11 Ottobre 2024
Eduard Bernstein Marxismo Socialismo Nazionale

Il nemico

Di Flores Tovo

Il filosofo e politico Eduard  Bernstein  (1850 – 1932), pur essendo stato collaboratore di Marx ed esecutore testamentario di Engels, nel 1899 pubblicherà  un saggio dal titolo “I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia”.  In tale testo, che in realtà era una raccolta di articoli scritti sin dal 1896, Bernstein criticherà a fondo tutta la concezione marxiana sotto il profilo filosofico, economico e sociologico, cercando di dimostrare che il pensiero di Marx era del tutto privo di fondamento, e che quindi tutto il suo impianto andava profondamente rivisto. Pur rimanendo socialista, Bernstein proponeva una totale revisione del marxismo, proponendo una pratica riformista al posto di una rivoluzionaria. Il socialismo non era più l’inevitabile e necessario sbocco della storia, ma un ideale da perseguire: un postulato etico di tipo kantiano, e cioè un fine trascendente irraggiungibile (giustizia, uguaglianza, eliminazione dello sfruttamento, ecc.), a causa dei limiti empirici propri della natura umana.
Ma quali erano le critiche principali che Bernstein muoveva a Marx? In primo luogo la progressiva concentrazione delle imprese industriali non aveva condotto alla concentrazione conseguente del capitale, ma anzi essa aveva aumentato il numero dei possidenti grazie al diffondersi delle Società per azioni; in secondo luogo la massa dei proletari non si era immiserita, ma migliorava costantemente il suo tenore di vita; per terzo non si era pervenuti ad una semplificazione antagonistica  fra due classi (proletari e borghesi), ma stava di fatto formandosi all’interno della società un nuovo ceto medio, composto da tecnici, operai specializzati, insegnanti, impiegati, piccoli produttori, che aggiungendosi al tradizionale ceto medio degli artigiani e dei bottegai e dei contadini proprietari, diventava sempre più numeroso. Cosicchè più che revisionare il marxismo Bernstein ne metteva in discussione i principi cardinali, quali la lotta di classe, l’idea di rivoluzione, lo stesso materialismo storico, e soprattutto  rifiutava la dialettica di origine hegeliana, di cui Marx si dichiarava discepolo.
E, in effetti, le sue idee, pur condannate nel Congresso socialdemocratico  di Dresda nel 1903, si diffusero sempre più in ambito internazionale, al punto che la maggioranza dei partiti socialisti europei aderirono al riformismo con il conseguente abbandono graduale del marxismo. Lo stesso Karl Kautsky, suo coetaneo e principale teorico della Socialdemocrazia tedesca, e che era stato il convinto fautore dell’evoluzionismo deterministico (la rivoluzione come necessità) di stampo positivistico, si convertì più tardi al revisionismo, tanto che Lenin scrisse su di lui un libro, definendolo un rinnegato. La conferma storica di tale abbandono del marxismo fu la partecipazione entusiastica dei socialisti tedeschi e francesi alla prima guerra mondiale in cui si trovarono contro come nemici mortali. Il riformismo al servizio delle borghesie capitalistiche e nazionalistiche.
Come però succede talvolta nel percorso del divenire storico, accadde l’imprevedibile: la rivoluzione bolscevica in Russia. Il comunismo, che doveva affermarsi nelle società a capitalismo maturo, si realizzò, dopo una sanguinosissima guerra civile (1918-20) con 12 milioni di morti, in un paese arretrato in cui quasi il 90% della popolazione era contadina. L’anarco-comunista Bakunin, che aveva sognato una rivoluzione condotta dai contadini che aborrivano il lavoro pressoché forzato nelle industrie, trovò confermate le sue idee: solo che a guidare e gestire la rivoluzione non erano gli anarchici, bensì i comunisti. Si attuava una delle tante incursioni della libera e spontanea volontà umana che scombussolava tutti i piani concepiti dalle menti che si presumono razionali. Il bolscevismo sovietico era in realtà un riproposizione in chiave moderna del tradizionale  collettivismo burocratico tipico del mondo orientale: si vedano a tal proposito le opere di K.A. Wittfogel, Il dispotismo orientale, ed. Vallecchi e di U. Melotti, Il collettivismo burocratico, ed. Saggiatore. Le stesse figure di  Lenin e Stalin non possono essere comprese in base a categorie concettuali politiche proprie della cultura europea. Così pure l’estrema, quasi metafisica, radicalità nel distruggere la proprietà privata ed ogni forma di dissenso la si può trovare solo nella Cina imperiale sotto alcune dinastie (in particolare sotto i Qin e i Ming dopo l’imperatore  Yong-le). Nella Cina del  Novecento lo stesso Mao è solo un continuatore di tali dinastie. Tuttavia il bolscevismo divenne il sinonimo di comunismo: per la prima volta un gruppo dirigente fanatico e carismatico riuscì a prendere il potere in nome del proletariato (che in Russia era di 4 milioni su 150 milioni di abitanti) e dei contadini poveri. Il contagio della rivoluzione fu fortissimo in quasi tutto il mondo.
Il Partito socialista italiano nel suo congresso di Bologna (dal 5 all’8 ottobre del 1919) sancì con tre mozioni distinte, ma tutte convergenti, la necessità di attuare una repubblica dei consigli in Italia su modello bolscevico. Lo sciopero doveva diventare lo strumento operativo per creare le condizioni per la rivoluzione. E che altro furono, nell’estate e autunno del 1920, lo sciopero della mungitura nelle campagne e il blocco della produzione per sei settimane di seguito delle grandi industrie del nord, se non il tentativo estremo di raggiungimento del grande obiettivo? Solo la pochezza della classe dirigente socialista, come riconobbero Lenin e  Gramsci, impedì la vittoria. L’incapacità di realizzare la rivoluzione generò la reazione e l’insorgenza fascista. Fu a partire dalle vicende di Palazzo D’Accursio a Bologna il 21 novembre del 1920 e di lì a poco dall’eccidio del Castel Estense di Ferrara il 20 dicembre contro manifestanti fascisti (4 uccisi da fucilate socialiste) che l’ondata nera guidata dai vari Balbo, Grandi, Arpinati, Farinacci, Bianchi,
ecc.) divenne inarrestabile. Il fascismo vinse quando in realtà i social-bolscevichi avevano perso, ma ancora non lo sapevano.
I fascisti non erano culturalmente liberali di destra, ma provenivano per lo più dalle fila del mazzinismo repubblicano, dal nazionalismo, e in molti casi dal socialismo e dall’anarchismo sociale. Mussolini in particolare era stato, come si sa, direttore dell’Avanti: lo storico E. Nolte lo definì giustamente un marxista nicciano. Le stesse origini culturali del nazismo provenivano dall’idealismo tedesco (Fichte in particolare), dal romanticismo e dalla cultura voelkisch per poi legarsi alla veduta del darwinismo sociale. Nel nazismo (la stessa parola lo indica chiaramente) la componente socialista fu assai forte in alcuni capi importanti come i fratelli Strasser e il duce delle “Sturm Ableitung” E. Roehm, che Hitler il 30 giugno del 1934 decise di far fuori, per evitare un probabile colpo di stato dell’esercito e dei grandi industriali, protetti dal presidente della repubblica Hindenburg. Questo significa che i movimenti fascisti in generale erano soprattutto antiboscevischi, piuttosto che antisocialisti.
La loro sconfitta durante la seconda guerra mondiale creò la formazione di due blocchi usciti vincitori: uno liberal-democratico capitalista ed uno sovietico. La sconfitta per implosione di quest’ultimo ha segnato il trionfo del capitalismo a livello mondiale, il quale non avendo più un nemico (il terrorismo islamico è fumo negli occhi) ha potuto finalmente mostrare il proprio vero volto. Per tutto il Novecento il capitale ha dovuto fare i conti con 2 grandi nemici dal diverso modello, ma entrambi anticapitalisti, poiché anche il fascismo, che salvò il capitalismo italiano (una colpa che Mussolini riconobbe nel 1938) era approdato, come il nazismo, all’autarchia produttiva, in antitesi al libero mercato. L’autarchia, infatti, ammette il mercato ma non il libero mercato, ammette la concorrenza ma non la libera concorrenza, ammette la proprietà privata, ma inserita in un contesto comunitario e non a fini personali. Le democrazie capitalistiche hanno perciò dovuto adattarsi a queste presenze ingombranti. Esse furono costrette a concedere sia la formazione di un vasto stato sociale (il cosiddetto Welfare state) sia consistenti diritti sindacali. Il fordismo, il New Deal, il keynesismo economico sono stati gli esempi storici più significativi di tale compromesso. Il 31 dicembre del 1991 finalmente L’URSS si sciolse. Il trionfo era totale. Il capitalismo poteva mostrare hegelianamente la sua assolutezza.
Marx, il marxismo-leninismo, Gramsci, Lukàcs, sparivano dalle università, dai giornali e dalle case editrici. Sono diventati, come si dice, i cani morti della filosofia. Sorge ora una domanda: dopo le critiche di Bernstein, del fallimento dell’ URSS e dei modelli affini, ha ancora un senso studiare almeno Marx ?
Può sembrare una domanda retorica, poiché l’area politica che diceva di leggerlo, la sinistra, si vanta di non leggerlo più. Mentre l’area di destra, che non lo ha mai letto, continua ad ignorarlo o di considerarlo un ebreo sovversivo (proprio lui che aveva scritto un libro terribile contro gli ebrei in gioventù).

Di recente però alcuni ambienti dell’area di destra antiglobalista ha dimostrato interesse per il pensiero marxiano. Casapound, per esempio, aveva invitato il giovane neo-marxista italiano Diego Fusaro, discepolo di Costanzo Preve, il più grande marxista degli ultimi anni, da poco deceduto, suscitando le ire degli estremisti di sinistra che, come si diceva, non leggono più Marx e che lo hanno minacciato, nel caso avesse partecipato all’incontro stabilito. Fusaro ha dovuto rinunciare per non creare inutili tensioni e tuttavia comincia  ad essere noto per il fatto di aver scritto in questi ultimi anni tre notevolissimi saggi editi da Bompiani (Bentornato Marx, Essere senza tempo, Minima mercatalia), in cui si misura con i temi centrali del nostro tempo come il nichilismo, l’alienazione, il globalismo, la precarietà e  la disoccupazione, il ’68 e così via. Egli, sulla scia di Preve, fa una lettura in chiave idealistica del pensiero di Marx, ritenendo che i concetti di “modo di produzione”, di alienazione, di feticismo delle merci, siano concetti pienamente idealistici. Lo stesso Martin Heidegger, nella sua “Lettera sull’umanesimo”, scriveva che il materialismo con cui Marx definisce la sua concezione storica non sta nella sua essenza “…nell’affermazione che tutto è materia, ma piuttosto in una determinazione metafisica per la quale tutto l’ente appare come materiale da lavoro… l’essenza del materialismo si nasconde nell’essenza della tecnica…” (1). Del resto il metodo scientifico col quale Marx indaga il capitalismo non è quello della scienza fisica, basato sulla logica meccanicistica, ma quello della scienza di Hegel,  la cui logica dialettica viene applicata alla realtà socio-economico-politica e non più alle idee concettuali astratte. Ma al di là  di queste necessarie delucidazioni, perché è ancora fondamentale studiare Marx? Paradossalmente, l’analisi del capitalismo di Marx trova conferma più oggi che un secolo fa.

Le critiche di Bernstein erano state confermate dai fatti. I fascismi, a prescindere dagli aspetti culturali su cui si sono formati, si erano imposti perché spinti da un sentimento comune che nasceva dalla minaccia reale della proletarizzazione. I ceti medi tradizionali e soprattutto quelli moderni erano mossi dalla volontà acquisita con l’affermazione personale ottenuta con fatica ed impegno, e non potevano accettare in alcun modo un abbassamento di rango. I ceti medi rappresentavano  figure nuove che erano orgogliose del nuovo status sociale. L’idea nicciana del superuomo, un’idea puramente aristocratica, divenne, grazie anche a scrittori popolari come Gabriele D’Annunzio, Stefan George, Thomas Mann, August Strindberg, Ludwig Klages ed altri, un’idea-forza, una possente aspirazione popolare che si tradusse appunto come reazione all’egualitarismo social-bolscevico. 
Ora ci si chiede: l’analisi di Bernstein è ancora valida?  Esistono ancora i ceti medi?

Se si analizza sociologicamente la popolazione attiva degli ultimi decenni nei paesi tardo-capitalistici, si può osservare che i contadini proprietari sono ca. il 2%, gli operai il 20-25%, i piccoli imprenditori il 10-15%. Tutta la rimanente parte della popolazione, cioè il 60-70% fa parte del cosiddetto terziario, in cui rientrano i ceti medi moderni. Ma essi sono ancora ceti medi? Negli ultimi venti anni, e soprattutto negli ultimi dieci, costoro hanno visto calare i loro guadagni dal 20 al 30%. Nella stessa Germania moltissimi nuovi assunti o sono precari o percepiscono stipendi di meno di 1000 euro al mese. Per cui, di fatto, la stragrande parte della popolazione è ormai proletarizzata, anche se ancora non lo sa: lo sapranno invece i loro figli, che non avranno più lavori sicuri, né una pensione decente. La stessa concentrazione dei capitali è avvenuta in modo incredibile. Tanto è vero che 85 persone possiedono una ricchezza pari a metà popolazione mondiale e che 1000 super-ricchi controllano più della metà del Pil globale. Nell’epoca del capitalismo assoluto, il precariato, l’anonimato, l’assenza della dimensione temporale del futuro rappresentano l’attuale condizione umana. Bisogna rendersi al più presto conto che l’attuale gruppo dominante finanziario-capitalista rappresenta la peggiore classe dirigente che sia mai esistita, poiché essa ha dichiarato guerra ai popoli solo per il proprio forsennato arricchimento personale.

Marx è stato l’unico che finora ha colto con precisione l’essenza del capitalismo, che è il profitto, il più-denaro, e che ha studiato il capitalismo attraverso una schema dialettico, mutuato da Hegel, considerandolo come una totalità organica, i cui aspetti che lo compongono, ossia produzione, distribuzione, scambio, consumo, plusvalore, profitto, vengono sussunti come una totalità organica, in cui le differenze sono concepite nell’ambito di una unità.
E’ superfluo aggiungere che la finalità di un comunismo egualitario è improponibile, poiché antinaturale. Lo stesso Marx, comunque, se lo si conosce bene, non ha mai prefigurato tale egualitarismo, poiché ha sempre scritto che ognuno deve avere secondo le sue capacità e secondo i suoi bisogni. Ed è altresì chiaro che se si vuole comprendere a fondo la nostra epoca non si può fare a meno di studiare anche Nietzsche, Heidegger, Guènon che colgono altri aspetti fondamentali del nostro presente (il nichilismo, la tecnica, il regno della quantità, ecc.). Un nuovo ordine può nascere attraverso una potente sintesi che faccia prendere coscienza alle menti disponibili dello spaventoso caos un cui il capitalismo ci ha trascinati. La sinistra di oggi ha abbandonato Marx e persegue scopi ed obiettivi ipercapitalistici come la distruzione della famiglia tradizionale, l’aiuto ai clandestini, il femminismo rancoroso egualitario, il meticciato, l’antitradizionalismo, il relativismo etico e filosofico.  Marx, oggi, non sarebbe certo paladino di questa sinistra, anzi la odierebbe. Spetta a chi non vuole assistere rassegnato al degrado sempre più insopportabile recuperare e rielaborare il suo pensiero.
Oggi il nemico, scrive De Benoist, “… è rappresentato dal capitalismo e dalla società di mercato sul piano economico, dal liberalismo sul piano politico, dall’individualismo sul piano filosofico, dalla borghesia sul piano sociale e dagli Stati Uniti, sul piano geopolitico. Il nemico principale occupa il centro del dispositivo. Tutti coloro che, in periferia combattono il potere centrale dovrebbero essere solidali” (2).
Note:
1)M. HEIDEGGER, Lettera sull’ “umanesimo”, sta in “Segnavia”, p. 293 ed. Adelphi, Milano.
2)A. DE BENOIST, Sull’orlo del baratro, pp. 171-172 Arianna editrice, Bologna.
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Flores Tovo
f.tovo@libero.it

4 Comments

  • Anonymous 20 Marzo 2014

    Bellissimo articolo, soprattutto ottimo escursione del pensiero politico culturale del primo novecento per chi ha letto poco in materia ( come il sottoscritto);
    Le considerazioni finali mi ricordano un po’ la Quarta Teoria Politica di Aleksandr Dugin;
    Complimenti ancora
    Filippo

  • Anonymous 20 Marzo 2014

    Bellissimo articolo, soprattutto ottimo escursione del pensiero politico culturale del primo novecento per chi ha letto poco in materia ( come il sottoscritto);
    Le considerazioni finali mi ricordano un po’ la Quarta Teoria Politica di Aleksandr Dugin;
    Complimenti ancora
    Filippo

  • Anonymous 21 Luglio 2014

    Nonostante io sia anni-luce distante dall’etica e ideologia di questo sito (sul quale sono finito mentre mi documentavo sulla figura di Evola…la bellezza di internet e wikipedia), volgo un plauso all’onestà intellettuale e all’interessante critica sintetizzata dall’autore di questo articolo.
    Anonimo vicentino.

  • Anonymous 21 Luglio 2014

    Nonostante io sia anni-luce distante dall’etica e ideologia di questo sito (sul quale sono finito mentre mi documentavo sulla figura di Evola…la bellezza di internet e wikipedia), volgo un plauso all’onestà intellettuale e all’interessante critica sintetizzata dall’autore di questo articolo.
    Anonimo vicentino.

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