Adi Shankaracharya (788 – 820 d.C.) è quel grande sapiente, saggio e santo che ristabilì in India la dottrina Advaita (Non Duale) che per un periodo era stata negletta a causa della propagazione del buddismo, del jainismo e di altri culti. Adi significa “originario” Shankara è uno degli epiteti di Shiva ed Acharya sta per “maestro”. I suoi commentari originali sulle Upanishad, sulla Bhagavad Gita e sui Brahmasutra riportarono in luce le profonde implicazioni spirituali dell’Advaita che stava stagnando anche in seguito ad una pratica religiosa ortodossa e superficiale (in auge a quel tempo), sostenuta dalla casta sacerdotale brahmina. Egli, nella sua pur breve esistenza, reintegrò il vero significato del Vedanta rendendolo inoltre comprensibile alle masse e confutando le formali dottrine buddiste (mahayana, etc.) che pian piano uscirono dalla consuetudine religiosa dell’intera India. Egli fondò inoltre quei “maths” (istituti spirituali) posti alle cinque direzioni, di cui i capi spirituali portano il suo nome. Al nord a Badrinath, nel sud a Kanchi, nell’est a Puri, nell’ovest a Dwarka ed al centro a Sringeri. In ognuno di questi monasteri c’è un maestro che deriva la sua autorità da uno dei principali discepoli di Adi Shankaracharya.
Shankara, dicevamo, è uno degli appellativi di Shiva. Shiva dal punto di vista tradizionale viene considerato l’aspetto della Trinità preposto alla distruzione. Ma tale distruzione comprende anche l’ego, o l’ignoranza, ovvero quell’identità separata che impedisce all’uomo di riconoscersi Uno con l’Assoluto. Perciò Shankara sta a significare “favorevole, propizio” . Egli è l’Assoluto stesso, l’amore indicibile che sorge dal principio “Io” privo da ogni identificazione, la pura consapevolezza di Sé (in sanscrito Atman). Shiva viene anche definito: “Satyam-Shivam-Sundaram” cioè Vero, Auspicioso e Incantevole.
Shankaracharya viene considerato uno dei massimi esponenti del Nondualismo, (in Sanscrito: Advaita) che è l’espressione più sottile e “scientifica” del pensiero spirituale umano. Agli effetti pratici non può essere definita una filosofia, in quanto si pone “prima” ed “aldilà” del pensiero, quindi non potrà mai divenire un argomento di studio o di dibattito. Il Non-dualismo è stato intelligentemente rappresentato da uno dei suoi più recenti fautori, Sri Poonja di Lucknow (detto Papaji), con queste parole: “Immagina l’Uno non seguito dal due e poi abbandona il concetto stesso di Uno”. Non è possibile alcuna speculazione mentale su quanto viene significato con questa netta e assoluta indicazione della realtà.
La concezione Non-duale si affaccia sulla scena del pensiero umano già cinquemila anni fa, nelle ultime porzioni dei Veda (Vedanta) dette Upanishad, in cui si afferma: “Dall’Uno sorge l’Uno, se dall’Uno togli l’Uno solo l’Uno rimane”. Nel VI° secolo a.C. la civilizzazione Indiana è preda di depressioni empiriche e matematiche, in quel periodo vennero accantonate le sottigliezze vedantiche e sostituite da formalismi rituali, teismi e sofismi di vario genere, per questo motivo la venuta del Buddha segnò un rifiorire dell’autentico spirito nel tentativo di superare il materialismo spirituale.
Avvenne così che la dottrina Buddista della “sunyata” (vacuità o vuoto), in cui si nega la sostanza ed il valore alle forme e alle manifestazioni del mondo, riportasse l’attenzione al percipiente. La descrizione dell’esistenza empirica come origine e fonte della sofferenza restituì stamina ed impeto alla realizzazione del puro spirito, ma già nel V° secolo d.C. le diatribe interne ai vari sistemi Buddisti andavano deteriorando la pulizia dell’insegnamento originario del Buddha.
Ed è proprio in quel contesto storico che apparve sulla scena il grande saggio Adi Shankaracharya, che fin da giovanissimo iniziò a riportare la società induista verso la comprensione dell’Uno senza un Due. Lo fece indicando la pratica spirituale quotidiana della rinunzia alle forme pensiero dualistiche: “Neti…Neti” (non questo… non questo). Il grande movimento che ne nacque è ancora vivo e vegeto ed ha quindi prodotto innumerevoli saggi che si riferiscono a questa linea.
Non si può affermare che il Nondualismo possa venir perfezionato, ma per quanto concerne il modo descrittivo possiamo dire che questa affermazione è appropriata nel caso di Ramana Maharshi, il saggio di Arunachala, la solitaria montagna sacra del Tamil Nadu, ove egli visse in ritiro permanente nella prima metà del secolo scorso. Ramana è universalmente riconosciuto come il divulgatore dell’Advaita Nondualista oltre i confini dell’India. Egli, nella strofa X del suo ‘Quaranta Versi sull’Esistenza’ così afferma: “Non vi è conoscenza separata dall’ignoranza, non vi è ignoranza separata dalla conoscenza. Di chi sono questa conoscenza e quest’ignoranza? Vera Conoscenza è quella che conosce la coscienza che conosce, che è il principio base”.
Secondo l’esperienza di Ramana, non vi è alcuna separazione, e tutto perciò viene ricondotto al Sé. Questa sublime espressione della Coscienza che conosce se stessa è stata susseguentemente spiegata, in modo raffinato e culturalmente accettabile per la nostra mente speculativa, dal saggio Indiano Nisargadatta Maharaj, il quale nella sua estrema semplicità descrittiva si limitò ad affermare: “Io sono Quello”. Nella diretta realizzazione del Sé non esistono descrizioni che possano adeguatamente trasmettere questa ineffabile esperienza, ed è per questo che il diniego o rifiuto di ogni assunzione e proposizione spirituale fu la caratteristica di un ultimo campione della linea, e cioè U.G. Krishnamurti – il santo che negava ogni santità che fosse altra dallo stato puro della consapevolezza – esclamando: “le mie parole sono come il raglio di un asino… esiste solo la vita che meravigliosamente compie il lavoro”. Con ciò segnalando il punto finale di “non ritorno” al dualismo empirico.
Molte le storie che potrei ancora raccontare sull’esperienza Advaita ma voglio tornare all’insegnamento di Shankaracharya, e passo alla traduzione del canto che, secondo me, più rappresenta l’insegnamento del grande Maestro, esso si chiama Nirvanasatkam, ovvero:
Sei strofe sulla salvezza
Io non sono né la mente cosciente né quella inconscia,
non l’intelletto né l’ego,
né le orecchie o la lingua, né i sensi dell’olfatto, vista o tatto,
e nemmeno l’etere, l’aria, il fuoco, l’acqua o la terra.
Io sono Coscienza e Beatitudine. Io sono Shiva! Io sono Shiva.Io non sono il prana o le cinque arie vitali,
né i sette componenti del corpo, né le cinque guaine o corpi.
Non la parola, né le mani od i piedi, non l’ano né l’organo sessuale.
Io sono Coscienza e Beatitudine. Io sono Shiva! Io sono Shiva!Neppure sono avversione od attaccamento, avarizia o illusione.
Non arroganza né il sentimento di gelosia, nulla di tutto ciò.
Né rettitudine, ricchezza o piacere sono miei.
Io sono Coscienza e Beatitudine. Io sono Shiva! Io sono Shiva!Io non sono la virtù né il vizio, né godimento o dolore.
Non sono la preghiera né il luogo sacro, non sono le scritture né i sacrifici.
Io non sono il cibo, né chi lo mangia, né l’atto di mangiarlo.
Io sono Coscienza e Beatitudine. Io sono Shiva! Io sono Shiva.Non la morte, né il dubbio, né il senso di classe,
nemmeno il padre, la madre o questa nascita mi appartengono.
Io non sono fratello o amico, neppure maestro o discepolo, veramente.
Io sono Coscienza e Beatitudine. Io sono Shiva! Io sono Shiva.Io sono senza pensiero, senza forma, io sono onnipervadente,
sono ovunque, eppure sono oltre in tutti i sensi.
Io non sono né il distacco né la salvezza, nulla che possa misurarsi.
Io sono Coscienza e Beatitudine. Io sono Shiva! Io sono Shiva!
……..
Om Namah Shivaya. Possa Shiva illuminare la mente di chi legge!
Paolo D’Arpini
Di questi temi se ne parlerà a Vignola, presso agriturismo I Toschi in Via Canova 4, dal pomeriggio alla sera (cena condivisa compresa), durante l’incontro del 7 maggio 2016, organizzato da Mara Lenzi coordinatrice di Aria di Stelle, in pre-celebrazione del Shankara Jayanti (che cade l’11 Maggio 2016). Partecipano con interventi e canti Francesco Balestro e Paolo D’Arpini.
(*) Ringraziamo per la gentile collaborazione Paolo D’Arpini
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