Giuseppe Muscolino è un importante studioso di filosofie e magie antiche, suo è il primo e unico manuale disponibile in lingua italiana sulla teurgia , una pratica che permetteva di “creare gli dèi” ‒ se stiamo all’etimologia originaria. In questo nuovo libro prosegue la ricerca, focalizzando l’attenzione su un altro suo “cavallo di battaglia”, il filosofo neoplatonico Porfirio . Per presentare brevemente l’argomento, vorrei fare alcune riflessioni a margine di magia, misteri e filosofie del tempo in cui visse il grande filosofo neoplatonico. Come Socrate, il Buddha “sapeva di non sapere”, per cui viveva ogni momento nella consapevolezza di trovarsi in una condizione di costante ignoranza: entrambi non comunicavano nozioni, né guarivano i corpi, né insegnavano qualche arte o tecnica specifica; ma mettevano in grado i discepoli di intraprendere un percorso di conoscenza finalizzato a dare un senso complessivo all’esistenza. Qualcosa di inafferrabile alla logica discorsiva, così com’era inafferrabile una delle più famose tradizioni estatiche arcaiche, quella che rappresentava Dioniso nelle vesti di un «dio selvaggio» la cui vicenda mitica era rivissuta ritualmente nello sparagmos e nell’omofagia, lo smembramento della vittima che veniva subito divorata cruda. La cerimonia religiosa era concepita come rinnovamento della passione del dio e come materiale assimilazione di esso da parte del myste.La teurgia era già nei Magi ellenizzati, non faceva eccezione, anzi prendeva sul serio la soluzione platonica di separare la mente dalla corporeità. Con tecniche appropriate. Una katharsis che non doveva purificare il corpo, né doveva lavorare sul diaframma e le tecniche del respiro segnalate da Empedocle; ma a proposito dibatte il Fedone platonico, un arcaismo greco-iperboreo.
Il grande P. Hadot usava l’espressione stili di vita per rappresentare l’impegno totale che l’esperienza del filosofo richiedeva, dove l’esercizio teoretico non era mai fine a se stesso. Semplicemente si argomentava, si contemplava il cosmo e si agiva, vivendo di conseguenza nelle proprie comunità. Viceversa, quando si parla di pensiero realizzativo in Oriente si dice spesso che il termine moksha, non indica un raggiungimento di una verità di pensiero, piuttosto un mutamento radicale dell’individuo, cioè una diversa pratica di vita che trasformava ogni pensiero. Ma, questo capitava anche tra i teurghi, ogni via di liberazione implicava una rinuncia per fare qualcosa. Se si parla poi di estatismi, osserviamo la teurgia affine a certe uscite sciamaniche, psicanodie greche, attraverso le sfere planetarie, e ascensioni ebraiche ai tre o sette palazzi che avvicinavano al trono divino. La “parapsicologia nel mondo antico” di Dodds: erano viaggi postumi, ma mentali. E sfidavano la premessa di fondo che la via verso l’alto era preclusa all’umano, mentre poteva operare solo quella verso il basso delle teofanie. Se c’è una distinzione da fare tra il tipo teurgico, quello gnostico e quello ebraico, diciamo che la prima e l’ultima forma prevedono – ad un certo punto- il coinvolgimento del corpo, non la sua abrogazione. A un patto, quello di non rimanere umani e deificarsi in angeli come fa il mitico Enoch. Poi vengono i tipi misti come la liturgia di Mithra studiata dal Dieterich che Giancarlo Mantovani ha paragonato alle liturgie degli Oracoli caldaici e poi ancora le ascese verso l’alto dei fondatori del monoteismo. Solo che Mosè sale sul monte (collina) Sinai, mentre Paolo e Muhammad si spingono fino al terzo cielo, anche se Muhammad ha bisogno di appoggiarsi ad una scala. Perché prende in prestito quella di Giacobbe. Carisma e volo sono necessari per imporre da parte dei fondatori un nuovo messaggio, una nuova forma di religione.
Ora, Eliade ha insistito su alcune forme di convergenza tra vie yogiche e vie sciamaniche in base ad antiche fonti comuni. Ignorava la teurgia L’estasi non è l’enstasi. La disciplina del corpo che gli indù chiamano dhyana, i cinesi chan e i giapponesi zen è però fino ad un certo punto estranea dalle posture dei monaci esicasti che controllano il respiro, una gnosi “cardiaca” studiata da Marco Toti. L’uomo gnostico generato a partire dai “soffi” vocalici è una disciplina ermetica, che secondo Mario Bussagli poteva aver agito attivamente sul buddhismo mahayanico: leggiamo cose interessanti a riguardo nel Marsane di Nag Hammadi. La meditazione di tipo socratico-platonica che si trasmette fino alle Meditazioni cartesiane di Husserl non significa che non possa rintracciarsi nell’esperienza yoga del samsara dove occorre discernere ciò che permane da ciò che si estingue e va bruciato.
Il distacco dalle passioni è comparabile con certe forme di atarassia in cui si rinuncia al mondo senza negarlo, anzi senza fuggirlo. Gli yogin delle cinque scuole – come i teurghi – sono dei maestri di vita che non fanno solo ginnastica. Azzerando il mondo circostante, e tralasciando le donne yogiche di cui uno può essere innamorato, è grazie al distacco, che poi coinvolge lo stesso termine di samnyasa (ben noto agli storici del buddhismo), grazie ai mezzi per realizzare queste virtù, il jivanmukta, che uno può dirsi immortale alla Eliade; anche se la condizione fisica resta quella segnata dagli acciacchi di tutti i giorni.
Nelle palestre yoga, come forse nelle aule teurgiche della tarda antichità, non ci si domanda cosa sia la realtà, ma come si riesca a distaccarsene, senza peraltro negarla. Non dimentichiamo che i teurghi erano a modo loro sacerdoti di una “Chiesa”, anche se enteogena. Stavano nella realtà, per controllarla, senza farsi dominare dalle yogiche e pentadiche vritti, dalle distrazioni. Soprattutto, le tecniche dello yoga classico che Federico Squarcini dice che inibiscono le funzioni mentali (forse le sue), non vanno confuse con la rinuncia degli stiliti o dei monaci della tebaide – che praticavano l’apotagè e non mangiavano. Nemmeno con i dualisti gnostici. Gli yogin, come i teurghi, vogliono vivere nel mondo alla grande. Al centro dell’attenzione teatrale per le loro performance magiche.
Ancora, i livelli di attenzione nel buddhismo divengono i protagonisti degli esercizi più noti. I risultati sono di tipo sia logico che prassico, dovendo cogliere in ogni forma di realtà la qualità del vuoto e dell’impermanenza, cercando al tempo stesso di cancellare ogni rumore desiderante, altrimenti niente nibbana qui e ora. Non è una mistica assoluta tale da eliminare completamente il pensiero. Semmai un esercizio costante per vivere bene e morire. Altrettanto bene quando verrà il momento di scegliere la prossima trasmigrazione. Il punto per questi monaci è estinguere i desideri – e il mondo come costruzione dell’io proiettivo -, non vivere di estatismi visionari. Gli gnostikoi erano diversi ed erano estatici. Lontani allievi dell’idealismo gathico. Perché Zoroastro era estatico e possedeva il maga; è il pensiero del grande Gherardo Gnoli. Sulla stessa frequenza è l’ultimo Foucault. Non ci si può ridurre al solo approccio intellettuale escludente quello esperienziale. Questo il Muscolino lo sa bene. Gli sciamani sanno modulare molto bene l’ipo- e la iper-ventilazione. Le tecniche yoga sono un’altra cosa e quando ci si concentra sull’andamento del respiro lo si fa allenando la mente a sbriciolare la superficie illusoria che produce il cosmo. Qualcosa di simile conoscono anche i teurghi: anapanasati “consapevolezza del respiro” in pali sta al greco neotestamentario di ana-gignoskein. Le nenie auto-ipnotiche delle trance finlandesi non hanno invece nulla a che fare con la meditazione dei monaci buddhici. Questo tipo di attenzione orientale, orientata prima di tutto al corpo, è pressoché assente nelle tradizioni occidentali, ma non tra i presocratici e soprattutto tra i pitagorici e i teurghi.
Ezio Albrile