Il trionfo del Male?
Di questi tempi sembra che il Male goda di ottima salute. Cosa che non si può certo dire del bene. Lo dice anche Mefistofele: «Come sempre va malissimo, laggiù». Il che, per lui, vuol dire benissimo. Anzi, penso che il Male stesso sia sorpreso da questa entusiasmante supremazia di fattori maligni, ahrimanici, satanici, secondo il lessico che ognuno preferisce. Chi si illudeva che certi orrori del passato non sarebbero tornati, si rassegni. Anzi, si aspetti le peggiori barbarie. Il diavolo sembra aver favorito il progresso tecnico-scientifico per usarlo contro di noi.
È sconcertante che l’Uomo scriva le Upanisad, costruisca le cattedrali gotiche, scolpisca la Pietà ecc. e insieme si macchi di tante atrocità! Eviterei però di personalizzare il Male presente, di decodificarlo in volti umani, indicando in certi personaggi attuali gli emuli di Caligola, Eliogabalo, Ezzelino ecc. Potremmo illuderci che basti eliminare quei volti per cancellare il male dal mondo. È nostra abitudine curare il male col male, la violenza con la violenza. Terapia che offre talvolta un momentaneo sollievo, ma ha il difetto d’esser puramente sintomatica e di cronicizzare il male. Per altro, quei volti non sono mai i nostri.
Nessuno ritiene d’essere sostanzialmente malvagio, nemmeno il peggior criminale. Forse non ci giudichiamo perfetti, ma quel che facciamo ci pare sempre giustificato da una buona ragione. Il male è l’altro, l’economia, la politica, la finanza, la società degenerata, l’informazione. Proiettare il male fuori di noi ci rassicura, ci aiuta a tollerarci. Tuttavia, se tutti fossimo sostanzialmente buoni, come crediamo, l’esistenza del male sarebbe inesplicabile.
Cos’è il Male?
“La vita non può aver interesse se non a condizione che si cerchi di risolvere il problema del male” diceva Renouvier. È vero, ma cos’è il male? Ognuno sembra saperlo, in realtà non è facile dirlo. È sofferenza, colpa morale, peccato, principio metafisico? La gente non si cura in genere di questioni teoriche. Ma c’è differenza tra ciò che è male e ciò che fa male. Il dolore e la morte hanno una loro giustificazione fisiologica. Quindi non sempre sono un male.
Intendere il male come peccato o realtà metafisica è per altro estraneo a prospettive culturali sempre più laicizzate. Anche la colpa morale ha subito profonde trasformazioni. Una delle sue roccaforti storiche – la sessualità – è miseramente caduta. E il moralismo pare rivolgersi ora all’ecologia, all’ambiente, alle campagne vaccinali, ad altro genere di purificazioni.
In linea di massima, il ‘male’ si lega oggi all’idea dell’uomo come realtà bio-politica ed economica imposta dalla comunicazione di massa. La nozione di ‘negatività’, più che da personale riflessione, dipende da un indottrinamento di massa. Tuttavia, emancipata dalle tradizionali visioni metafisiche, l’etica pare priva di un solido ubi consistam, consegnata a un’arbitraria convenzionalità. Il Bene banalmente coincide col rispetto di leggi giuridiche o di mercato, col piatto conformarsi ai costumi e ai pregiudizi di un’epoca.
Cos’è la morale?
In certi casi la moralità può sembrare un istinto naturale. Ad esempio, gli atti attribuiti a un Gilles de Rais – trovar godimento nel torturare dei bambini – suscitano anche nella bolsa e patinata moralità dell’uomo contemporaneo un orrore spontaneo. Tuttavia, in certe culture non era un male compiere sacrifici umani o gettare nel fuoco bambini vivi per propiziarsi oscure divinità. Torturare e uccidere animali per scopi scientifici o alimentari è per noi legittimo, ma in alcune religioni è considerato un atto orrendo.
Se la moralità nascesse da un istinto sarebbe, come il sesso, governata da pulsioni comuni a tutti in ogni tempo. È vero che una moralità istintiva, come succede alla sessualità, potrebbe presentare forme deviate e pervertite. Ma, tradizionalmente, il senso etico sembra svilupparsi piuttosto in contraddizione coi nostri istinti e desideri, essere una loro correzione.
Solo recentemente l’uomo ha invertito questo rapporto. È cioè l’istinto che oggi corregge la moralità, cosicché il fondamentale postulato dell’etica diventa la soddisfazione del desiderio: il ‘Male’ è ciò che contraddice la nostra volontà. Il moralista moderno è un tipo nietzschiano, la sua morale è affermare sé stesso, di solito poco eroicamente. Col risultato che se un tempo molti soffrivano di sensi di colpa, oggi è normale avere un complesso di innocenza.
Esiste il Male?
D’altro lato, il problema del pensiero religioso, che una certa teodicea ha cercato faticosamente e forse inutilmente di risolvere, è come conciliare l’idea di Dio con la presenza del male. Il dubbio fondamentale è questo: se Dio, oltre a essere onnipotente, è infinita bontà, come si spiegano le nefandezze, la miseria, la malattia, la morte ecc.?
Si può rispondere: a) che Dio non esiste b) che non è buono c) che non è onnipotente. Alcuni cercano di ‘giustificare’ Dio sostenendo che il male è necessario a una dialettica degli opposti, che anch’esso concorre alla perfezione dell’universo ecc. Altri fanno derivare il male dalla libertà che Dio ha concesso all’uomo. Senza libertà, infatti, il bene stesso non potrebbe sussistere. Ma la libertà dell’uomo sembra aver provocato in prevalenza danni. Quindi, dovremmo esser grati a chi oggi ce ne vuol privare, riparando all’errore di Dio!
Alcuni pensano invece che Dio abbia creato solo il bene. Il cosiddetto male sarebbe opera di potenze inferiori, Arconti, demoni, figure subalterne. Ma, dato che solo Dio può creare dal nulla, vien naturale chiedersi come abbiano fatto costoro a creare il male. Per stornare il sospetto che grava sull’opera di Dio, alcuni sostengono che il male non esiste realmente, che sia solo un bene inferiore. «Ogni male parziale è un bene universale» dice Pope.
Così, i crimini di Jack lo sventratore sarebbero solo forme di bontà minori rispetto al fare opere di misericordia o al condurre una vita santa. Non potremmo accusarlo dicendo: “hai agito male”, ma solo: “potevi far meglio”. E dovremmo pensare che anche le sofferenze delle sue vittime fossero solo un bene minore rispetto all’essere trattate con amore. Se esclamiamo “che peccato!”, sarebbe nel senso che ci siamo lasciati sfuggire l’occasione di migliorare, che abbiamo commesso un errore o, come si dice, non abbiamo ‘centrato il bersaglio’. Tuttavia, in genere non ci sembra di dover scegliere, fra infiniti beni, quello maggiore, ma tra vari mali quello minore.
Affermando che il male non esiste, se non come privatio boni, si proscioglie Dio dall’accusa di averlo creato. Quello che chiamiamo ‘male’ sarebbe solo una privazione o diminuzione di bene, come il buio rispetto alla luce, una causa deficiente. Suona però astratto, contrario alla nostra esperienza concreta. È un po’ come se qualcuno tentasse di convincerci che un intenso dolore è una mera sottrazione di piacere, o che il nero è una privazione del bianco. Per questo l’assioma di Pope – “tutto ciò che è è bene” – sembrava a Voltaire “un insulto ai dolori della vita”.
Il Male è necessario?
Secondo la tesi manichea, questo non è “il migliore dei mondi possibili” ma il risultato di una lotta incerta tra due principi contrapposti: Bene e Male, luce e tenebra. In fondo è un’idea cui molti, senza competenze teologiche, aderiscono tuttora. Satana, l’Avversario, è per la coscienza cristiana una sorta di mito borderline, dalle risonanze dualistiche. Il diavolo diviene per alcuni il Principio della Materia opposto al Principio dello Spirito, con cui pare contendersi il dominio del mondo.
Da qui un rozzo ascetismo che vede nella natura il male, un coacervo di impulsi bestiali che è necessario mortificare (e infatti il diavolo ha preso le fattezze lascive e caprine di Pan). Va dunque ricordato che Satana è una creatura. È un semplice istigatore e tentatore. Non crea il male, non è il Male, se lo trova davanti come possibilità cui dare o negare il suo assenso. Non è un anti-Dio ma un Anticristo. Egli non nega il principio divino, il Bene, ma vorrebbe annichilire il suo manifestarsi e incarnarsi nel creato, quindi anche le sue forme naturali, corporee. «Il meglio sarebbe che nulla avesse origine» afferma Mefistofele.
Nel mazdeismo, analogamente, Ahura Mazda, principio creatore, è padre di due gemelli, Spenta Mainyu e Angra Mainyu, entrambi dotati di volontà propria e della capacità di scegliere. Uno sceglie la verità e il bene, l’altro il male e la menzogna. Potremmo supporre quindi che la responsabilità del male ricada su Ahura Mazda, che ha generato Angra Mainyu. In realtà, secondo la dottrina zoroastriana, l’unico colpevole è quest’ultimo, e chiunque scelga liberamente il male.
Tuttavia potremmo chiederci: se Mazda (o Yahweh) è il Bene, vuole il Bene, e l’universo è un riflesso della sua volontà, come si spiega il male? Da dove viene? Seppure la causa occasionale del male possa essere una scelta di Satana o dell’uomo, diremmo che è Dio a rendere possibile questa opzione, è Lui che rende il male possibile.
Dovremmo quindi supporre una necessità che rende inevitabile in questo universo la possibilità del male. Qualcosa che, in un certo senso, ‘costringe’ Dio a inserire il male nel suo progetto cosmico. Forse il motivo è che non potremmo godere del bene se non ne conoscessimo il contrario. In tal caso, però, la caduta dell’uomo, il ‘peccato originale’, sarebbe solo apparentemente frutto di una scelta. Cedendo alla tentazione l’uomo avrebbe semplicemente dato corso all’ordine prestabilito e necessario delle cose.
Il Male è un atto o un effetto?
Per altro, queste discutibili ipotesi metafisiche cercano il perché e il come del male, ma non il cosa. Di cosa è fatto il ‘frutto proibito’, che sostanza, che sapore ha? Se l’atto malvagio avesse un cattivo sapore nessuno lo sceglierebbe. Si può dedurne che il male non stia nell’atto ma nei suoi effetti. La morale sarebbe quindi la scienza delle conseguenze dei nostri atti e, in quanto tale, soggetta a limiti cognitivi, a errori di ragionamento, al rischio di manipolazioni e di informazioni fallaci, segnata da una perenne aleatorietà e precarietà.
Questo però non dice ancora ‘cosa’ il male sia. Con quale criterio possiamo stabilire che le conseguenze dei nostri atti sono cattive? È evidentemente impossibile deciderlo senza una preventiva idea del bene. Ma dire che il male è il contrario del bene sarebbe come dire che la sinistra è il contrario della destra o il nord del sud. L’etica dipenderebbe così dal punto di vista. E infatti il relativismo moderno lascia sempre aperta la possibilità di mutare l’ago della bussola.
L’universo è morale?
La stella polare che ci orienta è, a mio parere, il nostro naturale tendere verso la felicità. Ma questo può apparire un criterio soggettivo e sempre potenzialmente in conflitto con i desideri altrui. Inoltre, neppure noi sappiamo a priori cosa ci rende felici. Perciò, dicono alcuni, il giusto orientamento non ci può esser comunicato dalle nostre emozioni. Serve una rivelazione sovrumana e non discutibile, i cui insegnamenti (o comandamenti) guidino la nostra confusa coscienza morale.
Apprendiamo così che il cosmo non è la risultanza di un’accidentale evoluzione ma è dotato di una sua intrinseca direzionalità e intenzionalità. Non solo la nostra esistenza ma quella dell’intero universo ha natura morale, nel senso che tutto è preordinato naturalmente al bene. Il nostro destino è il frutto di un organismo retributivo, trama di interazioni morali che affonda nel passato e si estende nel futuro. Ma è pure un sistema sanzionatorio, come “reazione di un ordine turbato contro colui che lo turba”.
Tutte le grandi religioni, nonostante prospettive metafisiche diverse, condividono un’unica dottrina morale. Alla domanda “cos’è il Male” rispondono: il mentire, l’uccidere, il rubare, la cupidigia, l’odio ecc. Un’unica rivelazione ci indica la natura sediziosa di comportamenti che contraddicono la struttura teleologica del creato, il suo tendere alla beatitudine, alla “gioia completa”.
Questa risposta non sembra del resto irragionevole o contraria ai nostri sentimenti. Infatti nessuno vuol esser trattato malamente, ingannato, depredato ecc. Perciò la regola del “non fare ad altri ecc.” sta alla base anche di un’etica laica, come quella confuciana, che prescinde da ispirazioni celesti. “Il male è fare ad altri quello che non vorremmo fosse fatto a noi stessi” sembra il precetto più semplice e convincente su cui fondare una morale comune.
Potremmo tuttavia vedervi il pericolo di assimilare il male a quello che noi “non vorremmo”, affidandolo a un giudizio soggettivo. Potrei credere allora che il bene sia quello che io vorrei, e ricadere in un’apologia dell’io e del suo desiderio. Perché allora, se lo voglio, non massacrare intere popolazioni, accumulare ricchezze a spese degli altri? Anche la ‘regola aurea’ ha quindi in sé una sottile contraddizione.
Etica della forza o della giustizia?
Nel complesso, le nostre decisioni morali sembrano dipendere da postulati non dimostrabili. Se poniamo all’origine della vita un Principio spirituale, l’etica diventa essenzialmente una forma di fede e di ubbidienza nei riguardi di una trascendenza. Se invece la vita ci appare governata da un’evoluzione casuale, da determinismi fisici, diventa difficile imporre ai nostri comportamenti altra legge che non sia quella opportunistica del proprio interesse vitale. Il leone sbrana la gazzella, il ragno mangia la mosca ecc. Quindi, se mi tornano utili, anche rubare, uccidere o mentire sono un bene.
Il discorso può cambiare – ma non nella sostanza – nel momento in cui mi unissi ad altri, formando una società, una tribù, uno Stato. L’associarsi determina un egoismo collettivo, realizzato attraverso doveri reciproci, subordinando gli scopi privati a quelli comuni. Si stabilisce una sorta di ‘contratto sociale’, teorico sistema di regole e di leggi il cui rispetto rappresenta il bene, la cui violazione è il male. Ma tale moralità contrattuale ha natura puramente pragmatica e relativa.
Lo notiamo nel nostro concetto di ‘nemico’: ciò che è male per il nemico è bene per noi e viceversa. E in caso di conflitti, il male è giustificabile se commesso dai vincitori, imperdonabile ai vinti. Inoltre, nessun contratto può impedire che ai vincoli morali si sottraggano coloro che godono di particolari poteri e privilegi. Infine, chi fa politica identifica il Bene con una ‘Ragion di Stato’ che rende lecita ogni turpitudine. In sostanza, si torna a un’etica selvaggia, basata su una darwiniana ‘sopravvivenza del più adatto’.
Accade così che, in un’etica non della giustizia ma della forza e della scaltrezza, qualcuno si trovi al di là del bene e del male. «Se non è rispettata la giustizia, che cosa sono gli Stati se non delle grandi bande di ladri?» diceva sant’Agostino. La nostra è certo una società molto più machiavellica che cristiana. Ma questo è un problema che, storicamente, riguarda tanto le istituzioni statali quanto la Chiesa. Laica o confessionale, privata o pubblica, la moralità implica sempre elementi di ipocrisia, di violenza, di illusorietà, di abitudine ottusa.
Il Male come contrazione dell’essere
Apparentemente la coscienza del male si forma in noi attraverso la riflessione e l’esperienza. Ma io credo nasca da un’intuizione trascendentale, com’è per la mia percezione di essere e di appartenere a un cosmo solidale. L’etica è la mia aderenza a un principio spirituale che orienta l’universo al bene, è il senso fondamentale di una mia responsabilità verso la vita, del mio dovere verso ogni creatura, e una comprensione dell’equilibrio necessario tra questo dovere e la mia libertà.
Il Bene è ciò che rispetta, protegge e favorisce l’espansione del mio essere. Questo non va però inteso come il diritto di una cellula separata dall’insieme (il che causerebbe un cancro spirituale) ma come partecipazione a una totalità cosmica. Il Male è perciò quello che blocca il fluire della vita – nelle sue varie forme – verso la pienezza, ciò che ne avversa il fiorire, l’élan.
Questo introduce un elemento ambiguo e cruciale. L’espansione del sé è infatti legata al piacere, la sua contrazione al dolore. Sarebbe quindi logico pensare che il piacere coincida col bene e la sofferenza col male. Idea che contraddice il fondo anti-epicureo di certo moralismo religioso, con le sue concezioni doloristiche e penitenziali e la tendenza a vivere un’eterna quaresima.
Secondo un’etica del piacere la nostra colpa è dunque soffrire, non provare gioia nella vita. La nostra infelicità ci accusa di immoralità. Il nostro peccato è l’aver ridotto un mondo destinato alla felicità in una sentina di affanni e di tormenti. Ma come distinguere questa etica del piacere dalla libidine, dalla dissipazione sensuale?
Non esiste in effetti un criterio razionale per capire se il piacere è legato a un’espansione della coscienza o è stordimento, evasione, grezzo palliativo all’infelicità. Lo colgo intuitivamente, come riconosco la differenza tra il brutto, il deforme, e ciò che bello, armoniosamente proporzionato. Questo riconoscimento presuppone qualcosa di analogo al senso estetico. Una sorta di orecchio interno che percepisce il male come cacofonia dell’essere, una frattura nella sua naturale armonia. Solo partendo da questa sensibilità interiore posso elaborare un’etica.
Il Male come nulla
Vorrei però fare un altro passo e dire che in realtà non posso scegliere il bene, perché mi è dato come mia natura, mi appartiene già. Come Lucifero, non posso scegliere la luce, perché sono già illuminato. Il male, la tenebra, non è realtà positiva, è il ‘no’ detto alla mia natura, al mio autentico destino e, di conseguenza, un intimo nulla. È “lo spirito che sempre nega”. Come la menzogna, evoca una inesistenza. È ombra del reale.
Per questo nessuno pensa di volere il male, e a ragione, perché la nostra volontà è indefettibilmente attratta dal bene. Per spiegare l’esistenza del male bisogna quindi superare l’idea che esso dipenda dalla volontà, e osservare ciò da cui la volontà è determinata. Il volere infatti tende a un fine che gli è suggerito dalla percezione o nozione di un valore. Perciò volere il male è in realtà pensare il male come bene, effetto di un errore percettivo o cognitivo.
La privatio boni nasce dunque da una privazione di verità. Il male, inteso sia come sofferenza che come colpa, è frutto di quella fondamentale avidya (ignoranza) che il Buddha pone all’origine dell’esistenza condizionata. È così che il Male oggi trionfa, mettendo in atto una distruzione sistematica della verità, nascondendo all’uomo la sua vera natura, negando il suo essere sacro, riducendo l’uomo alla sua animalità e infine a mezzo meccanico di produzione. Ne segue logicamente la distruzione della nostra libertà, in quanto la nostra volontà, condizionata da presupposti falsi e irreali, è svuotata di ogni reale auto-determinazione.
La musica del diavolo
L’unico antidoto al male è quindi una ricerca di verità. Noi camminiamo in una oscurità popolata di fantasmi e di illusioni notturne, ma questa tenebra è rotta talvolta dai bagliori improvvisi di un’intuizione. Come quando, nella notte, un lampo rischiara brevemente il paesaggio, per un attimo ci rivela case, strade, alberi, montagne. In quei momenti cerco di comprendere, di vedere, di raccogliere i fili sparsi della vita. Perciò non posso fare del male un problema scientifico, metodicamente analizzabile, indicare chiare soluzioni. Il Male rimane per me un tragico mistero, una trama di apparenze fugaci.
Ricorda talvolta una dissonanza musicale, una tensione che, come certe interminabili modulazioni wagneriane, tende infine a risolvere in una distensione pacificante. Altre volte è un incomprensibile, minaccioso, cupo rumore di fondo. Ma questo non scuote la mia fede nella fondamentale armonia del creato, neanche quando dalle corde della vita traggo solo note discordi e amare. Vivo così, sospeso tra la veglia e il sonno, tendendo il mio cuore all’ascolto, cercando di capire se la musica viene da Dio o se è il diavolo che suona il suo violino.
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