9 Ottobre 2024
Filosofia

Il Libero arbitrio: Islam e Occidente – Giuseppe Chiantera

Abstract

Ogni aspetto dell’agire e del pensare di un uomo si riduce a un atto di volontà. In ambito religioso, il problema è come conciliare una simile rivendicazione di libertà con il concetto di Dio onnisciente e onnipotente. In ambito etico  ci si interroga  se l’ uomo debba o meno rispondere delle proprie azioni qualora esse siano determinate da qualcosa di esterno a lui.

In ambito scientifico, invece, l’analisi si concentra a determinare se la mente umana abbia una sua qualche ingerenza sugli eventi o se tutto sia affidato interamente alla casualità.

Lo scritto prende in esame le varie correnti di pensiero nel mondo islamico fino al X secolo d.C.. Lo scontro tra i concetti di libera volontà e di predeterminazione divina è stato uno dei grandi temi della riflessione teologica islamica. Sono molti i passi del Corano che si possono citare pro e contro il libero arbitrio.  Tale  contraddittorietà appartiene a periodi diversi dell’attività profetica di Maometto: nei primi tempi, alla Mecca, il profeta avrebbe ammesso il libero arbitrio e la responsabilità personale dell’uomo, mentre a Medina sarebbe passato al fatalismo, per il quale poi l’ortodossia sunnita si è formalmente dichiarata. All’interpretazione del messaggio divino contribuisce la conflittualità politica dei primi due secoli, la quale porta un grande impatto sulle coscienze del tempo. I temi sono la legittimità del potere e il suo esercizio.  I confini politici e religiosi, scaturiti dalla presa del potere della dinastia omayyade, si radicalizzano intorno alla questione del libero arbitrio, sollevata contro una teoria della predestinazione divina degli atti umani. La base politica traeva origine dalla frattura prodotta dalla prima guerra civile: si trattava di legittimare l’esercizio della sovranità omayyade o di denunciare quella pretesa legittimità e, di conseguenza, condannare o giustificare la ribellione della comunità nei confronti di un sovrano iniquo.

L’articolo prosegue, poi,  prendendo in esame il pensiero occidentale. Numerosi autori e correnti filosofiche hanno affrontato la materia: Anassimandro, gli stoici, Agostino d’Ippona, Tommaso d’Aquino, Lutero, Calvino, Spinoza, il Kant della Critica della Ragion Pura, Hegel, Schopenhauer, Einstein.  Questi sostengono che l’affermazione del succedersi necessario degli eventi è legata all’affermazione dell’esistenza di una verità incontrovertibile. Ne è derivato, nel campo scientifico, giuridico, politico, economico, religioso, artistico e innanzitutto filosofico, il rifiuto di ogni determinismo e il prevalere della convinzione che gli eventi che accadono sarebbero potuti non accadere o accadere in modo diverso e che dunque, poiché le decisioni sono un certo tipo di eventi, l’uomo avrebbe potuto non prendere quelle che ha preso, o avrebbe potuto decidere diversamente.

L’ultima parte dello scritto descrive il superamento del determinismo e del possibilismo nel pensiero contemporaneo occidentale secondo la filosofia di  Emanuele Severino.

 

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Il libero arbitrio è la condizione di pensiero in virtù della quale ogni individuo può determinare in assoluta autonomia la finalità delle proprie azioni. Nessuna forza esterna entra in gioco, nessuna entità superiore regge le fila del destino. Ogni aspetto dell’agire e del pensare di un uomo si riduce a un atto di volontà.

In ambito religioso, il problema è come conciliare una simile rivendicazione di libertà con il concetto di Dio onnisciente e onnipotente.

In ambito etico  ci si interroga  se l’ uomo debba o meno rispondere delle proprie azioni qualora esse siano determinate da qualcosa di esterno a lui.

Ancora, in ambito scientifico l’analisi si concentra a determinare se la mente umana abbia una sua qualche ingerenza sugli eventi, o se tutto sia affidato interamente alla casualità.

 

Nel mondo islamico

 

Nella teologia islamica la nozione dell’uomo come delegato di Dio diventa potenzialmente alternativa a quella di libertà. Concorrendo alla creatività divina secondo condizioni individuali, il musulmano, nel suo mettersi in rapporto con Dio, si riconoscerebbe quale Suo servo o ‘abd, prendendo coscienza della trascendenza del suo Signore e della conseguente distanza esistente tra umanità e divinità; riconoscerebbe in Dio il proprio rabb, signore e maestro e nell’esercizio della divina rubūbiyya (signoria) riscoprirebbe l’onnipotente sovranità del Creatore. Corollario della condizione dell’uomo quale servo di Dio sarebbe il non aspirare a una normale forma di libertà (ikhtiyār).

L’inferiorità del servo sarebbe comunque riscattata dall’investitura divina che lo rende Suo amministratore sulla Terra.

Connessa al dogma della sottomissione a Dio è quella della predestinazione. Sono molti i passi del Corano che si possono citare pro e contro il libero arbitrio.  Tale  contraddittorietà appartiene a periodi diversi dell’attività profetica di Maometto: nei primi tempi, alla Mecca, il profeta avrebbe ammesso il libero arbitrio e la responsabilità personale dell’uomo, mentre a Medina sarebbe passato al fatalismo, per il quale poi l’ortodossia sunnita si è formalmente dichiarata.

Per l’islam, la mano di Allah non è “incatenata”, essa riflette l’assoluta libertà e sovranità divina che i musulmani gli attribuisco.

Nel Cristianesimo la divina bontà di Dio si mostra nella coerenza della creazione; nell’lslam, al contrario, persino definire Allah buono significherebbe porre dei vincoli alla sua libertà.

Per il musulmano la potenza divina ha per oggetto la totalità degli esseri possibili: in certo modo è anche possibile a Dio un fare contrario a quello che la sua prescienza[1] conosce.  L’uomo è potente solo in senso riflesso e in ogni caso mai creatore dei propri atti. Dio crea volta per volta i singoli fenomeni, la cui connessione casuale non è affatto necessaria. Il mondo è creato, annientato e ricreato attimo per attimo da Dio. Pertanto, contrariamente al pensiero della religione cristiana, dove Dio ha creato l’universo seguendo leggi razionali che l’uomo può decifrare, nell’islam Allah è assolutamente libero da vincoli. Lo stesso al-Ghazzalì [2], considerato il più importante filosofo e teologo dell’Islam, si oppose fortemente all’idea dell’esistenza di leggi (vincoli) naturali.  Crederlo, secondo lui, sarebbe stato blasfemo e significherebbe negare l’onnipotenza di Allah.

Lo scontro tra i concetti di libera volontà e di predeterminazione divina è stato uno dei grandi temi della riflessione teologica islamica.

Il Corano infatti sostiene simultaneamente l’onnipotenza di Dio e il libero arbitrio umano; Dio è «Creatore di tutte le cose» (6,101; 13,12; 25,2; 39,62). «Creatore del cielo e della terra e di tutto ciò che è in essi» (5,17-18; 15-57), Egli è anche il «Creatore degli uomini e di ciò che fanno» (37,69). Ma il libro sacro dell’Islam accenna anche sulla responsabilità personale di ciascun essere umano verso le proprie azioni e, dunque, indirettamente sul libero arbitrio, nei versetti quali 18,29, 73,19, 74,37, 76,29 e 8,53.

All’interpretazione del messaggio divino contribuisce la conflittualità politica dei primi due secoli, la quale porta un grande impatto sulle coscienze del tempo. I temi sono la legittimità del potere e il suo esercizio.  I confini politici e religiosi scaturiti dalla presa del potere della dinastia omayyade si radicalizzano intorno alla questione del libero arbitrio, sollevata contro una teoria della predestinazione divina degli atti umani. La base politica traeva origine dalla frattura prodotta dalla prima guerra civile[3]: si trattava di legittimare l’esercizio della sovranità omayyade o di denunciare quella pretesa legittimità e, di conseguenza, condannare o giustificare la ribellione della comunità nei confronti di un sovrano iniquo.

La prima corrente a favore del libero arbitrio è quella del Qadar (destino)[4], a favore dell’assoluta libertà della volontà umana, ritenendo che Dio non avrebbe mai ordinato alla sue creature di agire secondo rettitudine e giustizia se non fossero state in grado di farlo.

Tra i primi documenti ad affrontare in modo sistematico la questione della responsabilità umana in relazione alle nozioni coraniche di preconoscenza e determinazione divina, si evidenzia la lettera di al-Hasan al-Basrī (728 d. C.), autorità religiosa del primo secolo dell’Islam, dove veniva sottolineato come Dio non potesse ordinare atti contrari al suo Decreto. Di conseguenza, la trasgressione alla legge divina e le ingiustizie non erano da considerarsi tra gli atti predeterminati dal Signore. In termini simili, la mancanza di fede, pur preconosciuta da Dio, era considerata come derivante dalla libera scelta degli uomini e dal perseguimento dei loro interessi personali.

All’opposto vi era la corrente deterministica di Jabriyya, che vedeva nella predestinazione una conseguenza del suo concetto di assoluta unità fra essenza e attributi di Dio. Secondo questa dottrina, l’onnipotenza divina privava l’essere umano di qualsiasi potere di agire. Elemento portante della dottrina (746 d.C.) era l’assoluta supremazia e unicità divina, per cui risultava impossibile attribuire ad altri esseri al di fuori di Dio qualificazioni quali agente creatore.

Nell’età abbaside, a Basra e Baghdad si sviluppa il mutazilismo[5], scuola di teologi che si diffonde anche nelle province orientali dell’impero e afferma una concezione di unicità di Dio che può essere compresa solo dalle risorse della ragione e pone al centro della sua riflessione il tema della giustizia di Dio, da cui dipende la sua argomentazione a favore del libero arbitrio. I teologi mutaziliti stabilivano una base alla soluzione del problema dell’interpretazione del Corano in rapporto al tempo. Il califfo vedeva in questa dottrine un argomento che legittimava la sua volontà di estendere il suo potere alla sfera religiosa, teologica e giuridica. La dottrina del Corano creato fu imposta come un dogma.

I seguaci delle scuole Mutazili erano noti per negare la non-creazione del Corano e la sua co-eternità con Dio. Da questa premessa, la dottrina Mutazili del kalām[6] deduceva che i precetti di Dio fossero accessibili al pensiero umano e suscettibili di indagine razionale; la conoscenza derivava dalla ragione, e quindi la ragione era arbitro finale nella decisione su cosa è bene e cosa è male.

La visione della scuola mutazilita, tesa a salvaguardare la natura etica di Dio, spiegava che Dio può fare e volere solo ciò che è salutare per l’uomo, ordinando ciò che è buono e proibendo ciò che è condannabile. I mutaziliti focalizzavano la loro attenzione sulla nozione di causalità efficiente (qudra) e riconoscevano l’uomo non solo come essere conoscente, intendente e volente, ma anche come agente e pertanto vero e proprio “creatore” (khāliq) delle sue azioni. In particolare, questa corrente di pensiero considerava la causalità umana come effettivamente creatrice perché attiva indipendentemente da Dio, identificando nell’uomo la causa ontologica dell’azione, l’agente che la pone in atto. L’agire umano veniva pertanto a coincidere con il senso di “porre in essere”, cioè di “produrre” in senso limitativo: nella specifica funzione di ideatore-innovatore (muhdith) dell’atto, l’uomo diveniva un produttore ex nihilo, capace di portare all’esistenza dalla non-esistenza.

La scuola di Basra (840 d. C.) sviluppò la cd.  teoria dei momenti: l’essere umano agisce in un primo momento (il momento dello “star agendo” – yaf‘alu), mentre l’atto accade in un secondo momento (il momento dell’atto avvenuto – fa‘ala). Tale visione implicava la considerazione della volontà umana come assolutamente necessaria e della capacità di agire come necessaria prima dell’atto, ma non più nell’istante dell’avvenuta realizzazione. La volontà dell’uomo, dunque, poteva esercitare una definita libertà di iniziativa e, attraverso la sua scelta, compiere alcune azioni nel mondo esteriore della natura causando effetti. Secondo tale dottrina, l’uomo esercitava una libera scelta che consentiva di optare tra atti giusti o ingiusti, discernendo il principio di giustizia racchiuso nella Rivelazione indipendentemente da quest’ultima e con il solo supporto della ragione.

Gli ashariti (935 d. C.) in contrasto con il Mutazilismo, proposero una natura unica e trascendente di Dio e caratteristiche divine ben superiori alle capacità umane. A questo movimento aderisce la gran parte del mondo islamico sunnita (soprattutto dal Malikismo e dallo Sciafeismo). Il fondatore è stato il teologo Abu al-Hasan al-Ash’ari proveniente da una tribù yemenita. Il disaccordo tra i seguaci degli ashariti e  mutaziliti si manifestò soprattutto su il rifiuto della tesi del libero arbitrio e il trionfo della predestinazione.

Per questa scuola,  l’intera questione del libero arbitrio era racchiusa nella nozione di onnipotenza divina, che riconosceva in Dio l’unico vero autore di ogni azione, buona o malvagia che fosse. Dio, inteso come Creatore del potere di causazione umano, era pertanto creatore dell’atto o dell’evento che tramite questo potere si realizzava. L’uomo si limitava a impossessarsi, tramite acquisizione (kasb), degli atti creati da Dio. L’atto acquisito si rivelava tale per l’esistenza nell’essere umano di sentimento opposto a quella impotenza caratteristica degli atti forzati, ciò che rimandava indirettamente alla distinzione tra atti volontari e atti obbligatori.

Nello specifico, questo pensiero concepiva la capacità (qudra) come effettivo potere di causazione da parte dell’uomo al momento della realizzazione dell’evento. Dio creerebbe nell’agente umano tale potere di causalità solo simultaneamente alla realizzazione dell’atto. Esso tuttavia apparteneva all’essere dotato di potenza (qādir), cioè all’uomo, che ne diventava pertanto il suo muktasib, ossia colui che realmente lo realizzava.

Nell’epoca successiva a quella di al-Ashʿarī, l’opera più significativa di questa scuola di pensiero fu l’incoerenza dei filosofi, del persiano al-Ghazali (1058-1111).

Al-Ghazalī propose un modello filosofico islamico basato su un rapporto di causa ed effetto determinato da Dio o comunque attuabile con l’intermediazione degli angeli; questa teoria prese il nome di occasionalismo. L’occasionalismo teologico, riteneva che tutti gli eventi e le interazioni causali non fossero prodotte da circostanze materiali ma fossero espressioni immediate e tangibili della volontà di Dio.

In questa opera i concetti fondamentali che emersero e influenzarono gli ashariti furono l’eternità del mondo, la conoscenza di Dio delle cose particolari del mondo, l’incapacità dei filosofi di provare l’esistenza di Dio, la sua unità e anche la spiritualità dell’anima.

Nello sciismo duodecimano il dibattito teologico tra libero arbitrio e divina predestinazione, affrontato soprattutto nel IX e X secolo, approdò a una posizione intermedia; le azioni umane, create da Dio, potevano classificarsi simultaneamente come azioni libere in quanto scelte e azioni obbligate in quanto procedenti da una causa prodotta da Dio.

Tale dottrina, (941d. C.) ribadiva che Dio, pur essendo creatore degli atti, non andava considerato responsabile della loro attuazione, essendone soltanto il predeterminatore, cioè colui che ne aveva conoscenza fin dall’eternità.

Gli autori ismailiti del periodo fatimide sostennero che l’uomo, pur capace di scegliere tra bene e male, non fosse in grado di cogliere a pieno le verità del messaggio coranico nella loro essenza né di distinguere correttamente tra i precetti e i divieti contenuti nella legge religiosa. L’umana conoscenza, desiderosa di salvezza e ricompensa nell’aldilà, necessitava pertanto di un perfezionamento. Questo veniva offerto dalla guida di una gerarchia di maestri divinamente designati tra cui i profeti, i loro legatari, i legittimi imam e l’intera catena di dignitari e funzionari religiosi ismailiti, autorevoli interpreti dell’autentico significato spirituale della rivelazione islamica. In tal modo il dibattito sulla libertà umana veniva da ultimo ricollegato all’individuazione dei criteri etici dell’agire e alla questione dell’autorità religiosa.

 

Nel mondo occidentale

 

Nel corso della storia occidentale assistiamo al contrapporsi di due diversi modelli di libertà: da un lato, la libertà come libero arbitrio, ossia come possibilità di decidere arbitrariamente tra due o più alternative (si tratta di quella che gli scolastici definivano potestas ad utrumque): essa è la libertà di indifferenza, tale per cui quando ci si trova a dover compiere una scelta è indifferente che si scelga A piuttosto che B, nel senso che non vi è nessun condizionamento che implichi dall’esterno una differenza e che ci indirizzi a scegliere una cosa anziché un’altra. In quest’accezione, questo modello può essere concepito come modello della “libertà di” fare così oppure non così. Dall’altro lato, troviamo la libertà come assenza di costrizione, la libertas a coactione degli scolastici: non è più l’indifferenza della scelta, tale per cui posso decidere liberamente di scegliere o A o B, ma si tratta piuttosto di una libertà in virtù della quale sia che io scelga A, sia che io scelga B non sono condizionato da una costrizione, sia essa esterna (qualcuno che mi obbliga ad agire in un determinato modo) sia essa interna (le mie passioni). Questo secondo modello implica non già una “libertà di”, bensì una “libertà da”.

Si può notare come la “libertà di” sia sempre considerata come libertà positiva, in quanto si tratta di determinare l’oggetto del volere e sono io stesso a deciderlo; sicchè la “libertà di” comporta la libertà di volere ciò che ancora non si vuole, per cui siamo noi stessi a determinare la nostra volontà: l’uomo non sceglie perché vuole, ma vuole perché sceglie. Sull’altro versante – quello della “libertà da” – ci troviamo dinanzi ad una libertà di tipo negativo, giacchè ciò che si vuole è sempre già presupposto, cosicché io so già che cosa voglio e non sono io a sceglierlo. Dunque, si può dire che nel caso della “libertà di” ciò che voglio non mi è imposto (e per ciò sono realmente libero), mentre nel caso della “libertà da” mi è imposto (e perciò non sono libero).

Se si ipotizza l’esistenza del libero arbitrio, si deve ammettere allo stesso tempo un alveo di non necessità all’interno del meccanismo causale dell’universo che intere tradizioni culturali e filosofiche hanno colmato con la libera volontà. Il libero arbitrio presuppone una sospensione della necessità, un intervento esterno alle leggi di natura capace momentaneamente di sospendere la combinazione causa-effetto. La libertà di scelta implica una responsabilità che l’uomo avverte su di sé ogni attimo della propria esistenza. Perché se si è liberi, ci si chiede cosa sia meritevole fare e cosa non lo sia. I sostenitori del libero arbitrio celano istanze non solo religiose ma sociali. La loro è una necessità e non certo un’evidenza. Se l’uomo non fosse libero sarebbe intollerabile deresponsabilizzarlo al punto da renderlo esente da qualsiasi colpa. Solo teorizzando la colpa, è prospettabile una punizione. Sulla necessità della responsabilità morale non si sono edificate soltanto religioni o dottrine filosofiche ma qualsiasi ordinamento che prospetti delle sanzioni per l’inosservanza delle proprie regole. Se si prospetta il caso come elemento regolatore dell’esistenza, da quelle condizioni di incertezza prolifera l’illusione di poter decidere.   Agostino d’Ippona riteneva che la Grazia divina giocasse un ruolo decisivo nella salvezza o nella dannazione delle anime, senza per questo spingersi a negare l’esistenza della volontà libera. L’uomo è libero ma la Grazia divina era ritenuta un presupposto della libertà umana, concessa da un Dio onnisciente capace di prevedere il futuro e capire chi fosse in grado di meritarsela. Tommaso d’Aquino, riprendendo la visione aristotelica, riaffermò il ruolo preponderante della libertà umana nel creato, proprio in virtù di quella responsabilità morale che altrimenti non sarebbe configurabile nei confronti di alcuno. Sempre nel contesto delle dottrine religiose, le tesi riformiste di Lutero e Calvino, facendo leva sulla predestinazione, ripresero la questione per negare apertamente il libero arbitrio asserendo che non la buona volontà ma soltanto la fede, infusa dalla Grazia divina, consente all’uomo di salvarsi.

Nel pensiero occidentale, numerosi autori e correnti filosofiche hanno affrontato la materia: Anassimandro, gli stoici, Spinoza, il Kant della Critica della Ragion Pura, Hegel, Schopenhauer, Einstein.  Questi sostengono che l’affermazione del succedersi necessario degli eventi è legata all’affermazione dell’esistenza di una verità incontrovertibile. Ne è derivato, nel campo scientifico, giuridico, politico, economico, religioso, artistico e innanzitutto filosofico, il rifiuto di ogni determinismo e il prevalere della convinzione (già presente in Aristotele) che gli eventi che accadono sarebbero potuti non accadere o accadere in modo diverso e che dunque, poiché le decisioni sono un certo tipo di eventi, l’uomo avrebbe potuto non prendere quelle che ha preso, o avrebbe potuto decidere diversamente. Le decisioni sono un «libero arbitrio». Il principio di indeterminazione di Heisenberg (che si riferisce esplicitamente ad Aristotele) dice appunto, in sostanza, che lo stato futuro del mondo, quando accadrà, sarà qualcosa che sarebbe potuto non accadere. Qui, la «possibilità» è la categoria fondamentale.

Nel clima culturale attualmente dominante, la «necessità» rimane solo come conseguenza necessaria di una decisione presa, cioè di uno stato non necessario che è riuscito a imporsi.

Secondo il principio di indeterminazione, le proprietà fisiche di un sistema, non essendo esattamente quantificabili data l’influenza degli strumenti di misurazione sul sistema stesso, non sono indipendenti dall’osservatore. L’osservatore influenza il sistema. Ne consegue che non sia (sempre) possibile prevederne il momento successivo e le evoluzioni future.

 

Il superamento del determinismo e del possibilismo nel pensiero contemporaneo occidentale.

 

Nel pensiero attuale del mondo occidentale, la lacuna nella prevedibilità degli eventi ha indotto il senso comune a ritenere che la decisione sia affidata al caso. Il caso come elemento regolatore e discriminante fra le possibilità in gioco. Ma il caso è il nulla, suggerisce Emanuele Severino[7]. Quel nulla da cui gli enti provengono e in cui ritornano, in quella trasformazione incessante che è il divenire. È al nulla che è affidato il verificarsi di ogni cosa che sarebbe potuta essere così come non essere. Il regno del possibile è fondato sull’assunto secondo cui il mondo così come è adesso sarebbe potuto essere diversamente. Se esiste la possibilità che l’essente accada e parimenti la possibilità che l’essente non accada, allora la realtà stessa è contingente. Nel nulla confluiscono le possibilità mancate, ma di esse non si ha l’evidenza. Quando un evento accade, la sua negazione, ovvero la sua possibilità non accaduta, non continua a sussistere a meno che non si ammetta l’esistenza di dimensioni parallele.[8] Secondo Severino il libero arbitrio è un’illusione perché se la volontà umana si esprime in un certo modo, non può esistere la controprova che si sarebbe potuta esprimere in un modo diverso. L’evento si manifesta nel suo carattere necessario e la volontà è, al pari di ogni ente, e non può non essere, ovvero essere altro da sé.

In conclusione, per quanto antitetici, determinismo e possibilismo hanno in comune la non sperimentabilità di ciò che essi affermano. Ma hanno in comune anche qualcosa di più radicale: l’affermazione della metamorfosi delle cose. Per il determinismo il passaggio delle cose dall’esistenza all’inesistenza (e viceversa) è inevitabile, avviene con necessità; per il possibilismo questo passaggio non è inevitabile. Ma per entrambi è indiscutibile che questo passaggio esista e che anzi sia l’evidenza suprema. Tutti ne sono convinti. Ma a ben riflettere, non solo determinismo e possibilismo affermano qualcosa di non sperimentabile, ma che non è qualcosa di sperimentabile nemmeno quella metamorfosi delle cose che i due antagonisti hanno in comune: nemmeno quell’andare delle cose dall’esistenza all’inesistenza e dall’inesistenza all’ esistenza, che il mondo considera come l’evidenza suprema e supremamente indiscutibile.

3/3/2022

Giuseppe Chiantera

 

Note

 

[1] Prescienza: la conoscenza anticipata del futuro. Facoltà attribuita solo a Dio in virtù della sua onniscienza.

[2] Abū  Ḥāmid Muḥammad Ibn Muḥammad Aṭ-ṭūsī al-Ghazālī, il cui nome venne latinizzato come Algazel   (Tus, 1058 – Tus, 19 dicembre 1111). Nell’Islam al Ghazali afferma che nessun uomo ha meriti presso Dio perché non ha libero arbitrio, deve solo seguirne la legge e affidarsi alla sua infinita onnipotenza.

[3] Prima Fitna, nota anche come la battaglia del cammello. “Battaglia del Cammello”  è il nome dato allo scontro che nel dicembre 656 contrappose presso Basra il quarto califfo dell’Islam Alī ai due Compagni del profeta Maometto: Ubayd Allāh e al-Zubayr, entrambi sostenuti dalla sua vedova ʿĀʾisha bt. Abī Bakr. Tutti, a diverso titolo, contestavano la validità dell’elezione califfale avvenuta immediatamente dopo l’assassinio a Medina di ʿOthmān b. ʿAffān.

[4] Nel linguaggio teologico musulmano, il Qadar, decreto di Dio ab aeterno circa gli avvenimenti del mondo, e quindi la predeterminazione divina degli atti umani. Qadariti furono detti i seguaci della scuola teologica musulmana (Qadariyya) che pose al centro della sua speculazione il problema del Qadar, negando il determinismo e affermando il principio del libero arbitrio dell’uomo. Sorta a Bassora negli ultimi anni del sec. 7° d. C., poco dopo il suo sorgere fu dichiarata eretica; la sua dottrina del libero arbitrio fu poi parzialmente accolta dai mutaziliti, detti anch’essi da taluni qadariti. I Qadariti promuovevano la nozione di delega all’uomo da parte di Dio del potere di agire.

[5] Mutazilismo. Indirizzo teologico musulmano. La sua origine va ricercata nelle lotte politiche dell’inizio dell’8° sec. d.C. (1°-2° dell’egira). I suoi principali dogmi furono: l’affermazione del libero arbitrio umano; la negazione della esistenza ab aeterno degli attributi di Dio; l’eternità delle pene infernali per i peccatori rei di gravi peccati, anche se musulmani nonché la negazione della visione di Dio anche nella vita futura.

Nato a Bassora dal sunnismo, l’approccio mutazilita conobbe momenti di grande diffusione, e vi furono dei periodi in cui il mutazilismo fu la “dottrina di Stato” nel califfato abbaside durante l’epoca d’oro islamica. Dopo il X secolo perse seguito e fu definitivamente abbandonato nel XIII secolo con la persecuzione dei filosofi. Oggigiorno alcuni suoi aspetti si ritrovano solo nello sciismo di orientamento zaydita: la teologia islamica moderna lo considera un’eresia, perché nega sostanzialmente l’eternità del Corano e perché tende ad affermare il libero arbitrio. Nel jihadismo moderno sono frequenti le accuse di mutazilismo fra i vari gruppi integralisti, nel tentativo di screditare dottrinariamente gli avversari.

Dal momento che Dio (Allah) fa conoscere la Sua volontà (che s’identifica col Bene) soltanto tramite la Rivelazione – in mancanza della quale l’umanità non avrebbe alcuna possibilità di orientarsi, fidando nei suoi soli fallibili sensi e nella sua limitata intelligenza – quanto detto da Dio nel Corano assume un valore fondamentale. Studiare cioè la Parola divina significa conoscerLo, sia pure nei soli aspetti che sono stati fatti oggetto della Rivelazione.

Tale approccio non sempre è condiviso dai mistici che privilegiano invece un rapporto “personale” con Dio, un’ascesi progressiva che mira a fare riconfluire il proprio Essere apparente nell’Unico davvero esistente.

Il fatto che il Corano sia sempre stato definito “parola di Dio” ha condotto a un durissimo confronto (non sempre rimasto sul piano puramente teorico) sulla “createzza” del testo sacro islamico. Da un punto di vista eminentemente storico tutto portava a credere che esso fosse stato creato da Dio per gli uomini in un dato momento storico dell’esistenza dell’umanità, ma contro la tesi della “createzza” coranica si mossero tanto Ahmad ibn Hanbal, quanto Abu al-Hasan al-Ash’ari. Essi sostennero infatti che, proprio perché “parola di Dio”, il Corano non poteva essere che eterno a parte ante, dal momento che sarebbe stato inammissibile che un attributo divino fosse creato dall’Essere stesso cui quell’attributo pertiene ontologicamente.

[6] Kalam.  Termine che significa discorso, trattato o discussione; si riferisce alla tradizione islamica di perseguire i principi teologici di dialettica. Il termine è spesso usato per denotare la teologia islamica. Il kalam non ha mai raggiunto la stessa posizione che ha la teologia all’interno del occidentale cristiano.

[7] Emanuele Severino. La filosofia di Emanuele Severino si innesta nel dibattito ontologico avviato da Heidegger e, tuttavia (a differenza di Heidegger), si propone un ritorno all’antico pensiero di Parmenide di Elea. Per Severino la questione principale da affrontare risale alla metafisica classica e riguarda la contraddizione o meno tra l’essere e il non essere o divenire. Il filosofo affronta il problema tenendo presenti autori contemporanei quali Nietzsche e Heidegger. La tesi generale è che l’errore dell’Occidente consiste nell’essersi allontanato dal precetto parmenideo secondo il quale solo l’essere è e può essere pensato e definito. Il peccato originale dell’Occidente è avvenuto dopo Parmenide, quando il pensiero greco, invece di considerare soltanto l’essere, ha evocato il divenire inteso come la dimensione visibile dove le cose provengono dal niente e ritornano nel niente, dopo essersi trattenute provvisoriamente nell’essere. Il divenire diventa l’oscillazione delle cose tra l’essere e il niente: ma Severino, sull’onda dell’insegnamento parmenideo, nega l’esistenza stessa del divenire. L’impianto filosofico di Severino può essere così sinteticamente riassunto: a) L’abbandono dell’essere parmenideo e la scelta del divenire provocano nell’umanità occidentale un sentimento di angoscia di fronte al niente;  b) l’occidente con la logica del rimedio innalza gli immutabili per difendersi dal divenire che esso ha evocato, cioè costruisce le entità  (Dio) e i valori (etici, naturali, ecc. ) trascendenti e permanenti; c) al di sopra degli immutabili l’epistème, cioè l’essenza originaria della filosofia, la volontà  di conoscere stabilmente la verità  del mondo. Severino stravolge il discorso filosofico occidentale: giacchè nel mondo non vi è il divenire – esso è solo una doxa degli uomini, secondo l’insegnamento parmenideo -, non è necessario far riferimento ad un ente eterno e trascendente; il mondo stesso che ci appare dinanzi è eterno.

Severino può apparire paradossale, anche assurdo, inconcepibile, perchè sostiene che tutto è eterno, non solo ogni uomo e ogni cosa, ma anche ogni momento di vita, ogni sentimento, ogni aspetto della realtà , e quindi niente scompare, niente muore. Tutti da millenni credono che le cose e gli uomini nascono dal nulla e nel nulla ritornano; ma è una contraddizione: ciò che è non può non essere, nè può essere stato o potrà  mai essere nulla. Noi siamo eterni e mortali perchè l’eterno entra ed esce dall’apparire. La morte è l’assentarsi dell’eterno.

Severino cerca di dimostrare che la persuasione che una qualsiasi cosa o evento (uomo, pianta, stella, situazione, istante) possa annientarsi, e annientato sia niente, è Follia essenziale.

Al di fuori della Follia appare l’eternità  di ogni cosa e di ogni evento. In tale prospettiva, Dio non è il demiurgo ma l’apparire infinito degli eterni

[8] Giuseppe Mario Pizzuti, La libertà e/è il nulla. Ontologia originaria, Edizioni Scientifiche Italiane,  luglio 2014

 

Bibliografia

  • La struttura originaria, Brescia, La Scuola, 1958-2014; Nuova ediz. riveduta, Introduzione del 1979, Milano, Adelphi, 1981.
  • Ritornare a Parmenide. Poscritto, in «Rivista di filosofia neoscolastica», LVII 1965, n. 5, pp. 559–618; poi in Essenza del nichilismo, Brescia, Paideia, 1972, pp. 67–148; nuova edizione ampliata, Milano, Adelphi, 1982, pp. 63–133.
  • Essenza del nichilismo. Saggi, Brescia, Paideia, 1972; II ediz. ampliata, Milano, Adelphi, 1982.
  • Legge e caso, Piccola Biblioteca n.89, Milano, Adelphi, 1979.
  • Destino della necessità. Κατὰ τὸ χρεών, Biblioteca Filosofica n.1, Milano, Adelphi, 1980.
  • Il parricidio mancato, Collana Saggi n.31, Milano, Adelphi, 1985.
  • La filosofia contemporanea. Da Schopenhauer a Wittgenstein, Milano, Rizzoli, 1986; nuova edizione, 2004.
  • Il giogo. Alle origini della ragione: Eschilo, Biblioteca Filosofica n.6, Milano, Adelphi, 1989.
  • La filosofia futura, Milano, Rizzoli, 1989; nuova edizione ampliata, 2005.
  • Pensieri sul Cristianesimo, Milano, Rizzoli, 1995; nuov edizione, 2010.
  • Tautótēs, Biblioteca Filosofica n.13, Milano, Adelphi, 1995.
  • La filosofia dai Greci al nostro tempo, Milano, Rizzoli, 1996.
  • La legna e la cenere. Discussioni sul significato dell’esistenza, Milano, Rizzoli, 2000.
  • La Gloria. ἄσσα οὐκ ἔλπονται: risoluzione di «destino della necessità», Biblioteca Filosofica n.20, Milano, Adelphi, 2001.
  • Dall’Islam a Prometeo, Milano, Rizzoli, 2003.
  • Fondamento della contraddizione, Milano, Adelphi, 2005.
  • Il muro di pietra. Sul tramonto della tradizione filosofica, Milano, Rizzoli, 2006.
  • Oltrepassare, Biblioteca Filosofica n.25, Milano, Adelphi, 2007.
  • Immortalità e destino, Milano, Rizzoli, 2008.
  • Discussioni intorno al senso della verità, Pisa, Edizioni ETS, 2009.
  • Volontà, destino, linguaggio. Filosofia e storia dell’Occidente, a cura di Ugo Perone, Torino, Rosenberg & Sellier,2010, ISBN978-88-788-5103-0.
  • Istituzioni di filosofia, Brescia, Morcelliana, 2010, ISBN978-88-372-2456-1. [dispense del corso tenuto nel 1968 all’Università Cattolica di Milano]
  • La morte e la terra, Biblioteca Filosofica n.30, Milano, Adelphi, 2011.
  • Capitalismo senza futuro, Rizzoli, Milano, 2012.
  • Intorno al senso del nulla, Saggi. Nuova serie n.70, Milano, Adelphi, 2013.
  • Sul divenire. Dialogo con Biagio De Giovanni, Modena, Mucchi, 2014.
  • L’essere e l’apparire. Una disputa, con Gustavo Bontadini, Brescia, Morcelliana, 2017. ISBN 978-88-372-3117-0
  • Dell’essere e del possibile, con Vincenzo Vitiello, Milano, Mimesis, 2018. ISBN 978-88-575-4902-6
  • Dispute sulla verità e la morte, Milano, Rizzoli, 2018. ISBN 978-88-170-9823-6
  • Lezioni milanesi. Il nichilismo e la terra (2015-2016), a cura di Nicoletta Cusano, Milano, Mimesis, 2018, ISBN978-88-575-4686-5.
  • Testimoniando il destino, Biblioteca Filosofica n.39, Milano, Adelphi, 2019. ISBN 978-88-459-3346-2.
  • Ontologia e violenza. Lezioni milanesi (2016-2017), a cura di Nicoletta Cusano, Milano, Mimesis, 2019, ISBN978-88-575-5409-9.

 

 

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