L’estensore di queste note è da pochi mesi in pensione, dopo aver superato le trappole della legge Fornero. Ha quindi molto tempo per riflettere, leggere, studiare, visitare mostre e librerie. Tra i minuti piaceri della nuova vita ci sono lunghe passeggiate in città, tra colline e vie affollate dove son merci ed uomini il detrito di un gran porto di mare (U. Saba). Durante una di queste camminate, ha scoperto il Natale di una nuova religione.
Nel solo centro, entro un chilometro lineare, pochi ettari, sono attivi tre mercatini” di Natale”. Molti altri ce ne sono nei vari quartieri di una città composita, allungata per trenta chilometri. Nel più grande di essi, ospitato in un’apposita struttura coperta ricavata in una piazza bellissima e misconosciuta dei caruggi, oltre Porta Soprana e la casa di Colombo, ci sono anche le caprette ed un asinello, per divertire i bambini e vendere più facilmente qualche residuo prodotto di un entroterra magnifico ma semi abbandonato. Non manca il banco degli alpini, un tocco di patriottismo, il vin brulé, i canti che accompagnavano il bambino di ieri e quel magico cappello con la penna nera. Non pochi commercianti sono vestiti con costumi d’epoca, schegge di un passato indistinto, presumiamo indifferente a chi osserva, e sono state assoldate alcune comparse abbigliate alla foggia ligure antica, un poco irreali, fuori posto, come lo è tutto il passato nell’epoca dell’adorazione del Nuovo, del Bizzarro, dell’Originale, del finto Esclusivo.
Organizzano anche piccoli spettacolini, per lo svago di grandi e piccini, a gloria della nuova religione, quella della Merce, dell’Acquisto, dell’Immediato. Somiglia ad un mediocre esercizio di situazionismo vintage, memori forse del fatto che quel pessimo movimento subculturale nacque proprio in Liguria, nella remota Valle Arroscia del vino Pigato e dell’aglio di Vessalico. Ogni operazione è orientata al nostro benessere immediato, a stimolare desideri da realizzare ipso facto, a produrre brama, l’acquisto di qualcosa, qualunque cosa, e riprodurre il meccanismo della coazione a ripetere. L’unico reale è l’istante, l’atto magico di appagare un desiderio indotto. Visto e piaciuto nello stato in cui si trova è una vecchia formula degli acquisti di prodotti usati, inventata a tutela del venditore.
La nuova religione è politeista, suoi demiurghi il Denaro ed il Credito (tra i banchetti spuntano tantissime POS, le macchinette per chi paga con le card), il suo tempio è il Mercato, che, in certi periodi dell’anno fa come Maometto, va cioè incontro alla montagna, il Consumatore Collettivo. C’è anche una nuova Eucaristia, ovvero l’atto del comprare dopo aver desiderato.
In coda ai mercatini, lo sfaccendato viandante visita le tante chiese che testimoniano la vecchia fede dei padri e la bellezza che in essere vollero trasfondere a gloria dell’Eterno. Lo scopo è vedere i presepi, ed è forse lì che si capisce che una nuova religione ha sostituito l’antica. Piccoli, sciatti, non di rado defilati in qualche angolo delle navate o delle cappelle laterali, spesso bui, tutti differenti l’uno dall’altro, nel senso che ciascuno descrive una Betlemme pop diversa ed improbabile, a suo gusto. Betlemme è il nome del presepe in diverse lingue ma potrebbe essere qualunque altra cosa, anche Babele. Gommoni a simboleggiare l’immigrazione, gli abiti più svariati e gli atteggiamenti più incongruenti nella rappresentazione della Sacra Famiglia, le più disparate iconografie per lo stesso Bambino, nessuna solennità. Un compitino per i figli dei parrocchiani guidati da catechisti frettolosi; eppure il presepe è sacra rappresentazione di un avvenimento che conduce all’Eterno. Ognuno può vederlo a modo proprio, ma l’evento è semplice, essenziale come una colonna dorica: un bimbo che nasce in una grotta, destinato a cambiare il mondo e, per chi crede, a salvarlo dentro la storia ma fuori dal Tempo.
Funziona assai meglio la religione dei mercatini, presepi a loro modo dell’unico, immenso Mercato in cui hanno trasformato il mondo. Qui si celebra l’attimo, si officia il trionfo dell’effimero, del momentaneo ma tangibile, là si banalizza l’Attesa, il Senso, l’Evento. Non c’è partita, vince il Natale nuovo, Gesù declina l’invito con un post su Facebook e un cinguettio su Twitter.
Probabilmente l’età che avanza ci fa velo, trasfigurando il passato, ma eravamo più a nostro agio nella vecchia religione. Natale, lo afferma la parola, significa nascita in tutte le lingue di ascendenza latina e in quelle slave. Ancora più forte è il senso religioso del termine nel mondo germanico ed anglosassone; sino al trionfo finale del multiculturalismo e del politicamente corretto, il Natale si chiama ancora in inglese Christmas, la messa di Cristo, e addirittura Weihnachten, notte santa, in tedesco. Peraltro, il riduzionismo americano di matrice commerciale ha abituato alla dizione X-Mas, il nome che proponiamo per la nuova religione. L’epifania della X: “ics” evoca l’indistinto, il vuoto che può essere colmato come ci pare: è un segno di libertà o liberazione, la messa di quel che vogliamo e acquistiamo sul mercato, in contanti, a rate, con carta di credito, rid bancario.
Il bambino di Betlemme da grande scacciò i mercanti dal Tempio. Oggi non potrebbe più farlo: tutti i templi, chiamati centri commerciali, sono proprietà dei mercanti. Ognuno di essi, all’arrivo del disturbatore nazzareno chiamerebbe le guardie, anzi la Security, che accompagnerebbe all’uscita con le spicce il seccatore tra gli applausi convinti dei presenti.
Nel Natale della fede tramontata non c’erano mercatini e non vigeva la solidarietà pelosa ed obbligatoria del presente. Noi avevamo il Natale Genovese, e significava mille luoghi in cui ciascuno portava spontaneamente qualcosa per i poveri. Di solito non era denaro, ma era bello vedere, accanto all’albero ed al presepe non ancora proscritto dalle scuole, i doni del buon senso antico, coperte, lana, pasta, qualche dolce fatto in casa, abiti, persino fasce per i neonati, poiché all’epoca, nascevano molti bambini come il figlio della giovane Maria e del falegname di Nazareth. Erano fatti senza parole, figli di quelle “idee senza parole” che Spengler poneva a fondamento delle civiltà.
La messa della vigilia (Nochebuena, notte buona la chiama poeticamente l’idioma spagnolo) era una lunga attesa nella chiesa fredda, ma a mezzanotte tutti sentivano che era accaduto qualcosa, che era Natale nel senso letterale della parola. La liturgia, nella parrocchia di chi scrive, era officiata da un monsignore vecchissimo che ogni anno si commuoveva e ripeteva la sua speranza di andare in paradiso a “tenere il posto” (diceva proprio così) per noi di San Martino.
Magari era l’infanzia dell’umanità, come disse il severo e solitario Kant, da cui ci trasse l’Illuminismo con la sua ragione. Siamo transitati dalle tenebre all’Illuminazione, più che ai Lumi, dato che il mercato non ama il buio per esporre i suoi prodotti, oggetto e soggetto del culto. Non sbagliò Marx, scoprendo il feticismo della merce. L’umanità non era adulta, dicono, prima dell’avvento della nuova religione, ma è proprio ora che siamo diventati eterni bambini alle prese con giocattoli che ci allontanano dalla maturità, pueri ludentes al posto del ben più serio Homo Ludens di Johann Huizinga.
La mia generazione ha perso. Non è solo la conclusione di Giorgio Gaber per la sua, ma è il pensiero dell’umile scrivano riferito a se stesso. Una volta Marcello Veneziani ricordò la singolare condizione di coloro che, nati negli anni cinquanta, schivarono la povertà post bellica ma fecero in tempo a vedere il mondo com’era e come era stato per tantissimo tempo prima della rivoluzione del benessere, dell’industria, del 68, della secolarizzazione. Un’Italia post contadina e dignitosa, con gli abiti rammendati dalle abili mani delle donne di tutte le famiglie, che si ritrovava nel Natale. Valeva e vigeva il detto “Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi.” Adesso, vai a sapere chi sono i “nostri”, nelle famiglie divise e nell’egoismo di massa.
Nel corso di queste nostre giornate peripatetiche, un’altra cosa colpisce, gli avvisi delle agenzie di viaggi che offrono ciascuna cinque, sei diverse gite nei mercatini di Natale di mezza Europa. Tra fiammanti casette di legno prodotte alla bisogna, fiori di plastica, finti zampognari, figuranti sotto occupati vestiti da Babbo Natale o da contadini del territorio, prodotti più o meno tipici, ciarpame Made in China, comprate, gente, comprate, il rito dura dall’alba sino allo spegnimento delle luminarie gentilmente fornite dall’assessore al turismo, la messa non è finita, tutti possono partecipare. Non serve battesimo, Il Mercato ve ne renderà merito, crescerà il PIL e una felicità effimera si impadronirà di voi. Svanito l’effetto, è consigliato ripetere l’operazione, come per quei cioccolatini al liquore che talvolta regalavano il bis. Tenta di nuovo, invitava la scritta sulla carta stagnola, ma erano tempi artigianali, il marketing non era ancora una scienza esatta.
La cronaca ci riferisce, tra le altre disgrazie, di una madre di 39 anni, una donna bella e matura della sazia Padania, probabilmente desiderosa di una vita nel mondo luccicante della moda, che uccide i suoi due figli. La nuova religione non ha martiri, ma vittime. Silenzio e rispetto per le tragedie, ma facciamo fatica ad immaginare il futuro di un mondo in cui genitori come la poveretta chiamano i loro piccoli Kim e Zeus. Del resto, perché non imitare nella bizzarria, nella novità a tutti i costi, i ricchi e potenti, i cui rampolli sono Nathan Falco (Briatore) ed Oceano (Agnelli)? Culto dell’attimo fuggente, dell’eccentricità, la personalità iscritta nella stravaganza a partire dai nomi, all’autocreazione, attraverso tatuaggi spesso ridicoli, divinizzazione del corpo che non deve invecchiare, enfatizzazione dell’apparenza, benessere confuso con wellness. Mercatino, scampolo, che in questo periodo dell’anno celebra il suo particolare Avvento.
Non resterà molto da ricordare, né è previsto: domani è destinato a cancellare ieri, il nuovo l’antico, la memoria deve sfumare ed essere sostituita dal desiderio. La mia generazione ha perso, ma è stata più fortunata. Noi della trapassata religione abbiamo nel cuore il sapore, il suono e persino l’odore del Natale della vecchia fede. La sua eccezionalità, il fatto che veniva una sola volta l’anno era l’antidoto alla noia, il contrario dei riti commerciali odierni, stanchi, obbligati a produrre scariche sempre più forti, dosi ogni volta più massicce del rito della merce.
Proust scoprì la memoria, il suo tempo perduto, nel profumo delle madeleines appena sfornate, chi scrive ha nelle narici l’odore del pentolino con il latte e il pane raffermo da unire all’impasto dei ravioli di borragine, e la colonna sonora è la musica dolce e solenne di Stille Nacht, che sembra scaturire da un altrove lontano, Astro del Ciel nel coro dei bambini, ben diverso dal baccano dei campanacci di Jingle Bell. Tutto era attesa: della nascita, ma naturalmente anche dei regali da scoprire sotto il presepe. Ai nostri tempi li portava Gesù Bambino, poi sostituito dal più laico Babbo Natale, ma chi scrive ricorda il dolore della scoperta, rivelata da una dottoressa durante una visita medica, che non era Gesù Bambino quello che deponeva i doni vicino ai simboli del Natale.
Una delle caratteristiche del nostro presente è l’assenza di stupore unita al non saper aspettare: tutto e subito, da consumare, esaurire in fretta e poi, via, verso nuovi desideri da trasformare in bagliori di gioia e durevole insoddisfazione. Natale, Natale, più profitto al capitale. Lo leggemmo all’età di dieci, undici anni, scritto con il gesso sul muro di un palazzo. Ci sentimmo indignati, pareva una profanazione, una menzogna maligna. Comunque la pensasse l’autore della scritta su quella nascita di duemila anni fa, aveva ragione. Negli ultimi anni, il Natale della nuova religione si fa precedere da un nuovo rito, una specie di Pentecoste del consumo. Si chiama Black Friday, venerdì nero, ma va pronunciato all’inglese, che è un po’ come il latino di ieri, la lingua sacra dei nuovi credenti. Non evoca crolli di Borsa e neppure tragedie o terrorismo, è la discesa del nuovo Spirito Santo sotto forma di sconti, la vendita a prezzi stracciati di tutto ciò che resta in magazzino. Bisogna fare posto ai prodotti tipici di Natale, guadagnando contemporaneamente con l’invenduto.
Dicono che il successo della nuova iniziativa, propagatasi come un incendio dalla torre di guardia statunitense, sia dovuto soprattutto all’iniziativa di Amazon, il gigante che vende tutto. Jeff Bezos, il maggiore azionista, avrebbe guadagnato oltre un miliardo di dollari in un giorno, liberandosi dei fondi di magazzino fino a raggiungere il ragguardevole patrimonio di cento miliardi di dollari (e vai, congratulazioni, vecchia canaglia!). Nel corso del Black Friday appena trascorso, abbiamo appreso per fatto personale che costa assai più un paio di occhiali da vista che un televisore a 32 pollici: trionfo del prodotto-feticcio dello spettacolo, ed apologia del superfluo, programmato per durare poco.
La nuova religione dimostra con i fatti l’esistenza dei miracoli: non moltiplica pani e pesci, ma profitti, per la felicità degli azionisti unita a quella dei consumatori compratori indebitati. Hanno vinto, non c’è che dire: non ci sono più peccati, se non quello di non acquistare, il pentimento è non approfittare delle offerte speciali, il Paradiso è a portata di mano (o di portafogli), non si ascoltano prediche noiose, solo messaggi pubblicitari, consigli per gli acquisti, inviti al “conveniente” credito al consumo. L’Inferno è abolito, e, conforme alla splendida canzone di Lucio Dalla “sarà tre volte Natale e festa tutto l’anno, ogni Cristo scenderà dalla croce, anche gli uccelli faranno ritorno”.
Nel 2017, il Natale coincide in Italia con la fine della legislatura parlamentare. L’ultima legge sarà probabilmente quella pudicamente denominata biotestamento o fine vita. Che belle parole, per designare la morte senza nominarla e legalizzare il diritto di uccidersi e uccidere, ma con tutte le garanzie, i timbri di legge, i guanti degli esperti, le siringhe monouso, la disinfettata pulizia delle camere dei dottor Morte. I malati consumano troppo, è un paradosso e una contraddizione dei tempi nuovi. E’, ripetono con compunzione e voce di circostanza, una legge di civiltà, un’altra, esattamente come quella che permette a persone dello stesso sesso – anzi genere- di sposarsi e adottare figli, magari prenotati con anticipo e pagati con bonifico su conto estero agli imprenditori del ramo, che affittano l’utero di donne povere e ricevono una “giusta” percentuale, sulla quale, sia chiaro, pagano regolarmente le imposte. Il Parlamento si congeda dettando legge sulla morte. Macabro, ma non casuale canto del cigno. Silenzio imbarazzato dei rappresentanti a provvigione di chi ci aveva fatto credere che la vita è di Dio.
Sui muri della città un’accattivante pubblicità mostra una coppia di anziani sorridenti e soddisfatti, testimonial di una campagna per il pagamento anticipato e rateale del loro funerale. Non vogliamo lasciare problemi a chi resta, recita più o meno la didascalia. Consuma e crepa, anzi sparisci senza fare storie, spontaneamente e con la faccia contenta, non costringere i superstiti (forse è il comune indebitato, se non ci sono figli …) a pagare per te. Una nuova, giudiziosa, linda, civilissima religione, insieme omicida e suicida.
E’ triste dover ricorrere agli scritti di Pier Paolo Pasolini, tutt’altro che un modello di vita, ma di fronte al nuovo che trionfa, agli idoli che si impongono sul vecchio Dio, non si può dimenticare la lancinante tristezza del poeta figlio del Friuli contadino per la scomparsa delle lucciole, una perdita che simboleggia l’allontanamento dalla natura, l’abbandono del reale e del perenne. Gridava negli Scritti corsari: “L’Italia di oggi è distrutta esattamente come l’Italia del 1945. Anzi, certamente la distruzione è ancora più grave, perché non ci troviamo tra macerie, pur strazianti, di case e monumenti, ma tra macerie di valori: valori umanistici e, quel che è peggio, popolari”. Implorava di “non temere la sacralità e i sentimenti, di cui il laicismo consumistico ha privato gli uomini trasformandoli in bruti e stupidi automi adoratori di feticci”.
Parlava a metà degli anni 70, il processo era agli inizi, ma Pasolini era un poeta, la cui superiore sensibilità vedeva in prospettiva. Uno spirito a suo modo religioso, pur incapace di credere e schiavo di pulsioni abiette, uno che scrisse in friulano, la lingua materna del popolo di ieri, dei vinti della modernizzazione, l’ultima sua lirica, dedicata – da lui considerato comunista – ad un giovane fascista, a cui chiede più volte difendi, conserva, prega. E in un altro verso esorta: “dì di non essere borghese, ma un santo o un soldato: un santo senza ignoranza, o un soldato senza violenza.” In un mondo dove si muore di indigestione o di desiderio insoddisfatto, sembra un richiamo alla più santa e necessaria delle apostasie, quella che ci deve allontanare con orrore dalla nuova religione: l’impero delle cose, il culto dell’attimo, del presente, la pretesa della felicità con il cartellino del prezzo, il desiderio sempre insoddisfatto, mordi e fuggi, un carpe diem minimo, piccolo borghese.
Nella sua saggezza, la religione vecchia richiamava al valore di ciò che è stabile, perenne. Indicava senza sconti il bene ed il male, invitava ad andare oltre, essere al di là di avere, a partire da quella nascita al tempo della stella cometa. Scriveva Moeller Van den Bruck che il conservatore ha dalla sua parte l’eterno. Quindi, è destinato a vincere, a ribaltare la situazione, smascherare i falsi idoli al “tempo degli dei falsi e bugiardi”. Quel tempo è tornato, ma è destinato alla sconfitta per sterilità. Nell’Esilio, il libro di Isaia, è celebre il brano della scolta idumea: “Una voce chiama da Seir in Edom. Sentinella! Quanto durerà ancora la notte? E la sentinella rispose: verrà il mattino, ma è ancora notte.” Ancora notte, ma il giorno verrà. Forse dalla stella di Betlemme, giacché solo l’eterno sconfigge il muro del tempo.
ROBERTO PECCHIOLI
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