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2 Febbraio 2025
Medioevo

Il Medioevo e l’Eterno Femminino (I) – Stefano Manza

Se l’antichità classica è il Paradiso, e la modernità è l’Inferno, allora il Medioevo è un Purgatorio rovesciato. Indubbiamente, una visione fatalistica ed eroica della storia non può che condurre a questa conclusione: eppure, essendo che il male, in larga misura, è solo nella mente dell’uomo, ne viene che la vita è un Inferno solo se si sceglie di renderla tale. E dire, come molti estimatori dell’illuminismo, che il Medioevo sia stato proprio il momento di tale scelta infausta è, “se ben si guarda con la mente sana”, un errore madornale. Noi possiamo scegliere di guardare al Medioevo come all’apogeo di una cultura forestiera, intollerante, oscurantista, spiritualmente e moralmente sifilitica (il cristianesimo); o possiamo scegliere, piuttosto, di intravedere cosa sopravvisse, in quel tempo, a tale cultura. Perché ciò che scampò alla distruzione è ancora presente in noi, e anela, come allora, a esplicitarsi.

Voglio essere chiaro: se vediamo il Medioevo dalla prospettiva dei conquistatori, in esso il femminile (e anche la donna) è pressoché irrilevante. Ma se osserviamo la stessa epoca a partire da quei valori sempiterni che i conquistatori non sono riusciti a estirpare, la donna medievale ci apparirà, al contrario, come lo scrigno di essi. Nelle “streghe” medievali resiste lo spirito e la voce appassionata delle Sibille, delle Pitonesse, e delle eroine pagane; di Ipazia e di Tomiri, di Budicca e di Thusnelda, e di mille altre. Non è facile estirpare una pianta che ha radici più profonde di quanto l’occhio non dia a vedere. Specie l’occhio del fideista, che è incrostato.

Un esempio di quanto dico sono la poesia trobadorica e i poemi del ciclo arturiano. In entrambi i casi, si tratta di fenomeni di immensa portata generatisi tutti in area celtica; presso quei Celti che più e meglio di tutti gli altri popoli europei hanno mantenuto intatta e vivida la simbologia dell’Eterno Femminino. E, parallelamente, nelle ricche corti di Champagne sorse in quel tempo la dottrina amorosa di Andrea Cappellano, che tributa alla donna gli stessi onori dovuti al signore feudale.

Nella mitologia gentile, è sempre il maschio a essere mutilato dal contatto col divino femmineo. Attis viene castrato, Anchise diventa zoppo, Atteone viene smembrato, Tiresia viene accecato. Si tratta di una sofferenza che è naturale sbocco del contatto (lecito o meno) con la sacralità femminile. Parimenti, stando a Jean Markale, la pensavano i trovatori: Dio viene smembrato e ucciso per praticare il fin’amor nei confronti della Domina/umanità; così fornendo al poeta provenzale il modello sacrale, mitico e quasi cosmico del suo senso di smembramento davanti a un qualcosa della donna di cui la donna è solo l’involucro. Tutto questo converge poi anche con l’esplosione della devozione mariana in Europa.  Per gli gnostici e i loro epigoni medievali, il Cristo è figlio di Sofia, la Sapienza che ha emanato tutta la Trinità; essa è perciò la vera essenza di Maria. Maria è dunque il Paraclito, per gli gnostici. E finanche tra i ranghi della fede “ortodossa” c’è Paolo che chiama “madre di tutti noi” la Gerusalemme Celeste, mostrandosi anch’egli inconsciamente bramoso di ritrovare un principio femminino nell’arida patrilinearità del cristianesimo. E, c’è da osservare, il concilio che riconobbe Maria come “madre di Dio”, theotokos, fu istituito proprio a Efeso, ove giungevano devoti da tutto l’ecumene elleno-romano per venerare la Grande Madre mediterranea, Artemide…

Segue…

 

Stefano Manza

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