di Enrico Marino
Sul Sole 24 Ore del 18 aprile Sergio Luzzattoricostruisce l’epos resistenziale che, alimentato dagli articoli di Italo Calvino, elevò i fratelli Cervi a icone dell’antifascismo e santini della liberazione. La“lezione” dell’articolo è che “durante la guerra civile del 1943-45, i partigiani rossi erano stati vittime delle belve nazifasciste molto più che carnefici di agnelli innocenti”. Ma se l’aprile 1945 fu il mese delle radiose giornate è a maggio che si consumarono alcune delle pagine più efferate del dopoguerra. Ecco la storia dei sette fratelli Cervi e quella sconosciuta dei fratelli Govoni e da queste due storie si può vedere qual’era la differenza tra la violenza fascista, criminalizzata come bestiale, e quella partigiana, normalmente premiata con una medaglia d’oro. I Cervi sono antifascisti e prendono da subito le distanze dal regime.
Alla fine degli anni ’20 Aldo viene imprigionato nel carcere di Gaeta per tre anni, legge Gramscie Marx e, rientrato, estende questa esperienza a tutti gli altri fratelli. Quando le restrizioni alla libertà si fanno più dure i Cervi iniziano atti di sabotaggio agli ammassi imposti dal regime, alle linee dell’alta tensione che alimentavano le fabbriche reggiane di armi, fanno volantinaggio, distribuiscono clandestinamente l’Unità, la loro diventa una casa dove si fanno riunioni segrete, si organizzano attentati contro i fascisti e si ospitano renitenti alla leva e militari alleati dispersi. Casa Cervi viene messa a ferro e fuoco dai fascisti la notte fra il 24 e il 25 novembre 1943. I sette fratelli, catturati, verranno portati al carcere dei Servi di Reggio Emilia e verranno fucilati senza processo all’alba del 28 dicembre 1943, al Poligono di tiro di Reggio Emilia. Il più vecchio Gelindo ha 42 anni, il più giovane Ettore 22 anni. L’azione dei fascisti è un’azione di guerra e di rappresaglia: i Cervi vengono infatti accusati di aver complottato per l’uccisione del segretario fascista di Bagnolo in Piano (Reggio Emilia). E anche nelle “esecuzioni” si riconoscono due Italie differenti e contrapposte, due stili esistenziali antitetici anche nei modi di intendere le contrapposizioni radicali e irriducibili che dettano le regole di comportamento tra nemici in una guerra.
La famiglia Govoni, di antico ceppo contadino, era una delle più numerose di Pieve di Cento, un grosso borgo quasi al confine con la provincia di Ferrara. La componevano Cesare Govoni, sua moglie e 8 figli: sei maschi e due femmine. Il primogenito si chiamava Dino, si era iscritto al Partito fascista repubblicano, comportandosi sempre correttamente. Quando lo ammazzarono aveva compiuto da poco i 41 anni. Dopo Dino veniva Marino,di 33 anni, era coniugato e aveva una figlia. Combattente d’Africa, aveva aderito alla R.S.I., contro di lui non pendevano accuse. Terzogenita una donna, Maria,nata nel 1912. Fu l’unica a salvarsi degli 8 fratelli perché, dopo sposata, si era trasferita con il marito. Veniva poi Emo, di anni 32, che non aveva aderito alla R.S.I. e viveva in casa con i genitori. Il quintogenito, Giuseppe,di anni 30, coniugato, faceva il contadino ed abitava nella casa paterna. Nemmeno lui era iscritto al P.F.R, quando lo uccisero, era diventato padre da tre mesi. Il sesto e il settimo dei fratelli Govoni erano Augusto, di 27 anni, e Primo, di 22 anni, ambedue ancora celibi e contadini, non si erano mai interessati di politica. L’ultima nata si chiamava Ida, aveva 20 anni, si era sposata da un anno ed era diventata mamma solo da due mesi. La strage dei 7 fratelli Govoni non fu un’azione di guerra né il frutto di un odio furibondo accumulato nei mesi di lotta fratricida, ma fu la conseguenza di un piano freddamente e cinicamente attuato in base alle direttive del Partito Comunista con lo scopo di seminare il terrore. I partigiani non furono che gli esecutori di queste direttive che insegnavano, tra l’altro, come il terrore lo si semini maggiormente con i fulminei prelevamenti, le silenziose soppressioni, il segreto assoluto sulla sorte toccata alle vittime e sul luogo della loro sepoltura.
La strage dei 7 fratelli venne preceduta da molti massacri; nessuno però ne parlava, anche se tutti sapevano. Al tramonto del 10 maggio 1945, iniziarono i prelevamenti dei fratelli Govoni. Era giorno fatto quando i prigionieri, raggiunsero un podere dove in un grande camerone adibito a magazzino, cominciò a sfogarsi la ferocia dei partigiani: pugni, calci e colpi di bastone.. Non è possibile riferire tutto ciò che accadde in quelle ore; basti dire che nessuna delle vittime morì per arma da fuoco, le loro urla strazianti risuonarono per molte ore e, quando vennero ritrovati, tutti i cadaveri avevano fratture in più punti e risultavano legati col filo spinato. L’Italia era stata “liberata”.
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