assicurare che la lettura che questo studioso ha fatto del testo originale costituisce sicuramente un notevole progresso rispetto alla lettura che in precedenza ne avevano fatto altri pur benemeriti studiosi. Però ho ottenuto anche un altro importante risultato: quello di correggere la lettura fatta dal Roncalli in un discreto numero di casi, come la divisione dei vocaboli, l’inserimento di lettere mancanti, la espunzione di lettere errate, lo scambio fra il sigma e il sade (o san). Inoltre ho constatato che egli ha tralasciato la riga 20 della colonna X, col conseguente scalo della numerazione successiva, che ovviamente io ho corretto e integrato.
Ho pure tenuto sempre presente il testo del Liber come compare nell’opera di Massimo Pallottino, Testimonia Linguae Etruscae (II ediz., Firenze 1968), traendone anche la conclusione che la lettura e trascrizione del testo risulta fatta molto bene ed è anch’essa degna di grande lode.
Nel seguire passo passo il testo del Liber presentato dal Roncalli, ho effettuato anche il suo controllo col testo quale compare, voce per voce, nel ThLE (Thesaurus Linguae Etruscae, I Indice lessicale, Pisa Roma 2009, 2ª edizione curata da Enrico Benelli e in maniera particolare da Valentina Belfiore).
Infine ho tenuto presente anche la nuova lettura che del Liber ha presentato Helmut Rix nella sua opera Etruskische Texte, Editio Minor, I Einleitung, Konkordanz, Indices; II Texte (Tübingen 1991). Ma, come ho avuto già modo di fare per quest’opera del Rix parlandone in generale in altra sede, anche facendo riferimento alla nuova lettura del Liber il mio giudizio è sostanzialmente negativo: a parte la stravagante decisione dell’Autore di trascrivere le due sibilanti sigma e sade niente meno che con otto nuovi grafemi, molte sue letture e ricostruzioni del testo sono da definirsi almeno “avventurose”; e tanto più lo sono in quanto non risulta che egli abbia mai mostrato particolare interesse per il Liber. Un nuovo interprete e traduttore del Liber, se non vuole correre rischi di errori e di equivoci, ha interesse a consultare con la massima cautela il testo presentato dal Rix e dai suoi collaboratori, forse troppo numerosi (quattro und vielen anderen [sic!]).
2) Questa mia interpretazione e traduzione del Liber presenta una lettura più certa del testo, conseguente al fatto che ho proceduto a correggere errori di lettura fatti anche dalle più recenti edizioni del testo stesso.
3) In particolare presenta una lettura filologica più esatta, relativa alla segmentazione o separazione dei vocaboli, alla interpretazione di gruppi grafici, all’inserimento o all’espunzione di lettere oppure del punto di separazione (procedimenti di cui in genere presento la giustificazione nel commento dei singoli vocaboli).
4) Presenta una ricostruzione più ampia dei brani guasti del testo, da me effettuata con un “procedimento analogico”, ossia in base alla circostanza che, come abbiamo già visto, intere frasi vengono ripetute in diversi punti del documento. E preciso che in questa operazione della “ricostruzione” sono stato aiutato enormemente dall’uso del computer.
5) In linea generale mi sembra chiaro e certo che la mia traduzione mostra di essere sempre in perfetta congruenza col carattere di «calendario liturgico rituale», che da subito era stato riconosciuto al Liber. Essa, comunque, di certo va molto al di là delle semplici “interpretazioni” che studiosi precedenti avevano dato di questo importante e cruciale documento della lingua etrusca, non fosse altro perché investe il testo nella sua interezza, non lasciando vuoti di interpretazione e di traduzione, esclusi ovviamente quelli derivanti dalle lacune e dai guasti del testo.
D’altra parte è pure certo ed evidente che ci sono anche passi della mia traduzione nei quali si incontrano effettivi “intoppi” per la esatta interpretazione del passo. A mio avviso questi intoppi sono l’effetto di alcune circostanze negative: a) Caratteristica di testo semplicemente suggestivo od allusivo che – come ho spiegato prima – esso ha rispetto a noi lettori moderni; b) Lacune e guasti del testo; c) Errori di trascrizione commessi dallo scriba-copista; d) Infine – ovviamente – errori del traduttore moderno, che sono io. Ed ovviamente è su questi previsti e prevedibili errori dell’Autore che si dovranno fare avanti altri studiosi per eliminarli del tutto o almeno per ridurli di numero.