Mai, come in questa tornata epocale, l’involuzione di un’intera area politica e sociale è apparsa tanto evidente. La sinistra americanizzata, la sinistra postcomunista, egemonizzata da intellettuali radical e infarcita di ricca borghesia, ha attuato un’inesorabile mutazione antropologica che l’ha portata ad abbandonare la lotta di classe e la difesa del proletariato per abbracciare tutti i miti del progresso, della società aperta, dell’individualismo sfrenato e del mercatismo.
“Dove è giunta al potere, la borghesia ha dissolto ogni condizione feudale, patriarcale, idillica. Ha distrutto spietatamente ogni più disparato legame che univa gli uomini al loro superiore naturale, non lasciando tra uomo e uomo altro legame che il nudo interesse, lo spietato pagamento in contanti. Ha fatto annegare nella gelida acqua del calcolo egoistico i sacri fremiti dell’esaltazione religiosa, dell’entusiasmo cavalleresco, del sentimentalismo piccolo-borghese. Ha risolto nel valore di scambio la dignità della persona e ha rimpiazzato le innumerevoli libertà riconosciute e acquisite con un’unica libertà, quella di un commercio senza freni.”
Questo brano celeberrimo dimostra il giudizio marxiano positivo circa il ruolo “emancipatorio” dell’azione della borghesia e, in maniera inequivocabile, prova il legame profondo tra liberalismo e collettivismo, la loro vicinanza ideale, attraverso il giacobinismo, lo spirito dei Lumi e la comune radice materialista ed economicista.
Marx, tuttavia, contro la borghesia ed il suo capitalismo chiama alla lotta per il suo superamento, per costruire una società totalmente nuova, fondata sul comunismo. I post comunisti, al contrario, non solo formulano un giudizio positivo sulla globalizzazione mondialista, ma ne celebrano il potenziale liberatorio nei confronti degli Stati nazionali, delle diversità, delle identità e della territorialità dei popoli.
Incredibilmente, essi negano o minimizzano il ruolo degli Stati Uniti, ignorando ogni progetto o ambizione imperiale americana alla quale sono totalmente assoggettati, mentre è evidente che gli Usa sono oggi il centro ed il motore della globalizzazione, il vettore del suo dominio, il luogo di residenza e di irradiazione delle sue organizzazioni più importanti – istituzioni finanziarie e transnazionali, multinazionali – oltreché il quartier generale dell’apparato di controllo di quello stesso potere anodino costituito dalla cupola tecnoscientifica ed informatica, dalle agenzie di rating, delle centrali di comunicazione che scelgono le notizie da diffondere e quelle da celare al pubblico, dai grandi sistemi di spionaggio, nonché dall’esercito più potente del mondo, dispiegato nei mari e nei cieli dell’intero pianeta.
La postmodernità ha costituito un’unica struttura di potere globale, del tutto nuova, deterritorializzata e fondata su un universalismo cosmopolita, avvolgente e reticolare che coinvolge ogni aspetto e momento della vita contemporanea, ma la sinistra radical, imbevuta di liberismo, accetta senza fiatare ogni manifestazione e ogni ingerenza di questo superpotere planetario.
Anche la forza pervasiva della finta ideologia della pace, del diritto di ingerenza e dell’interventismo “umanitario”, è sostenuta riconoscendo il silenzioso ritorno del concetto di “guerra giusta”, che si giustifica di sé per l’autoevidenza delle sue ragioni universali. Si parte da Marx, dunque, ma si procede poi per sentieri che ne negano l’eredità. Il giudizio positivo sulla globalizzazione e sul suo potenziale liberatorio, infatti, giunge a proporre di assecondarne il cammino, definito ineluttabile: anziché resistere alla mondializzazione, occorre favorirne il processo per costruire attorno ad esso forme nuove, più vantaggiose per l’economia, lo sviluppo e la società. Una forma inedita di riformismo attendista, forse, o la bizzarra ideologia di chi accetta un passaggio storico, considerato necessario e positivo, da accogliere con speranza, non certo da combattere frontalmente.
Viene giudicato positivamente anche il declino del diritto internazionale, a conferma della natura anarcoide e utopista del sinistrismo tardo marxista orfano dei suoi feticci, mosca cocchiera del liberalismo radical, con una generica aspirazione al disordine ed al caos, segretamente ammirato dalla “distruzione creatrice” del capitalismo descritta da Joseph Schumpeter. Felicitandosi per la tendenza alla dissoluzione dei confini tra le forme politiche, sociali, culturali del potere e della produzione, anche il giudizio sul capitalismo sfuma, si fa ambiguo e bifronte. Esso ha sì generalizzato lo sfruttamento umano, ma resta il portatore di un intrinseco cosmopolitismo che ne è il frutto positivo.
Il debito nei confronti dell’Illuminismo più radicale è enorme.
La chiave di tutta questa mutazione-contaminazione ideologica, ciò che assimila i post comunisti ai globalisti di matrice liberale o genericamente progressista è la comune filosofia del caos e l’entusiasmo per il nomadismo, lo sradicamento, il meticciato, il rifiuto di ogni legame comunitario. Di qui alcuni dei concetti chiave del loro immaginario, la singolarità come passaggio successivo e gradino inferiore dell’individualismo, l’indifferenza di genere e la genitorialità omosessuale che dissolvono ogni principio naturale, la società multietnica che è l’esatto opposto di popolo ed è distinta dalla massa per effetto delle singolarità delle etnie che la costituiscono, il comune che prende il posto del collettivo, uno sconfinato esercito senza ranghi, un magma umanoide appagato nelle pulsioni primarie, ma del tutto privo di obiettivi personali o comuni. Nessuno spazio, ovviamente, nel radicale materialismo del tutto, per la famiglia, lo spirito, la trascendenza, la bellezza, la contemplazione; si realizza solo un’umanità di scimmie sapienti ma inconsapevoli, connesse alle reti gestite dal superpotere, prive di rotta e incapaci di mete, facilmente influenzabili e governabili.
Una prospettiva che fa discendere di un altro gradino la specie umana: dapprima persone, con un carattere, una forma ed una direzione, poi individui, solitari viandanti della vita dalla bussola smarrita ed ancora consumatori nel tempo libero, utenti, risorse umane nel sistema produttivo. La comunità è ridotta a branco animale che si sposta tutto insieme. La differenza è l’istinto naturale degli animali che conosce la rotta, possiede una direzione e un punto di arrivo.
Ci troviamo difronte all’irruzione di una inedita forza antiumana, di una pericolosa miscela di sovversione e autoritarismo, in cui l’anarchia raggelante dei fini si coniuga e si sostiene mediante il feroce controllo sociale, l’imposizione di un pensiero unico e la repressione del dissenso in forme molto gerarchizzate, spesso più insidiose che nel passato. Si impongono temibili metodi disciplinari, a partire dalla costante messa in concorrenza dei lavoratori, dalla fissazione unilaterale di obiettivi, dalla continua selezione, con le modalità nuove e tecnologiche dell’antico “divide et impera”. La stessa mobilità del capitale genera un potere ogni giorno maggiore, che realizza una violenza nuova e sottile.
Si realizza un comune che non genera affatto comunità – un concetto respinto nell’indicibile e nel passato più oscuro – ma, al contrario, per ibridazione, crea sempre nuove singolarità. La pentola che bolle, il melting pot, viene declinata in una distopica versione occhiuta e collettivista.
La società della sorveglianza e della punizione si serve di mezzi del tutto nuovi, infinitamente più potenti, e punta, almeno in prima battuta, più all’interiorizzazione dei suoi comandi, all’omologazione dei pensieri della massa e sull’impersonalità tecnica degli apparati di controllo che sulla coercizione diretta, cui peraltro non rinuncia affatto, come verifica quotidianamente che si pone all’opposizione del sistema.
Ci troviamo difronte al punto d’arrivo di un percorso subculturale che dal 1968 giunge a noi e si compendia nella dissoluzione di un mondo e nel fallimento di diverse generazioni. Solo l’Occidente terminale, malato di intellettualismo, gonfio di presunzione e superbia palingenetica, tronfio di libertà democratiche e di licenze relativistiche poteva partorire forme di decadenza e di perversione come quelle che caratterizzano questi tempi ultimi. E’, per un verso, la vittoria antropologica, persino ontologica dell’Illuminismo più radicale, nella forma del giacobinismo; dall’altro è l’esito coerente del liberalismo, nel senso della pulsione libertario-libertina che anima certe destrutturazioni del costume.
Il cosmopolitismo, poi, l’ibridazione generale e continuata, il meticciato entusiasta, sono tipici di quei fenomeni che hanno condotto da certi filoni cristiano-marxisti al liberalismo progressista e radicale.
Resta l’economia come unico orizzonte, ma senza neppure il potenziale liberatorio dell’esito finalistico del comunismo compiuto (tutt’altra cosa della sua realizzazione storica concreta novecentesca), un’economia devastata dalla spinta incondizionata al profitto, con la concorrenza al ribasso fra le masse omologate e col superpotere della finanza cosmopolita.
Siamo difronte alla sinistra coerenza che parte dal discorso evangelico, transita per il comunismo e approda alla scoperta di una equivoca società multirazziale e nomade la cui unitarietà è un caos in cui libertà significa assenza di principi o regole, in cui tutto fluisce e scorre non alla maniera di Eraclito, ma verso un nulla che, forse, è il “comune”. L’annullamento di ogni principio identitario in un magma indifferenziato. Un incubo che si presenta con un volto umanitario.
Siamo al cospetto delle forme ultime di un mostro partorito dal connubio antiumano di quelle ideologie contro le quali si sono battuti i nostri padri e contro le quali è lecita una lotta senza quartiere, anche nel loro nome, perché quella guerra non è mai finita.
Enrico Marino