Nel dare il triste annuncio di una morte che ci ha toccato da vicino gran parte di noi si lascia sfuggire la formula consolatoria “[tizio] è volato via”. Ma «volato» dove? Nel paradiso della Bibbia abitato dagli angeli? Nel jannah del Corano allietato dalle 72 vergini (eloquente numero precessionale)? Perché, allora, svariate generazioni di umani hanno pronunciato le stesse identiche parole molto tempo prima che i luoghi paradisiaci venissero inventati? Fino a che punto tutte queste persone erano consapevoli di essere le occasionali protagoniste di una recita millenaria?
Se di fronte a domande del genere proviamo imbarazzo, chiediamo aiuto a qualcuno che in passato (il presente è distratto) tentò di darsi delle risposte. I Sabei di Harran, per esempio, un popolo che sfornò svariate generazioni di astronomi e autorevoli traduttori dei principali testi ermetici. Ancora nel Medioevo la città di Harran veniva considerata uno dei Centri Tradizionali più importanti dove il cosiddetto «Popolo del Libro» – così lo definì il Corano – continuava a parlare la lingua delle stelle e celebrava cerimonie rivolte a qualcosa definito il «Mistero del Nord» e considerato la Causa Prima, la manifestazione di dio stesso, il Centro da cui irraggiavano tutte le manifestazioni cosmiche prima di diventare principi divini.
Secondo queste genti lo spazio celeste occupato dalla Stella del Nord, o Stella Polare, era il punto di partenza delle anime dei nascituri che scendevano sulla Terra e il punto di arrivo delle anime dei defunti che salivano in Cielo. Tale credenza, già vecchia di millenni, arrivò a cascata a Mandei, Yezidi, Yaresan, fino agli Arabi pre-islamici che nei loro rituali collegavano direttamente il Nord all’«uccello della creazione». Vi accennò anche Confucio nei Dialoghi, citando gli attributi di un buon sovrano: “Chi governa con la virtù è paragonabile alla stella polare, che resta immobile al suo posto, mentre tutte le altre ruotano intorno.”
Immobile per modo di dire, perché questa luce materiale e spirituale non illuminò ininterrottamente il cammino dell’uomo. Ad esempio circa 18mila anni fa, dopo il picco di massima estensione della glaciazione, quando il cielo parve schiarirsi leggermente, come se stesse avvicinandosi l’alba, prima indicazione del fatto che il buio inverno stava allentando la sua presa, i gruppi umani in uscita dagli antri sotterranei troppo a lungo abitati al posto della Stella Polare trovarono ad attenderli soltanto oscurità.
Misteriosamente, la Stella del Nord era sparita e nessuno sapeva dire dove fosse andata. Brillavano in compenso nello spazio lasciato vacante alcune stelle circumpolari che giravano intorno al Polo Nord celeste (rimasto in prossimità della Via Lattea nel periodo 20.500-13.200 a.C.) e non venivano mai viste tramontare. Una particolarità ritenuta eccezionale e ricca di significati, che fece guadagnare loro il titolo di «instancabili».
Spiccava tra i nuovi barlumi la Costellazione del Cigno, governata da Venere secondo la tradizione stellare classica, al cui interno si scorgeva una croce visibilissima nonostante la luminosità della circostante Via Lattea: le stelle comprese fra Deneb e Albireo formavano il braccio verticale mentre quelle fra Gienah e Rukh costituivano le «ali». E’ probabile che tale disegno celeste abbia ispirato molte simbologie successive, compresa la croce di Cristo, ma qui la storia si farebbe troppo lunga e rischieremmo di perdere il filo del nostro discorso.
Nel punto più scintillante di questo tracciato stellare c’era Deneb, che virtualmente baciava l’orizzonte settentrionale nel punto più basso del suo transito, sul meridiano nord-sud, la linea immaginaria con cui gli astronomi vedevano tagliare in due il cielo. Sessantamila volte più luminosa del sole, ormai era lei la più bella del reame. Motivo per cui col passare del tempo i popoli la identificarono con la Croce del Nord, mentre i sapienti custodi di antiche conoscenze incorporarono «la rosa più bella sulla croce» nelle loro riflessioni metafisiche. Prese spunto da simili considerazioni l’anonimo estensore del Fama Fraternitatis Rosae Crucis che nel 1614 annunciò il ritorno della luce dopo il buio (spirituale) causato dal peccato di Adamo?
Patrimonio comune dell’emisfero settentrionale e legato ad evidenze astronomiche il culto del Cigno si diffuse a macchia d’olio, toccando il suo massimo di espansione nel periodo 16.500-14.300 a.C. Nell’emisfero meridionale il Cigno non era circumpolare, la sua visibilità era scarsa, motivo per cui le suggestioni da esso prodotte ebbero sui popoli del sud pochi effetti culturali e religiosi.
Diversa era la situazione nella parte superiore del globo, dove i costruttori pre-diluviani lo «pietrificarono» addirittura nell’ubicazione di molti siti megalitici, tutti perfettamente allineati con questa costellazione: da Göbekli Tepe a Newgrange e Avebury, dai complessi di tumuli e terrapieni di Newark, in Nordamerica, a La Venta e Cuzco, passando dalla piana di Giza (che riflette esattamente il sorgere del Cigno intorno al 10.450 a.C.), fino all’Europa dove il Cigno era presente in varie strutture rupestri.
Deriva probabilmente da questa credenza l’uso antico di mettere un uccello sulla cima dell’albero cosmico, simbolo universale dell’axis mundi, o sul bastone dello sciamano che virtualmente lo percorreva durante i suoi stati di trance. Richiami a tale visione cosmologica sono rintracciabili un po’ dappertutto, dai celebri rilievi rupestri di Lescaux al geroglifico della «pertica» su cui è posato il grande Falco Divino descritto nei Testi di Edfu, dalla «manifestazione della resurrezione del primo mondo sacro» alle tombe degli yakuti, fino alla sommità dei totem dei Pellerossa.
Al di fuori dell’archeologia astronomica si tende ad interpretare tutti questi «uccelli appollaiati su assi» come disegni simbolici dell’«anima-uccello» in procinto di spiccare il volo per l’Altro Mondo. Il discorso non fa una grinza, ma potrebbe essere più completo se si considerasse anche l’aspetto astronomico che stava alla base dei ragionamenti che diedero origine a queste rappresentazioni. Mai dimenticare che gli antichi più antichi usavano la «lingua delle stelle» per parlare di cose serie, lasciando quella delle parole all’ordinario e al quotidiano.
Non fu certamente in nome di una semplice idea che a partire da 17mila anni fa tanto i popoli del mondo uraloaltaico quanto quelli amerindi presero a celebrare su larga scala iniziazioni sciamaniche attorno al «sacro palo». In quel periodo l’asse celeste – prolungamento immaginario dell’asse terrestre – era ancora attaccato alla Via Lattea e l’umanità vedeva quel collegamento come «il palo» di ascesa e discesa attraverso cui lo sciamano poteva entrare in contatto con il «punto» della Creazione. In seguito la precessione lo allontanò dal Cigno, spingendolo in direzione di Vega e della Lira, ma ormai la simbologia legata all’«uccello della creazione» si era impressa in modo indelebile nell’immaginario di mezzo mondo e vi rimase per millenni. Permanendo in minima parte ancora oggi, e a nostra insaputa, altrimenti non diremmo di una persona appena defunta “tizio è volato via”.
Rimane ufficialmente un mistero con quali strumenti l’antenato antidiluviano osservasse la vasta regione oscura generata al centro da polvere e detriti cosmici e allineata al piano galattico. Ma lo ha fatto e su questo c’è poco da discutere. Possiamo soltanto immaginare la sua meraviglia nel vedere al posto del faro spento che per millenni aveva guidato il cammino degli Avi (la Stella Polare) il Cigno celeste che letteralmente «volava giù» da una zona dov’erano concentrate quasi tutte le creature alate del planetario. Tranne il corvo.
Risale a questo periodo l’idea che lassù potesse trovarsi il «nido» delle anime? A causa di tale credenza molti sciamani «misero le ali» e aggiunsero il piumaggio al loro abbigliamento, diventando così uomini-uccello? In Siberia, nella Valle di Angara, gli archeologi hanno ritrovato un gran numero di ciondoli di avorio di mammuth, vecchi cioè di svariate migliaia di anni, ognuno modellato sotto forma di un cigno in volo con un’elaborata incisione della testa e del collo, le ali mozzate e un foro sulla coda che fungeva da apertura per il laccio con cui sistemarlo attorno al collo.
La funzione di quei talismani era probabilmente quella di ricordare all’uomo che li indossava da dove era venuto e dove sarebbe andato. Simboleggiavano il «luogo della creazione», cioè lo spazio cosmico dove gli Spiriti s’incarnavano prima di scendere sulla Terra e si disincarnavano dopo la morte fisica del corpo. Dal Cigno l’anima prendeva forma, al Cigno l’anima faceva ritorno.
Nel continente americano a fare le veci del Cigno c’era la «costellazione della Zampa d’Uccello». Un asterismo legato sia alla Stella del Mattino che alla Via Lattea e considerato anch’esso una specie di autostrada celeste a due corsie in una delle quali scendevano le anime dei nascituri che stavano per incarnarsi sulla Terra mentre nell’altra salivano i morti che, sotto forma di uccelli, tornavano alla base di partenza.
Persino gli egiziani dinastici, che notoriamente non furono dei campioni di astronomia, scrissero nei Testi delle Piramidi (2.200 a.C. circa) che le anime accedevano all’Aldilà, il Sekhet-Aaru, letteralmente i «campi di canne», dopo essere divenuti akh, cioè «spiriti gloriosi», «stelle imperiture», «stelle indistruttibili», «le grandi stelle nel cielo del Nord», e la meta era raggiungibile salendo una «scala» invisibile in quanto spirituale.
Nell’Egeo la credenza giunse in Età Classica insieme ai Pelasgi, chiamati «Cigni», una stirpe alquanto misteriosa indicata come «la madre» dei troiani (detentori dei segreti del Fuoco), nonché l’ispiratrice della dama dei cigni, Nemesi, o Leda a secondo del mito.
In Italia un rapporto speciale legò i Pelasgi agli antichi Liguri, i quali sarebbero stati i primi indigeni dell’Italia centro-settentrionale, nonché gli «italiani» più influenti dei tempi remoti. Ancora nel VII secolo a.C., elencando i popoli più rappresentativi della sua epoca, Esiodo citava (oltre naturalmente ai Greci) gli Sciti a nord, gli Etiopi a sud e i Liguri ad ovest. Resti di mura pelasgiche sono state rinvenute in Valle Argentina, tra Taggia e Triora, come a San Giorgio, un antico «castelliere» ligure che fu poi campo romano e saraceno. Tutti luoghi in cui si praticava probabilmente il culto del Cigno introdotto dai Pelasgi.
Narra un mito ripreso in seguito da Esiodo, da Ovidio e da Virgilio nel decimo libro dell’Eneide, che Fetonte, figlio del Sole, volle guidare il carro del padre ma non possedendo la necessaria esperienza salì troppo in alto e precipitò nelle acque del Po. Il re dei liguri, Cicno, parente di Fetonte, fu tanto sconvolto da quella tragedia che ne morì, venendo quindi trasformato in cigno. L’inaspettato trapasso impressionò enormemente le sorelle di Fetonte, le quali, a furia di piangere, divennero pioppi e le loro lacrime solidificandosi formarono gocce di ambra.
Il racconto potrebbe essere il retaggio di un fatto realmente accaduto: colpiti da un cataclisma che interruppe in qualche modo il regolare transito del sole, i Liguri perdettero prematuramente il loro re, al quale ne subentrò un altro portatore del nordico emblema (l’ambra) del cigno, forse un pelasgo. A quanto pare neppure i Cigni comprendevano più fino in fondo la complessità di una conoscenza maturata migliaia di anni prima, e nel tentativo di conservare almeno un barlume di memoria dovettero condire i suoi derivati in salsa epica.
Mentre noi moderni ci siamo buttati sul favoloso. Non paghi di affermare che i defunti “volano via” senza avere la più pallida idea di ciò che stiamo dicendo, raccontiamo ai nostri cuccioli la leggenda della cicogna bianca che porta i bambini tenendoli col becco in un fagottino che poi cala nei comignoli delle case. Qualcuno penserà anche che si tratti di una trovata di Walt Disney, ma quella dolce cicogna in realtà è un cigno. Lo rivelano culture meno contaminate della nostra, come ad esempio quelle del Baltico, presso le quali non si parla di «cicogne» bensì di «cigni-spedizionieri» che recapitano i neonati a domicilio.
Da radici tradizionali di ordine astronomico germogliò dunque l’idea di «scala delle anime» di cui il Cristianesimo fu l’ultimo fruitore. Giacobbe sogna una scala su cui gli Angeli vanno e vengono in un sali/scendi spirituale che unisce il Cielo alla Terra. Sotto l’aspetto simbolico non ci sono contraddizioni, né differenze tra il concetto di «scala» e quello di «strada» in quanto entrambe le vie permettono lo spostamento ideale da un punto all’altro di un percorso.
Su e giù. Dentro e fuori dal «buco» formato da Deneb nel centro della Via Lattea. Anticamente transitavano per quel «varco», o fenditura, non solo le anime degli umani nati e morti ma anche i Grandi Spiriti che abitavano nell’ultramondo, i quali scendevano sulla Terra a piacimento calandosi lungo l’asse celeste (un palo sciamanico in piena regola) formato dalla Croce del Nord.
Con un occhio al benessere fisico della persona gli yogi indiani ipotizzarono invece l’esistenza nel corpo umano di un ascensore psicospirituale, la kundalini-shakti, che risalendo il canale energetico principale (lo sushumna) lungo la spina dorsale arrivava fin sulla cima della testa (sahasrara chakra), dove si fondeva con Shiva. Mentre oggi l’unica «scala» che sembra interessare alla gente è quella sociale, non essendo più lo scopo di ogni singola vita l’evoluzione spirituale e personale dell’individuo ma la speranza di diventare Qualcuno in tempi brevi, possibilmente facendo soldi a palate.
Il tutto con beneficio d’inventario, s’intende, perché anche chi aspira a vivere nel lusso più sfrenato spera poi che al momento opportuno la sua anima “voli via” per fare ritorno a casa. Segno evidente che il pensiero tradizionale è radicato nella nostra cultura, e dentro di noi, più di quanto ognuno sia disposto ad ammettere.
Nonostante oggi vada di moda dubitare del passato, criticare ogni idea pregressa, mettere davanti a tutto Sua Santità la Scienza, che ha sempre ragione, anche quando sbaglia. E’ difficile di questi tempi toccare temi tradizionali quali la credenza antica nell’esistenza di un «passaggio spirituale» nella Fenditura del Cigno, o l’abitudine dei Sabei di Harran di dormire con la testa posizionata a Sud per fare buoni sogni e maturare idee sagge, in modo da alzarsi l’indomani nella posizione corretta: il Nord, la direzione della Creazione, fonte di luce (spirituale) e di potere.
Può darsi che i predecessori fossero degli ingenui mentre l’attuale umanità sia più realista del re. Tutto è possibile. Compresa l’esistenza di un uomo precedente capace di percepire l’unità del cosmo quale accordo armonico delle sfere celesti. Fatto sta che i fasci impetuosi di Cygnus X-3, una stella della Costellazione del Cigno collassata all’incirca 40.000 anni fa, continuano imperterriti a colpire il nostro pianeta. E non stiamo parlando di una stellina qualsiasi ma di una delle sorgenti più luminose di raggi gamma ad alta energia della galassia. Una causa tra le più potenti in quanto a emissione di raggi X e di onde radio su una «stella massiccia» in possesso di una massa che è dieci volte quella del sole.
Neanche un miracolo potrebbe permettere a una radiazione cosmica di questa portata di colpire la Terra senza provocare conseguenze sulla vita dei terrestri, che sono in primo luogo «corpi elettrici» la cui «tensione» è strettamente legata al magnetismo circostante. Quali ripercussioni dobbiamo dunque aspettarci? La DMT, o «molecola dello Spirito», ne viene potenziata? L’accesso alla «coscienza espansa» è facilitato?
Questi fasci luminosi viaggiano a una velocità prossima a quella della luce insieme a incredibili energie cinetiche la cui complessità strutturale è ancora al vaglio degli studiosi, che per il momento si limitano a dire che «il profilo dei Cygnet non corrisponde ad alcuna particella conosciuta». Non è chiaro come riescano a penetrare nella roccia terrestre, nonostante i 30.000 anni luce di lontananza, né perché si manifestino al suo interno sotto forma di «lampi di luce».
Effetti ottici di questo tipo crearono nel sottosuolo i misteriosi «portatori della luce della conoscenza» incontrati dagli sciamani paleolitici? Sulla scia di ricordi ancestrali i monaci ortodossi del Monte Athos continuano a calarsi nelle caverne sotterranee per ricevere «il dono della luce di dio»?
Posseduti dalla smania di chiarire tutto, come se ciò fosse possibile, noi moderni ci siamo premurati solo di mettere nero su bianco che i fasci di luci di plasma indipendenti non scaturiscono da alcuna fonte ultraterrena, per cui non ci sono «scale» da salire o scendere. Fa specie tuttavia che essi provengano da un’area visibile, altro particolare degno di nota, in cui vivono i nostri gemelli Kepler-452b e Kepler-186f. Due esopianeti che si trovano entrambi nella costellazione del Cigno e orbitano attorno al loro Sole nella cosiddetta zona abitabile, in quella regione cioè che si trova alla giusta distanza perché un pianeta in movimento attorno a una stella possa avere acqua liquida sulla sua superficie, e quindi, potenzialmente, ospitare la vita.
A noi sedicenti padroni della Terra, nonché aspiranti coloni del Sistema Solare, costa parecchio dover ammettere di essere «piovuti» su questo pianeta da chissà quale galassia sotto forma di particelle organiche elementari che le forze elettriche presenti nell’Universo hanno fatto viaggiare attraverso lo spazio. Ma così stanno le cose, a quanto pare. Ne consegue che un’infinità di risposte covano ancora sotto la cenere in attesa che l’uomo risvegliato della prossima Era trovi il coraggio di voltarsi indietro e riaccenda le domande giuste.
Rita Remagnino