L’altra sera mi sono attardato a vedere un film in televisione, un film francese di modesto contenuto e in salsa agrodolce, dove tema centrale è la ricerca di chi possa essere considerato un amico, quando s’è ormai maturi, inseriti nelle professioni, con una ragnatela di conoscenze, anzi la domanda specifica è chi possa essere definito il nostro ‘migliore amico’. Ho fatto così compagnia a Cristiano a cui, al contrario, è piaciuto molto e, sospetto, s’è anche un po’ commosso. Famiglia e amicizia sono i cardini su cui poggia gran parte della sua sensibilità. Difatti sono un paio di giorni che mi ripete la stessa domanda e a cui non trovo forse o non posso dare risposta alcuna. E, allora, butto qui delle osservazioni da cui scaturirà qualcosa, o magari nulla, probabile il solito ‘pezzo’ per Ereticamente – che non vada confuso una sorta di lettino da psichiatra e i lettori partecipi ad una seduta di gruppo. Troppi film americani di alcoolisti o genitori in crisi a ingenerare equivoci. No. Qui ci basterebbe citare il buon Aristotele, ad esempio, ‘unus amicorum animus’. Insomma ne faremmo di strada se volessimo ripercorrere idee concetti figure letterarie (Achille sdegnoso nella tenda e Patroclo a farsi ammazzare sotto le mura di Troia; Eurialo e Niso, i giovanetti caduti in battaglia, fra le tante reminiscenze da liceo tra poemi greci e l’Eneide virgiliana).
Virgilio, proprio descrivendo le vicende dei due eroi troiani in terra italica, parla del loro rapporto, di quel legame ove o si vive fianco a fianco o ci si sacrifica l’uno per l’altro, e lo chiama ‘amore’… Nel IX libro, usciti di notte, essi penetrano in campo nemico, uccidono diversi avversari colti nel sonno, fuggono ma, raggiunti, l’uno muore accanto all’altro, il corpo riverso l’uno su l’altro. Del resto l’ira di Achille si rinnova in armi al momento che Patroclo è caduto in combattimento – e nessuno si meraviglia si scandalizza si turba se l’eroe acheo piange la morte dell’amico. Amicizia fraterna belle forme erotismo si intrecciano (sarà nel Simposio che Platone, descrivendo l’attrazione di Alcibiade verso Socrate, a spostare i termini di una estetica ancora legata al corpo alla bellezza ideale dell’anima. E viene il sospetto – qui, però, è gratuito pettegolezzo – che, essendo il suo Maestro ritenuto un vecchio satiro, un sileno, per la bruttezza dell’aspetto e non soltanto per il sapere, solo di una bellezza ‘interiore’ potesse fare riferimento…).
E’ quel processo di lacerazione tra il finito della carne delle ossa del sangue e lo spirito che anela a ritrovarsi là dove esso può coabitare, in simiglianza, con le idee e vere e giuste e belle, mentre l’aristocratica ‘kalos-kai-agathìa’, così cara ad Adriano Romualdi (il ‘suo’ Platone è critico ma, in fondo, invidioso in terra attica di Sparta e virile e austera. Noi, al contrario, ci sentiamo prossimi a Nietzsche e ad Heidegger fautori del nulla, delle opinioni ove anneghiamo ogni principio di verità), scricchiola e vacilla e crolla sotto i colpi subdoli e nefasti di quelle componenti giudaiche della nuova religione (il corpo del Cristo si necessita per conoscere la sofferenza della flagellazione e la morte per ignominia sulla croce e non per donare, qui ed ora, la gioia d’essere ‘in piedi fra le rovine’, comunque e nonostante tutto…).
Virgilio… Dispersa l’urna che ne conteneva i resti a Posillipo, in età medievale, ci rimane però l’epitaffio che recita: ‘Mantua me genuit, Calabri rapuere, tenet nunc Parthenope; cecini pascua rura duces’. (Era nato nei pressi di Mantova il 15 ottobre del 70 a.c. e morto a Brindisi, al ritorno da un viaggio in Grecia, si dice per un colpo di sole, il 21 settembre del 19 a.c.). Ringrazio l’amica Barbara Spadini di avermi portato nella piazza Virgiliana dove s’erge il monumento al poeta – meritevole del ricordo ma troppo ‘monumentale’…
Ed ecco che, andando dall’editore, mi mostra e mi vende Presenza di Virgilio di Robert Brasillach, uscito in questi giorni a cura delle edizioni all’insegna del Veltro – scritto all’età di vent’anni quale saggio richiesto nell’anno del Diploma all’Ecole Normale. ‘Il tentativo di far leggere questa vita, finchè è possibile, come una vita dei nostri tempi, è quello, bisogna confessarlo, che all’autore sta più a cuore. Il colore locale, o piuttosto il colore temporale, è uno straccio di cui si sono disinteressati autori più grandi. L’uomo cambia poco, e le sue preoccupazioni, anche letterarie, ricompaiono simili dopo alcuni anni’. Ciò spiega il titolo e, non è casuale, che qualcuno vi ha visto una sorta di specchio ove Brasillach si ritrova e si descrive.
Ora, s’è detto ripetutamente, l’amicizia fa parte della visione umana e letteraria di Brasillach, di più, ne I sette colori, nella parte che ha per titolo Riflessioni, egli si dedica ad indicare i trent’anni quale momento, rito di passaggio tra la giovinezza e l’età matura. E, nella prima, colloca l’amicizia, ad esempio quando scrive come ‘a trent’anni si può ancora accorgersi di avere eccellenti camerati; non più amici. I veri amici sono quelli dell’adolescenza, più raramente quelli della fanciullezza. A trent’anni, si può ancora scoprire in sé vere e grandi ammirazioni, ma non ci si infiamma più per un poeta sconosciuto e talvolta mediocre. Né amici, né poeti; è su questa prima solitudine che deve essere edificata la felicità del trentesimo anno’. (E io ho fatto già due volte e mezzo o quasi il giro di boa di questa scadenza!). Ancora – e più radicalmente – ‘A trent’anni non esiste più nemmeno la speranza dell’illusione’…
Cerco nello scaffale ove ho collocato gli scrittori francesi il Gilles di Pierre Drieu la Rochelle. Mi ricordo di una considerazione di questo aristocratico – e, al contempo, ‘socialista fascista’ –, insofferente sprezzante nichilista in cerca di dare al Nulla la forma dell’Essere, tentato dalla morte e cercata liberamente fino al suo esito definitivo il 15 marzo del ’45. Il romanzo sta volgendo a conclusione, il protagonista ha scelto alfine di darsi una collocazione in quella terra di Spagna dilaniata dalla guerra civile o, forse, il luogo del conflitto è il pretesto per andare incontro alla ‘bella morte’. Gilles si trova con altri camerati europei che tentano di attraversare le linee repubblicane per raggiungere le truppe nazionaliste, unirsi a loro. ‘L’ultima gioia della sua vita sarebbe come era stata la prima, la compagnia di uomini interamente raccolti su una parte di sé medesimi, protesi e coscienti al tempo stesso. Un tempo, al fronte, due o tre uomini, incontrati qua e là fra la truppa, gli avevano dato la medesima soddisfazione. Non necessariamente degli intellettuali. Assapori in comune il sacrificio a qualche cosa che, nella misura in cui il rischio si prolunga, si avvera sempre più intimamente nel cuore di ciascuno, ed ha insieme un senso per tutti. E’ il miracolo di potersi finalmente amare negli altri e di poter amare gli altri in sé. Miracolo tanto fragile e tanto affascinante che ben presto solo la morte sembra poterne suggellare la certezza’ (Il rischio e la morte, certo, ma sono queste le fondamenta dell’amicizia? E’, dunque, essa preda dell’attimo mutevole ed effimero e della circostanza imposta dal destino o dal caso? Tutto qui? Fragile dono…).
Illusione, dunque? Inganno? ‘Mi piace la solitudine del cavaliere… ‘, così Jean Cau riflettendo davanti a Il cavaliere la morte il diavolo, la celebre xilografia di Albrecht Duerer, forse volendo porre un sigillo alla fine del Medio Evo in nome dei tempi nuovi e prossimi. Una sorta di ironia verso quell’uomo a cavallo dal tratto rude e quasi inespressivo, solitaria figura nel bosco, estraneo alla luce proveniente dalla rinata città. Anche il Cervantes volle ironizzare sui poemi epici e cavallereschi descrivendo un nobile spiantato malmesso folle, il Don Chisciotte, e ne ha elevato l’immagine a sogno nobile ed alto… E, ancora Jean Cau, ‘…ho scoperto che tu non cammini verso altri uomini, ma verso il Nulla, il Niente’. Quel cavaliere, ciascuno di noi? Nella età dei sogni e degli ideali, delle premesse e delle promesse, degli amori ove aleggia la parola ‘sempre’ anche se si tratta di un flirt nato e dissolto nella notte e sulla spiaggia deserta, beh, la solitudine si nasconde nel gioco e nel branco per poi manifestarsi farsi udire imporsi (i trent’anni di Brasillach?) ed è simile a Il richiamo della foresta’, non ci si può sottrarre… E, poi, mi rivolgo a Nietzsche, alla sua solitudine folle e disperata; penso al sistema nervoso fragilissimo di Fedor Michailovic Dostoevkij – entrambi, estraniati dal quotidiano, hanno edificato monumenti sull’esistenza e la condizione umana… Mi consolo (in effetti non ne ho bisogno) delle notti in cui vagulo per la stanza senza altro comunicare che in muto dialogo con me stesso.
E ancora del ‘migliore amico’ non abbiamo detto, ma neppure abbiamo data una definizione dell’amicizia se non vogliamo limitarci a quanto indicato da Brasillach, che merita certo tutta la nostra attenzione… Non ho risposto a Cristiano e non credo che vi sia risposta alcuna. La notte scorsa mi sono affacciato al balcone, mi è tornato un trafiletto di cronaca letto durante gli anni di detenzione – un ragazzo francese di diciassette anni, prima di suicidarsi, aveva lasciato su un foglietto ‘nascere per dovere, vivere per obbligo, morire per caso’. Nella cella 77 dei condannati a morte, congedandosi dal suo avvocato, Jacques Isorni, che avrebbe voluto trascorrere con lui l’ultima notte, Brasillach medita ad alta voce: ‘Restare soli? E’ bene che cominci ad abituarmi…’.
‘Sotto le mura di Nancy, il Temerario conobbe il suo isolamento e l’abbandono di tutti… Il signore di Chimai gli confessò le defezioni, i tradimenti, lo scarso numero dei suoi. Il Temerario lo ascoltò armato, sdraiato sul letto. Il signor di Chimai non ne cavò altre parole che queste – Andatevene tutti! Se bisogna, combatterò io solo –‘. Eppure, negli ultimi suoi versi, I morti di febbraio, Brasillach ricorda quei camerati sconosciuti che, il 6 febbraio del ’34, avevano versato il loro sangue sull’asfalto bagnato di Parigi e che gli avevano imposto, un dovere morale ineludibile, di correre incontro al suo destino… Solo certo, legato al palo dei condannati a morte, ma non solo in quell’angolo di vasto cielo dei poeti degli eroi dei martiri. Il fratello più caro, il mio migliore amico, la sua/mia solitudine…